Heroin,
be the death of me
Heroin, it's my wife and it's my life
Because
a mainer to my vein
Leads to a center in my head
And then I'm
better off and dead
Because when the smack begins to flow
I
really don't care anymore.
(Velvet Underground – Heroin)
Un
sorriso, un autografo, una foto, una stretta di mano. A loro basta
questo.
Per fortuna gli occhi gonfi sono coperti dai grandi
occhiali da sole: cosa penserebbero le fan nel vedere quegli occhi
arrossati, stanchi, cerchiati da occhiaie e borse molto poco
invitanti? Quanto caos verrebbe generato da quell'aspetto insano?, o
dai nasi sporchi di bianco?, dalle braccia livide di buchi?
Bill
sollevò un angolo della bocca, chiuse gli occhi sotto le lenti
scure, mentre la fan lo avvicinava a sé tirandolo per la
manica della giacca di pelle e scattava una foto, i loro volti
vicinissimi: sotto gli occhiali quella ragazzina non avrebbe mai
notato come il vocalist abbassava le palpebre, come sonnecchiava,
anche se solo per pochi secondi. Bill le scoppiò a ridere in
faccia compiaciuto da quel pensiero, mentre si allontanava verso la
Berlina, e lei prese quella risata di scherno quasi come una
dichiarazione d’amore.
Il ragazzo piombò sul sedile
e gettò la testa all’indietro, continuando a ghignare.
Quel che doveva fare lo aveva fatto, adesso un po’ di sano
relax. Gli altri della band presero posto al suo fianco; mentre
l'auto partiva, Tom tirò fuori una bottiglia di vodka dal
minibar davanti al suo sedile e la aprì svogliatamente,
avvicinando le labbra al bordo. Gustav si calò la visiera del
cappellino sugli occhi, quel mal di testa lancinante non era proprio
gratificante alla stanchezza. Georg e Bill frugavano nervosi sotto i
sedili e nei vari sportellini dell’auto.
“Cazzo!”,
mormorò il vocalist, richiudendo con un botto uno dei vani
portaoggetti. “Quel bastardo di David c'ha tolto pure queste…
Tom le aveva rollate stamattina. Vorrei tanto sapere dove le va a
mettere.”, una risatina sommessa del rasta colse la sua
attenzione.
“Normale, no? Se le fuma lui. Non fai in tempo a
girare la cartina che già se l’è fregate di
nuovo.”
“Non dire cazzate, sei tu che non sei buono
nemmeno a nascondere quattro fottutissime canne.”, ringhiò
il gemello, tirando un calcio al sedile avanti al suo. “E poi
David non fuma quella roba. Lui... non lo farebbe mai. David non ha
le palle, come noi.”
“Allora nascondile tu in un posto
decente, genio!”, rispose il rasta, i nervi che leggermente
smettevano di restare saldi, la mascella che si contraeva e le dita
che si stringevano convulse attorno alla bottiglia. “Lo sai che
casino succede se uno straccio di fotografo ci fa una foto mentre
siamo fatti? O mentre fumiamo anche solo un misero spinello? Ci
tagliano fuori, Bill, fuori!”, la voce si incrinò. Il
moretto lo fissò di sottecchi, in fin dei conti non aveva
tutti i torti. “Accontentati di una sigaretta.”, concluse
lanciandogli addosso il pacchetto bianco e rosso. Bill mormorò
qualcosa di incomprensibile e sollevò il coperchietto di
carta. Guardò all’interno della confezione
apparentemente innocua e si voltò verso il fratello, che
sorrideva contro la bottiglia a cui era attaccato da ormai cinque
minuti.
“Sei un genio.”, ghignò il vocalist,
mentre le labbra si serravano mollemente attorno a uno degli spinelli
che Tom aveva riposto con cura nella confezione di Marlboro la
mattina stessa.
“Sorpresa!”, ridacchiò il
chitarrista, porgendogli l'accendino. Bill inspirò una densa
boccata di fumo; il sapore era dolciastro, l'odore decisamente
soffocante, eppure acre. Non li infastidiva mentre riempiva
l’abitacolo dell'auto. Georg e Gustav gli strapparono il
pacchetto di mano, imitandolo.
“In mancanza di altro...”,
borbottò il bassista, abituato a droghe di gran lunga più
pesanti.
“Accontentati: in albergo c'è una sorpresa
ancora più grande.”, ridacchiò Tom, a una spanna
dal suo viso. L'odore di alcool impastava il suo alito, l'amico lo
avvertì forte mentre il rasta posava le labbra sulle sue.
“Ma
che fai?”, indietreggiò Georg.
“Oh, andiamo,
Georg. Divertiti.”, bofonchiò Bill, posando la testa
sulle ginocchia del gemello. Il bassista sorrise malizioso.
“Tu
vuoi divertirti, Bill? Ci divertiremo. Ci divertiremo tanto.”,
soffiò a quel punto, tirandosi i capelli lisci indietro con
una mano. Il vocalist si tirò su a sedere e gli sfiorò
il labbro inferiore con la lingua; il fumo che fuoriusciva dalle loro
bocche si mescolava, denso. Spariva dietro a quel bacio proibito,
invisibile attraverso i vetri scuri.
Un bacio insano, insano come
loro quattro.
Insano come le mani di Tom che si posavano sui
pantaloni di Gustav, come le loro instabili risate di fronte a quei
gesti inusuali dovuti al fumo, all'alcool.
“Siamo quattro
puttane.”, sbottò Bill, la sua risata che si amalgamava
a un fiume d'alcool. Le dita di Georg cercavano la chiusura dei suoi
jeans. “Troppo tardi. Non si fanno queste cose, Georg. Non
faremo niente. Dovevi sbrigarti.”, ghignò il cantante
quando la Berlina accostò davanti all'Hotel. “Siamo
giovani, siamo forti ragazzi. Siamo liberi. Ci divertiremo. Noi
sappiamo divertirci.”
***
Tom
canticchiava rilassato sul letto, i jeans sbottonati, una mano
poggiata sui boxer neri, attaccato alla bottiglia dello sconosciuto
superalcolico di turno. La passava a Bill, sul pavimento ai piedi del
materasso, che alternava a ogni sorsata una pastiglia colorata;
Gustav, seduto al tavolino in fondo alla stanza, ordinava con cura
delle strisce bianche e polverose su della carta stagnola.
“Dai,
Gustav, non essere egoista.”, Georg gli si avvicinò un
po’ barcollante, poggiando una mano sulla sua spalla. Aveva
negli occhi la scintilla di una risata vagamente isterica. “Dicci
dove l’ hai messa.”, Gustav sollevò un angolo
della bocca, mentre arrotolava con cura meticolosa un pezzo di
carta.
“Dovrei dirtelo?”, Georg inarcò un
sopracciglio a quelle parole. “Comprala, e non venire a
piangere da me.”, il bassista lo afferrò violentemente
per il collo della maglia, urtando il tavolino. Le righe bianche,
ordinate in strisce perpendicolari al bordo della carta stagnola, si
sparpagliarono. Quel gesto sembrò non turbare il
batterista.
“Tra mezz’ora c’è lo show,
coglione! Non fare scherzi!”, Gustav lo guardò per un
momento, tranquillo. Posò la mano sul suo polso robusto,
staccandola dalla maglietta. Si soffermò nel guardare le sue
braccia, sembrava stesse contemplando la costellazione di buchi
rossastri che ne adornavano la pelle chiara, nordica.
“Rilassati,
amico.”, rise, con quell'aria pacata che non lo abbandonava
nemmeno quando si trovava sotto effetto delle droghe. Tornò a
sedersi accanto al tavolino e risistemò le sue strisce, con la
stessa precisione maniacale di prima. “E' sotto al letto, dove
vuoi che sia? Stavo scherzando.”, Tom si sporse dal bordo del
materasso, alla ricerca di ciò che sfortunatamente serviva
anche a lui. Porse un sacchetto trasparente a suo fratello e uno al
bassista, particolarmente nervoso. Poi, con tutta la calma del mondo,
i tre posarono la carta stagnola sul tavolino e si concentrarono sul
loro lavoro.
“Buon appetito.”, rise Tom, isterico,
posando un dito sulla narice destra e avvicinando l'altra ad un
tubicino di carta.
Si voltarono tutti in direzione della porta
quando sentirono la serratura scattare. David Jost entrò
dentro la stanza, trafelato, prima che potessero muovere un solo
muscolo. Il manager si richiuse la porta alle spalle e a passi decisi
raggiunse i membri della band, impresentabili e di colpo euforici,
scacciando con le mani il fumo che opprimeva la camera.
“Oh
cazzo.”, sospirò l'uomo, passandosi una mano sulla
fronte imperlata di sudore. “Cos'è questa roba? Fate
sparire tutto!”, urlò. Tom rise, distratto.
“Perché?
Cosa fai sennò?”, si alzò in piedi, sovrastando
con la sua slanciata persona il manager. David lo scostò senza
troppi sforzi: in quel momento Tom era tanto imponente quanto
instabile. L'uomo si chinò sul tavolino sporco di droghe di
ogni genere e alcool e lo ripulì con dei fazzolettini di
carta.
“Sta arrivando il vostro produttore, Peter. Cercate
almeno di avere un’aria composta! Non vi reggete in piedi!”,
sbottò disperatamente, le mani nascoste tra i capelli scuri.
Gettò dentro a una busta trasparente tutte le confezioni
contenenti pillole colorate e non, nascondendola nel bagno. Spalancò
la finestra per togliere l’odore di fumo e alcool, sventolando
le mani in aria. Bill si accasciò sulla moquette scura,
sorridendo. Disegnava cerchietti immaginari con il dito, mentre Tom
si trascinava fino al letto, reggendosi i jeans oversize che gli
scivolavano giù dalle cosce. Georg era rimasto accanto al
tavolino, si grattava il naso imbiancato tenendo la fronte posata sul
palmo di una mano.
David si guardò attorno, nel panico. Si
asciugò le mani sudate lisciando la camicia grigia quando,
accanto al termosifone spento, notò quattro siringhe sporche
gettate in terra, e i cocci di una bottiglia di birra che facevano
capolino tra le coperte disordinate del grande letto. Si mise le mani
tra i capelli per l'ennesima volta, mentre componeva il numero di
cellulare del bodyguard. “Saki, vieni subito qui, per favore.”,
mormorò con un filo di voce, accasciandosi su una sedia. Non
aveva davvero più la forza di reagire a quella situazione.
La
guardia del corpo arrivò, obbediente, un attimo dopo. Quando
fece capolino dalla porta, Jost era chino sul letto e gettava i vetri
rotti in un sacco di plastica.
“Ho trattenuto Hoffman il
più possibile…”, balbettò Saki. Si guardò
attorno, i ragazzi erano stravaccati chi a destra, chi a sinistra, in
condizioni spaventose. L'uomo rabbrividì, muovendo qualche
passo verso il manager nella stanza maleodorante.
Bill era più
pallido del solito, ancora raggomitolato su sé stesso, sul
pavimento ai piedi del letto. David correva da una parte all’altra
della camera, nascondendo bottiglie e sacchetti di droghe.
“Sta
arrivando?”, chiese: negli occhi un lampo di esasperazione.
“Il
tempo di bere un tè con Dunja, che è riuscita a
trattenerlo, ma non abbiamo più di 15 minuti, credo… ha
detto che aveva appena mezz’ora, dopo ha un altro impegno.”,
rispose distrattamente l'altro. Prese le buste che il manager aveva
ammucchiato in un angolo della stanza e le chiuse nel box della
doccia, in bagno.
David si piegò sul vocalist della band,
nel tentativo di tirarlo su dalla moquette. “Ti ammazzerai per
overdose.”, bisbigliò, mentre gli colpiva delicatamente
la guancia con il palmo della mano, nel tentativo di rianimarlo.
“Siete impazziti? Bevete, poi sniffate, vi impasticcate...”,
si rivolse anche agli altri, che per tutta risposta gli lanciarono
un'occhiata vaga, distante. Sembrava non si trovassero nemmeno in
quella stanza. Mentre strattonava il braccio di Bill il suo occhio
cadde sull'avambraccio coperto di buchi, lividi. Uno era più
marcato dell'altro. Il manager lo sfiorò. “...e vi
bucate.”, concluse, trascinando Bill fino in bagno. “Chiudilo
qui, è in condizioni allucinanti.”, ordinò alla
guardia del corpo, evitando di incrociare lo sguardo perso del
diciottenne. L'uomo fece sedere Bill sulla tavoletta chiusa del
water.
“Stai buono qui.”, gli disse, come se potesse
sentirlo. Gli occhi vacui di Bill erano probabilmente impelagati in
mondi distanti, diversi dalle pareti celesti di quel bagno.
David
sollevò Gustav, che sembrava avesse la fronte incollata al
tavolino; con uno sforzo non indifferente lo costrinse a sedersi su
una sedia. Fecero lo stesso con Georg e Tom, lasciandoli distesi sul
materasso.
Bill, chiuso in bagno, era quello che fisicamente stava
peggio di tutti. Barcollante, si sollevò dal water
avvicinandosi al lavandino. Si fissò nello specchio e si passò
una mano sulla guancia cadaverica e gelida.
La testa girava
vorticosamente, si osservò la punta delle dita, che gli
appariva sbiadita e sfocata, tremolante quasi fosse liquida. Vide una
trousse rossa, probabilmente lasciata dalla ragazza che aveva
alloggiato la notte prima in dolce compagnia di suo fratello, posata
sopra al bordo del lavello. La aprì, alla ricerca di qualcosa
di impreciso. Tirò fuori un bastoncino, simile a uno
spazzolino senza setole. Se lo infilò in gola, lo spinse lungo
la lingua, contro il palato, con forza. Voleva vomitare la sua stessa
anima, che aveva deturpato con le proprie maledettissime mani. A dire
il vero voleva vomitarsi addosso tutti gli insulti di cui era capace.
Era un drogato, un alcolista, un mezzo anoressico, ecco
cos’era.
Sentiva l'acre sapore del vomito misto a quello
dell'alcool che gli risaliva su dallo stomaco, percorreva l'esofago
e, bruciando, passava per la gola, che ora gli sembrava minuscola.
Gli pareva di soffocare... forse era quello che voleva. Gli faceva
male, era questo che contava. Sentiva lo sterno pigiare sulla cassa
toracica e sorrideva. Era felice di quel dolore. Poi il sorriso svanì
mentre chiudeva gli occhi e ricordava.
Maledisse il momento in
cui aveva provato quella maledetta canna, e dopo quelle pasticche,
poi la coca. E infine tentò di dimenticare come aveva preso
tra l'indice e il dito medio quella siringa e poggiato l'ago
sull'avambraccio, spingendolo sotto la pelle… poi, con il
pollice, aveva spinto lentamente lo stantuffo. Il liquido trasparente
era sceso nelle sue vene, le aveva riempite, si era mescolato al
sangue già infettato dall'alcool.
Si tolse il bastoncino
dalla gola e aprì l’acqua del rubinetto. Lo fissava
scorrere via, lungo la ceramica bianca; seguiva con gli occhi le
ipnotiche spirali che la sostanza creava sulla superficie liscia
mentre spariva nello scarico e gli bastavano quei maleodoranti giochi
a distrarlo dal filo dei suoi pensieri.
Saki e David continuavano
a girare per la camera nervosi come due giaguari in gabbia. Poi, due
colpi secchi sulla porta e una voce tonante li fece sobbalzare. Il
manager corse ad aprire, ed un furioso Peter Hoffman picchiettava
insistente la punta dell’elegante scarpa a terra.
“Spero
abbiate un'ottima motivazione per tutto il tempo che mi avete fatto
perdere.”, sibilò, mentre tra le mani ruvide stringeva
quelli che sembravano proprio dei contratti per i Tokio
Hotel.
“Scusaci, i ragazzi dormivano: ieri hanno avuto molto
da fare, abbiamo voluto renderli presentabili...”, abbozzò
David, passandosi nervosamente una mano nei capelli scuri. Aveva la
fronte imperlata di sudore, così come le sue mani
umidicce.
Bill, oltre la porta chiusa a chiave, ascoltava in
silenzio, l’orecchio poggiato contro il legno chiaro e liscio.
Una lacrima scese sul suo viso quando sentì il rumore di
alcuni fogli di carta che venivano strappati con forza, e le urla
furiose del produttore. “Jost, chi credi di prendere in giro?
So tutto! Tutti lo sanno!”, urlò, rosso in viso per la
rabbia. “Hai tirato su dei drogati! La gente lo sa, li chiamano
“le nuove Britney ed Amy Winehouse!”, le persone gridano
che dobbiamo mandarli in rehab! Cosa credevi di mollarmi, David? I
primi quattro barboni alcolizzati che avresti trovato per la strada?
Quattro diciottenni che sanno solo farsi canne e buttare giù
pasticche di tutti i generi? Puntavo molto sul concerto di stasera,
ma ora...”, lasciò la frase in sospeso. David deglutì
faticosamente, quel groppo nella sua gola non voleva saperne di
scendere.
“Ora...?”, tentò il manager. Il
colletto della sua camicia sembrava stretto. Troppo stretto.
“Mi
rifiuto di produrre la loro spazzatura. Non meritano un centesimo dei
soldi che prendono. Per cosa li spendono, poi? Per droghe!”,
strappò l'ennesimo foglio, nelle sue parole un sorriso
amaro.
“Quando hanno cominciato non erano così,
Peter!”, reagì David. “Hanno iniziato senza che io
lo sapessi. Quando l'ho scoperto era troppo tardi, andava avanti già
da mesi. Abbiamo provato di tutto, non siamo riusciti a farli tornare
indietro.”, il produttore ascoltava in silenzio, ma non voleva
saperne.
“Non propinarmi queste stronzate! La Universal
puntava su di loro. Tutti
puntavano su di loro. Ora sarebbe meglio buttarli nel cesso.”,
David tacque, le spalle si incurvarono leggermente verso il basso e
gli occhi si puntarono sulle scarpe. Bill si tappò le
orecchie, si accucciò sul pavimento, la schiena poggiata
contro la porta chiusa. Strinse i denti mentre le lacrime piene di
odio, rabbia, ribrezzo verso sé stesso scendevano copiose sul
viso chiaro. Si sdraiò a terra, sulle mattonelle celesti. Il
suo sguardo finì verso il mobiletto sotto il lavello: tra il
pavimento e il fondo della piccola cassettiera vi era uno spazio; in
fondo, contro il muro, notò una fiala di vetro marrone.
Allungò il braccio fin sotto il mobile e l'afferrò.
L'avvicinò ai suoi occhi per osservarne il contenuto, era un
liquido opaco. Sul lato c’era un'etichetta bordeaux, minuscola:
Heroine. Si trascinò verso la doccia e aprì il
box. Strappò con le mani uno dei sacchi di plastica nero e
frugò tra i cocci, le bottiglie d'alcool e le confezioni di
pastiglie. Trovò una siringa usata; la prese e poggiò
la schiena al muro, asciugandosi una lacrima sfuggita dai suoi occhi
spenti con il dorso della mano. Infilò l'ago attraverso il
sigillo della fiala di eroina. Con il pollice tirò su lo
stantuffo; la siringa si riempì del liquido rosato. La
estrasse dalla boccetta e avvicinò la punta all'avambraccio.
Lo osservò senza muoversi di un millimetro. Di cosa aveva
paura ora? Non era la prima volta. Cos'era che lo bloccava? La testa
che girava? La nausea? Quella sensazione di oppressione che soffocava
il suo petto? No, no.
Chiuse gli occhi, ma le palpebre sembravano
scoppiare mentre le lacrime sgorgavano giù a fiotti e le
spalle iniziavano a tremare, scosse da fremiti ancora leggeri. Guardò
solo per qualche secondo il suo braccio sinistro, e posò l'ago
su un lembo di pelle sul quale spuntavano le ombre di vecchi buchi.
Con una leggera pressione spinse la punta della siringa sotto la
pelle, nella carne, attraverso le vene. Pigiò sullo stantuffo
ma non guardò la sostanza scivolare nelle sue braccia. Pensò
a come rideva mentre lo faceva di solito, in compagnia di Georg,
Gustav e Tom. Pensava alle risate nervose quando era Tom a iniettare
la droga nelle sue braccia, a come lo facevano a vicenda. Bill
drogava Tom e Tom drogava Bill. Come fosse un gioco. Come quando da
bambini si impiastricciavano a vicenda il viso di farina mentre la
mamma cucinava. Ora si leccavano a vicenda le dita sporche di coca...
che idioti.
Rivedeva Georg pigiare una pillola sulle sue labbra
dischiuse, cavalcioni sul suo bacino nel bagno di qualche locale.
Pensava a Gustav che gli porgeva il tubo di carta e a come lo
invogliava a chinarsi sulle strisce di polvere bianca. Era tutto un
divertimento, tutto un gioco. Uno scherzo. Per sentirsi forti, per
godersi la vita.
Sfilò l'ago dal braccio e si stropicciò
il naso umido, mentre gettava la siringa sul pavimento e la scalciava
con i piedi, lontano, accanto alla parete che aveva di fronte. “Ti
ammazzerai per overdose.”, pensava alle parole esauste di David
e ghignava. Un fremito più forte degli altri lo fece
letteralmente sobbalzare. Colpì piano il muro con la nuca e si
asciugò con un dito un rivolo di saliva che era sceso dal lato
della sua bocca mentre i fremiti si intensificavano. Si chinò
su un lato, raggomitolandosi su sé stesso tra il box doccia e
il bidet. Strinse forte le ginocchia al petto mentre sentiva la droga
improvvisamente eccessiva nel suo corpo, troppo potente per
permettere al suo organismo di reagire positivamente.
In un
barlume di lucidità, mentre sorrideva e piangeva nervosamente,
prese il telefonino dalla sua tasca e, con qualche difficoltà,
viste le mani che continuavano a traballare, tentò di scrivere
un messaggio. Una pagina bianca si aprì sul display luminoso.
“Ci sentivamo forti... ma era solo un'illusione. Ciao
Tom.”
Già. Un'illusione. La stessa illusione che
provavano quando tutto attorno a loro sfumava, diventava più
divertente; quando la testa sembrava così leggera e i pensieri
così poco fitti da permettergli di uscire per un po' dalle
reali pareti del mondo che li circondava. Ed era così bello
mentre tutto girava, mentre qualunque cosa sembrava compiacersi per
loro. Li avrebbero invidiati, tutti quanti: avrebbero invidiato il
loro modo di divertirsi, avrebbero invidiato il loro successo, il
loro sporco, ricchissimo successo.
L'eroina: la più
potente. La più forte. Wonder Woman,
quella si che era un'eroina. Non questa stupida dose di sostanze
allucinogene. Eppure era facile giustificare il suo nome. Ti faceva
sentire potente, importante, un eroe,
appunto. Era Bill l'eroe? Sono io?,
si chiedeva.
Frustrazione.
Il cuore sembrava scoppiare nel
petto, nella testa i neuroni esplodevano come fuochi artificiali.
Bill chiuse gli occhi; un passionale, distruttivo, folle
gesto per scappare. Stavolta per sempre.
...Dietro a ogni eroe c’è
sempre una grande eroina.
Eccomi qui con
questa OS completamente rivisitata e ristrutturata da capo a piedi
:D
Avevo postato questa storia già qualche anno fa, in
chiave molto più elementare, breve e grammaticamente
inferiore.
L'altro giorno rileggendola mi sono resa conto della
forza dell'argomento. Trattare il tema droga con quella leggerezza e
con un raiting verde mi sembrava quasi una presa in giro. È
un tema forte, scriviamo una OS forte, mi sono detta. U_U
Non ero soddisfatta di questa storia all'inizio, ma una volta
risistemata mi sembrava accettabile, quindi ho eliminato l'altra e
postato questa, con diversa introduzione e forma completamente
differente. La trama è identica, ma ho rivoluzionato il tutto.
Non è granché nemmeno questa, ma sinceramente è
più appagante leggere questa dell'altra XD
Ho inserito un
po' di... yaoi, per così dire. Non so, tanto per rinforzare
xD, mi sembrava ci stesse bene.
Detto questo, aspetto e accetto
vostri commenti, apprezzamenti, e ovviamente e soprattutto
critiche. Mi sono molto utili per crescere e le accetto tutte di buon
grado ^^
Apprezzo anche paragoni con l'altra versione, per chi in
passato l'avesse letta.
Che altro dire...?
Enjoy :D
=Alice=