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Autore: CloyingCyanide    06/09/2010    0 recensioni
Scritta per la prima prova del contest "Fino all'ultimo respiro" indetto da Dreams Writers. E' una missing moments ma soprattuttto spoiler della mia prima fan fiction Just Like Heaven perciò, se seguite quella, ve la sconsiglio ù.ù
In un momento in cui pensa solo al futuro, Maya si rende conto di avere dei conti in sospeso con il proprio passato. Preparate i Kleenex se siete particolarmente sensibili!
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Shannon Leto
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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21 febbraio 2005

Cara Maya,

ho deciso di scriverti questa lettera per spiegare molte cose che a voce non so dirti, e nemmeno dimostrarti con i gesti. In realtà non so nemmeno se te la consegnerò mai. Beh, mi conosci, quindi sai quanto mi costi mettere a nudo ciò che provo, ma sai anche che se sto scrivendo questi miei pensieri vuol dire che ho scelto di potermi confidare con te. Stenti a crederci, non è vero? Io, così schivo e riservato, che cerco di mettere nero su bianco tutte le gioie e gli affanni che popolano il mio cuore? Quasi quasi non ti sembro io, di’ la verità. Eppure posso assicurarti che sono sobrio, ed è proprio per questo che ho approfittato di uno dei miei rari momenti di lucidità per sedermi alla scrivania e buttar giù qualche riga per te. Oh, lo sai, non sono capace a scrivere, faccio una fatica immensa. Spero che apprezzerai comunque la mia franchezza e saprai capire e perdonare ancora una volta ogni mio singolo gesto, pur rendendomi conto di esser stato un perfetto imbecille.

Non avrei mai dovuto comportarmi così con te che fai di tutto per salvarmi. Tutto il tuo tempo, le tue energie, le tue cure spese per me. Mille volte mia sorella mi ha detto che sono un ingrato, e anche io l’ho sempre pensato. Sono troppo fragile per esserti riconoscente, e con questo non voglio giustificarmi, ma anzi riconoscere un mio enorme difetto. E mi conosci abbastanza bene per sapere che tutto quello che cerco di mostrare è di essere forte, sebbene sotto questa corazza ci sia un bambino che non ne vuol sapere di crescere. Ho ventiquattro anni, sarebbe pure ora di smetterla con questi atteggiamenti infantili e diventare finalmente un adulto.

Ma non è da me. C’è prima un altro grande problema da risolvere, o quantomeno da attenuare. Perché sai, piccola, dubito che ne uscirò mai, da questa situazione di merda in cui non ho esitato a cacciarmi. E, sì, scusami se ti parlo in questo modo, in tutta sincerità, ma non riesco a sopportare ancora di darti false speranze. Illuderti non ti servirà a niente, ma non ho le palle per dirtelo e vederti soffrire ancora di più. So che vorresti strapparmi via da questo brutto sogno, e che ti impegni con tutta te stessa per fare il mio bene. Però, Maya mia, un tossicodipendente rimarrà per sempre tale, ed è pressoché inutile che tu ti sforzi tanto per farmi superare questa realtà.

Ci sono entrato consapevolmente, e sempre consapevolmente sapevo che sarebbe stato un vicolo cieco: non so cosa mi abbia spinto ad addentrarmi sempre di più in questo mondo, fatto sta che ci sono. Nel bel mezzo di un fottuto mare di… niente. Non c’è proprio niente qui. O meglio, lì, visto che ora sono sobrio, come ti ho detto. E probabilmente tornerò a bucarmi non appena avrò imbustato questa lettera, non te lo nascondo. Faccio schifo, sì, ti do ragione.

Ho provato a mettere via tutto, a buttare le siringhe e dare a te tutti i miei soldi, in modo da non averne più per ricomprare altra roba, ma ricordi quant’è durato? Un’ora. Giusto il tempo di far mente locale e scendere in strada a contrarre altri debiti. Vuoi che ti ricordi anche com’è andata a finire? Te e Mattia mi avete messo dentro la doccia, bagnato e schiaffeggiato, urlando il mio nome per svegliarmi mentre l’ambulanza arrivava. Ennesima corsa in ospedale. Ennesima overdose da eroina.

Ma finora ce l’ho sempre fatta, e solo grazie alla tua prontezza e la tua lucidità nei momenti più critici, al tuo sapere esattamente come agire, al tuo saper riconoscere al primo sintomo quando qualcosa stava per andare storto, alle fiale di Narcan che tieni sempre a portata di mano per iniettarmele e limitare così la punizione che voglio infliggermi da solo. Già, ti sei dovuta improvvisare infermiera per me.  E sai quanto mi dispiaccia farti crescere così in fretta, sebbene veda nei tuoi occhi rigonfi d’amore che non ti pesa soccorrermi, ma piuttosto vedermi cercare incessantemente quello che è uno sballo mortale.

Nessuno mi avrebbe mai salvato, ripescato col cucchiaino prima che cadessi nel baratro per tutte quelle volte, se non te. Mattia sarà pure il mio migliore amico, e gli devo molto, ma non fa altro che incazzarsi e urlarmi contro, e “Simone, sei un fallito”, “Simone, fatti curare”, “Simone, se ti ficchi un altro ago nel braccio ti prendo a calci nel culo” e così via. Lo conosci perfettamente, lui e le sue inutili sfuriate che lasciano il vuoto dentro di me una volta che sbatte la porta e se ne va. Non succede invece così con te, chicca mia. Te che, i primi tempi, eri terrorizzata e scappavi, troppo piccola e inesperta per sapere come comportarsi con un ragazzo difficile come il sottoscritto.
Ma sei sempre tornata.
Venivi a recuperarmi ovunque io fossi, al parco, in un locale o sotto il ponte, e, fatto o ubriaco com’ero, mi portavi a casa tua, mi toglievi portafoglio e chiavi della macchina chiudendoli in un cassetto, mi facevi la doccia e mi mettevi sotto le coperte, trattandomi come fossi il tuo bambino, che in fondo è quel che sono. Andavi in cucina e io dalla camera ti sentivo armeggiare con pentole, piatti e padelle, e alla fine ricomparivi lì, sulla porta della stanza, con qualcosa di caldo e delizioso da farmi mangiare e un sorriso infranto che mascherava tutte le lacrime che non sei mai riuscita a versare. Ti sedevi sul letto, accanto a me, e mentre io mangiavo stavi in silenzio al tuo posto, guardando il pavimento con aria malinconica. Non sono mai stato in grado di dirti nulla, in quei momenti. A farti sapere che mi dispiaceva da morire che fossi tu a farti carico di tutto: avevi solo diciassette anni, e io non avevo alcun diritto di rovinare le tue giornate, di vedere i tuoi occhi neri spegnersi di quell’allegria che mi è piaciuta di te sin dal primo istante. Oh, beh, è vero, ci conosciamo da quando hai iniziato il liceo e venivi a casa nostra per studiare con mia sorella, ma ci ho messo parecchio a capire quanto avessi bisogno di te.


Non mi bastava più sentirti ripetere nella stanza accanto, o imprecare contro la fisica nella vana speranza di riuscire a far bene gli esercizi. Mi facevi compagnia, sai? Senza rendertene conto. Io mi mettevo a fumare sul letto, o a disegnare, e tendevo l’orecchio verso il muro per sentire la tua voce, nella stanza a fianco alla mia. E ridevo insieme a te, mi dispiacevo quando, nonostante i numerosi tentativi, non riuscivi a trovare l’equazione che cercavi, per non dire di quanto mi incazzavo tutte le volte che raccontavi a Daphne di quanto volessi bene al tuo ragazzo, quanto lui ti facesse sentire speciale e bla bla bla. Però onestamente ci sono rimasto male quando vi siete lasciati, non sapendo ancora che tu l’avevi fatto solo perché l’unico pensiero nella tua mente ero io e non più lui. Strana la vita, eh? E, fidati, me ne sono convinto del tutto quando, pochi giorni dopo, ti ho vista entrare in camera mia a chiedermi l’accendino. Ti ricordi?


“Simo, posso disturbarti un secondo? Non è che hai da accendere?”
Ho aperto la porta senza esitare, e tu eri lì: i tuoi capelli mossi sciolti morbidamente lungo le spalle, gli occhi imbevuti dei sogni di un’adolescente come molte e come nessuna, una Winston blu stretta tra quelle labbra che niente al mondo avrebbe potuto farmi smettere di desiderare. “Certo, accomodati, ci facciamo una bella fumata insieme se ti va” ti dissi, porgendoti l’accendino e invitandoti ad entrare. Non hai indugiato nemmeno un secondo alla mia richiesta, consapevole anche tu che saremmo andati molto oltre una semplice sigaretta, quel pomeriggio.
“Ti ho interrotto, Simo? Che stavi facendo?”
Mi accesi una delle mie fidate Lucky Strike, andando a sedermi sul letto vicino a te. “Niente di speciale, disegnavo un po’”
“Tanto per cambiare” mi sorridesti, espirando verso l’alto. “Io invece sono in pausa. Abbiamo finito di studiare e volevamo metterci a suonare. Tua sorella è già in garage, ma io le ho chiesto un po’ di tempo libero prima di scendere”
Risi. Capivo esattamente cosa volessi dire, cosa volessi da me. E mi piacque non poco. Ma volevo stuzzicarti, e accertarmi che non mi stessi sbagliando, perché in quel caso mi avrebbe bruciato molto. “Con questo, cosa intendi?”
“Che siamo soli in casa, Simo, e… so che anche tu vuoi me, quindi, ti prego, facciamolo adesso perché non so quando altro ci capiterà un’occasione del genere”


Sincera. Come ti ho sempre voluto, perché è così che sei. Niente ipocrisia. Niente timore nel dire quello che pensi. Spensi la sigaretta nel posacenere e tu facesti altrettanto, un secondo prima che le mie labbra si muovessero ad assaggiare le tue. E lentamente, ci siamo stesi sul letto, col mio desiderio che cozzava contro la tua dolcezza, finché i nostri pianeti non sono entrati in una collisione di fuoco e sentimento.

Mi piacevi già allora in ogni piccola cosa: dal nasino all’insù a quelle poche smagliature sui fianchi; al tuo seno ampio e ospitale, infuocato come un tizzone sotto le mie mani e la mia bocca; al sorriso mosso dall’intensità del piacere; alla tua pelle liscia e dorata; alle tue manine intrappolate tra i miei capelli; a quel tuo ansimare dolcemente e con una punta di timore quasi reverenziale.  Ah, chicca mia… Eravamo solo agli inizi, eppure già sentivo che appartenevi solo a me, che ti avrei custodita gelosamente, perché avevo un disperato bisogno dell’immenso affetto che solo tu sapevi darmi.

Ebbene, tesoro, da quel giorno sono passati quasi due anni. Incredibile, vero? Sembra ieri anche a me. Questo periodo ci è servito molto, soprattutto a te che diventi sempre più donna ogni giorno che passa. Ti vedo, sai? Ora non esci di casa se non è tutto in ordine, ti curi di più, ti vuoi bene. Stai crescendo, Maya, e sono orgogliosissimo di aver avuto la possibilità di vederti cambiare di giorno in giorno. Sei una persona matura, ed è per questo che so che capirai perfettamente lo scopo di questa lettera: farti sapere che non guarirò mai.

Perciò, se tengo a te, dovrò lasciarti libera e dirti addio. Ma non ho le forze né il coraggio per farlo; se perdo te, perdo tutto quello che mi è rimasto. E stavolta voglio proprio fare l’egoista: scelgo di averti al mio fianco piuttosto che lasciarti vivere in pace. Sono un approfittatore? No, piccola, sono innamorato.

Già, questa è un’altra cosa che non ti ho detto. Ti amo. Scriverlo è più facile, non c’è nessun nodo alla gola a ribadirmi il peso di quelle parole. Ti amo. Aah, che senso di liberazione, ora che l’ho ripetuto! Ti prometto che un giorno troverò le forze per dirtelo, calerò del tutto questa maschera da finto duro fallito che solo te mi hai aiutato a strappar via, e mi abbandonerò alle tue braccia. Ma sarà solo quando capirò che stare con me non ti farà più bene che me ne andrò. E senza dirti nulla; lo sai che odio gli addii. Scenderò dal tuo letto, prenderò le mie cose e mi vestirò, poi mi girerò a fissare te che dormirai ancora e ti bacerò un’ultima volta prima di sparire.

Non odiarmi per questo: sono convinto che tu sappia comprendermi. Io non voglio esserti di ostacolo nei tuoi sogni, ok? Sto solo aspettando il momento giusto per mettermi da parte. Non so quando sarà, quindi non viviamo con l’ansia dell’arrivo di quel giorno, che ci logorerà senza giovare a nulla. Continuiamo a volerci bene e a crescere insieme, il destino farà il suo corso. La vita è fatta soprattutto di questo: cose che iniziano e cose che finiscono. E, quando tra me e te sarà finita, sarà solo un nuovo inizio. Di cosa, lo scopriremo.


Ti auguro tutto il bene del mondo, perché lo meriti. Perché hai donato tutta te stessa al tuo ragazzo tossicodipendente, amandolo in ogni suo profondo recesso, senza rinfacciarlo mai.
Sei la mia bambina, Maya. E grazie di avermi regalato giorni stupendi di risate, sostegno e tenerezza. Dovrebbero essercene di più, su questa Terra, di persone come te. Invece tu sei una. E solo mia!

Mia.

Qualsiasi cosa succeda, anche quando le nostre strade si divideranno, e tu sarai pronta a volare da sola, abbastanza cresciuta per privarti di me che ti farò solo da zavorra.

Mia.

Spicca pure il volo, ma non dimenticarti mai che il tuo cuore batte nel mio.
 

Ti amo, chicca
Simone

 
 
 





12 novembre 2009

Caro Simo,


tanto per cominciare, perdonami. Non avrei dovuto leggere la lettera, visto che non me l’hai mai consegnata, però… è stato più forte di me.

Quando l’ho vista ho incominciato a fremere, e in un angolino del mio cuore si è riaccesa quella speranza che stenta a spegnersi definitivamente, nonostante sia del tutto irrazionale: la speranza che tu esista ancora. Ho pensato subito che avevi voluto lasciarmi un messaggio per dirmi dove ti fossi nascosto, in modo che ti potessi raggiungere, e allora ho aperto la busta senza ragionare oltre.
Ma mi sbagliavo. E me ne sono resa conto leggendo la data: 21 febbraio 2005.

Sono passati quattro anni, da quel giorno, eppure non smetto di illudermi. Non sai cosa darei per svegliarmi di nuovo con una tua carezza, o sentirti parlare a voce bassa nel buio della mia camera, o imbattermi nel tuo sorriso da capogiro. Chicco… Mi manchi, e non c’è cura. Con la lettera, poi, non ho avuto modo di resistere al pianto, e qualche lacrimuccia è corsa lungo le mie guance. No, non si è asciugata da sola: è passato, quel periodo in cui rifiutavo di essere consolata. C’era lui accanto a me, mentre leggevo, e mi sosteneva leggermente, con un braccio attorno ai miei fianchi e l’altra mano intenta ad asciugare il mio viso, per poi sorreggermi quando stavo per svenire, due secondi dopo essere giunta alla fine. Lui, sì. Ma ne parleremo dopo: ora voglio metterlo un attimino da parte per lasciare spazio ai ricordi.


Ricordi bellissimi ma letali, Simo. Mi rubano ogni respiro, ogni battito cardiaco, ogni speranza di poter vivere anche per te. Non ce la faccio, non ce l’ho mai fatta ad accettare questa realtà. Ma cos’altro avrei potuto fare? Mattia dice che non devo avere rimpianti, perché ho reso bella la tua vita, e sono stata l’unica a sostenerti e starti accanto realmente. Però non mi basta, Simo, sento che avrei potuto fare qualcos’altro ancora, per te.

Se solo avessi conosciuto le parole giuste da dedicarti, avrei potuto vederti sorridere una volta in più. Ti avrei stretto a me, facendomi piccola piccola contro il tuo petto, e avrei respirato sulla tua pelle mentre mi accarezzavi i capelli. Proprio come facevamo sempre, nei momenti di tenerezza. Ti ricordi? Io sì, e non so cosa darei per riviverli. Mi mancano. Mi mancano da farmi star male, e non mi importa se lo ripeto fino alla nausea, perché è così. Mi manchi tu, piccolo.

Mi manca tornare a casa e trovarti svaccato sul mio divano, mezzo addormentato davanti alla tv e con un sacchetto di patatine mezzo vuoto appoggiato sulla pancia, tanto per sgranocchiare qualcosa mentre cerchi di ingannare l’attesa. Mi manca trovarti così, e mi manca sedermi vicino a te a farti le coccole, a rintanarmi sotto la copertina, strofinare i miei piedi contro i tuoi polpacci e chiederti com’è andata la tua giornata.

Mi manca quando facevamo gli esperimenti in cucina, e si finiva sempre con qualche padella che prendeva fuoco, o una pentola che si rovesciava, o la pasta troppo salata… Quante risate, chicco, ricordi? E quant’eri bello, lo so solo io. Ridevi, ridevi, con quegli occhi verdi splendenti, e quel sorriso semplice e dolce, le fossette sulle guance, la barbetta millimetrica…
E le nostre vacanze? Te le ricordi quelle settimane in campeggio, in Puglia, con tutti gli amici? O quando mi hai portata a Praga per i miei diciotto anni? Io non ho rimosso nulla, chicco, tengo tutto aggrappato alla mia mente e al mio cuoricino.

Tutto.
I momenti belli come quelli brutti.

Le nostre litigate, i tuoi attacchi di gelosia, le notti passate in ospedale col sedere poggiato su una sedia e una mano stretta tra la tua che, dal tuo letto, cercavi di prendere sonno. Non parlavamo molto, quando te stavi male: beh, in fondo, rimproverarti ancora non sarebbe servito. Eppure, ero sempre lì con te, impaurita, incazzata, stufa di vederti in quelle condizioni. In un certo senso, sapevo che non dovevo abbandonarti anche io, che senza di me tu non saresti andato avanti. Lo leggevo nei tuoi occhi spenti, pesanti, cerchiati; nella tua pelle bluastra; nel tuo respiro artificiale. E, in quella camera di ospedale, ti osservavo in silenzio chiedendomi quante altre volte sarebbe successo. Se avessi avuto ancora una volta la fortuna di salvarti. E, ironia della sorte, te ne sei andato non per un’overdose, ma… perché il tuo cuoricino non ce la faceva più.


Eri pulito da qualche mese, sembravi rinato, ridevi, scherzavi con tutti e non solo con me, avevi recuperato il rapporto con la tua famiglia, insomma eri il Simone che tutti ricordavano. No, non io, io ti ho sempre conosciuto come il ragazzaccio senza regole e senza orari, ma con un cuore grande come una galassia. Stavi cambiando, chicco mio, sentivo che finalmente quei giorni tristi erano solo un ricordo del passato.

Avremmo potuto stare tranquilli, magari anche cercare una casetta tutta per noi, tu avresti avuto finalmente il lavoro che ti piaceva. E io? Io sarei stata contenta di tornare a casa, e non trovarti. Eh già. Ma solo perché ancora non avresti staccato dal lavoro. Poi mi avresti chiamato per dirmi di buttare la pasta, che saresti arrivato da me in pochi minuti. E io ti avrei aspettato con impazienza, dietro la porta, ascoltando il rumore dei passi sul pianerottolo per riconoscere i tuoi, e, non appena ti avessi sentito, ti avrei fatto entrare accogliendoti col mio miglior sorriso e un abbraccio caloroso. Oh, quante volte ti ho immaginato così, mentre tornavi a casa tutto ben vestito, i capelli tirati indietro con la gelatina, a dispetto della folta massa di boccoli neri che tempo fa si disponeva disordinata sulla tua testa, e gli occhi finalmente vivi, con quella luce che non ho mai trovato da nessun’altra parte. Mi sarei stretta alla tua camicia bianca assaporando il tuo profumo e le tue dolcissime labbra, e ti avrei preso per mano dicendoti: “Vieni, Simo, la cena è pronta.”

Ma non c’è nessun piatto fumante ad attenderti, ora. Non c’è quella casa che avevamo sognato per noi. Non c’è quella camicia bianca che ti stava tanto bene. Non ci sono io ad aspettarti oltre la porta.
 

Lo so, te l’avevo promesso. “Mai nessuno dopo di te, mai” ripetevo in una cantilena che si protraeva da tre giorni, mentre ti accompagnavo con lo sguardo all’interno della bara. Quel legno freddo non ti avrebbe accolto degnamente, non come le mie braccia avevano fatto per lungo tempo. E urlavo, chiedevo che non ti chiudessero, supplicavo per poter avere ancora una volta la possibilità di guardarti, di sfiorare il tuo viso con i miei polpastrelli.

Ma ci credevo, in quella promessa che ti ho fatto.

Non avrei mai amato nessuno dopo di te. Sì, perché anche se non ce lo siamo mai detto, ci amavamo, e la lettera che ho trovato oggi lo dimostra. Io per te e tu per me. Non ci importava del mondo, quando erano i nostri cuori a creare un intero universo. Invece tu te ne sei andato, Simo.

Senza disturbare, senza nemmeno salutarmi.


Quella notte mi ero addormentata sopra di te, mentre continuavi a coccolarmi e baciarmi la testa. Non so se te lo ricordi, mi avevi anche promesso che il giorno dopo saremmo andati a pranzo fuori. Ma non ci sarebbe stato nessun domani, nessun noi, nessun tavolo per due prenotato a tuo nome. Mi svegliai il mattino dopo, accarezzando con i miei piedi i tuoi, e trovandoli gelidi, mi meravigliai.
“Simo, che piedi freddi che hai…” Anche le tue guance lo erano. E tu non rispondevi. Il tuo torace non si gonfiava più, il cuore aveva cessato di battere. Eri già volato via, senza avvisare. Senza premurarti di dire: “Chicca, non mi sto sentendo bene” per non darmi preoccupazioni.

Senza fare un fiato. Di soppiatto. Come quando sei entrato nella mia vita. Come quando ti vidi, per la prima volta, sgattaiolare fuori dalla tua camera e imbatterti in me in mezzo al corridoio. Nessuna parola. Nessun gesto, neanche semplice. Solo un fugace scambio di sguardi prima che tornassi a rintanarti nella tua stanza.

Chissà se anche nella tua ultima sera hai cercato i miei occhi, se hai sperato che fossi ancora sveglia, solo per ricevere un po’ di sicurezza dalle mie iridi scure. Ma, conoscendoti, so che forse non l’hai fatto. Hai fatto in modo che non mi accorgessi di nulla, non ti sei mosso minimamente, hai solo accettato il tuo destino. Però sono certa che mi hai stretto a te, prima di esalare il tuo ultimo respiro. Questo lo so.

Perché il tuo petto dolorante aveva bisogno del calore del mio, e il tuo cuore voleva regalare a me i suoi ultimi battiti. Per poi dissolverti, andando ad accendere la tua stella in quell’infinito cielo blu sopra la mia testa. Sempre lì, a controllarmi, a consigliarmi, a illuminare il mio cammino.
Ci sei, e io ne sono certa.
Mi ami ancora? Io sì. Amo te e il tuo ricordo. Ma questo non mi impedisce di amare anche qualcun altro. Perché vedi, Simo, una cosa che ho imparato è che si può amare anche più di una persona allo stesso tempo. Sì, perché sono due tipi di amore diversi.

Quello che provo per te è come se fosse congelato: c’è, ma non vive, aspetta solo di poter riacquistare calore, prima o poi. Che non lo farà mai, è un altro conto, e in un certo senso va meglio, perché continuare a sperare è l’unica cosa che ci separa dalla morte, e tu lo sai bene. Ma quello che provo per lui è diverso: pulsa, cresce, attanaglia il mio cuore, lo sconquassa e lo lascia in uno stato di calma eterea, di pace celestiale, infusa di sicurezza e protezione. Con lui, sì. Non so perché sto evitando in ogni modo di scrivere il suo nome, quasi potesse farmi venire un nodo in gola. Va beh, lo scrivo comunque, perché non merita minimamente di essere scartato: Shannon. Io lo amo, chicco, forse lo amo anche più di quanto ho amato te, ma non vuol dire che ti ho dimenticato. Infatti è per questo che sono qui.


L’incontro con lui, la nostra storia, le scaramucce varie e poi quella mia lunga vacanza a casa sua, prima di dirci addio. Ma così non è andata: non ci siamo mai salutati. La nostra scadenza era giusto un mese fa, eppure eccoci ancora insieme. Perché? Oh, lo sai perfettamente, tu che da lassù controlli tutto. Perché c’è un altro piccolo cuore che batte grazie a noi due. Una gravidanza del tutto inaspettata, soprattutto in una coppia che sa di avere i giorni contati.

Questo piccolo angelo ci ha salvato. Ha rafforzato l’amore tra me e Shan e ha protetto il futuro che avremmo solo voluto sporcare, illudendoci di poter dimenticare in questo modo una storia importante come la nostra. Così, quella che per me doveva essere solo una vacanza a Los Angeles, è diventata ben altro. Con un bambino in arrivo, abbiamo preso la decisione di rimanere insieme, e quindi mi fermo a vivere lì. Pensare che abbandono Roma mi sembra quasi un insulto a me stessa. Ma l’amore per la mia città non supera quello che ho per Shan e per il nostro bambino, e non ho esitato a preferire la mia famiglia.

Sono appunto tornata in Italia a sistemare le documentazioni per il trasferimento, a ritirare il certificato di laurea, a salutare tutti gli amici e farmi vedere col pancione. Beh, chiamarlo pancione è esagerato, in fondo sono solo all’inizio del sesto mese. Un po’ si vede, sai? Passo le mattinate davanti allo specchio, di profilo, accarezzandomi la pancia. Puntualmente poi arriva Shan e la sua mano che si aggiunge alla mia, mentre cerchiamo nostro figlio. Finora non l’ho mai sentito muoversi, e ho una paura tremenda. La ginecologa però dice che va tutto bene, quindi quando faccio questi butti pensieri mi ricordo sempre delle sue visite. Non sappiamo nemmeno il sesso del bambino: a Shan non importa, ma a me sì.

Vorrei un maschietto, per dargli il tuo nome.
Per dare a lui tutto ciò che non ho avuto il tempo di dare a te. Per non sentire più il silenzio rispondermi quando ti chiamo.
 
Simo, tra due giorni parto. Il 15 i ragazzi sono in concerto a Milano, e andrò con loro, poi li seguirò in un altro paio di date ma a quel punto me ne andrò a casa, a LA, perché non voglio strapazzarmi troppo, ora che sono mamma  e devo preoccuparmi della salute mia e del bambino.

Ero giusto passata in camera tua per prendere qualcosa da portarmi via, come ricordo. Ho rovistato un po’ ovunque: avrei voluto qualche tuo disegno, o qualche tua tela, ma con il viaggio sai che brutta fine che farebbero… Ah, l’album delle foto sì che me lo prendo, invece. Mi sono messa ad aprire tutti i cassetti, a ficcare per l’ennesima volta il naso nel tuo armadio, ma non ho trovato niente che potesse andar bene. Poi, mi sono girata verso la libreria. Dovevo sceglierne uno, uno solo, e quello sarebbe stato il mio ricordo di te.

Ho accarezzato i dorsi delle copertine scorrendo i vari nomi, poi mi sono fermato su quel libro di fotografie che ti avevo regalato a Natale, quello con tutti gli scatti dei monumenti della Roma Papale. Ti ricordi, quante giornate abbiamo passato a confrontarci su quest’argomento? Io, che parteggiavo per il sapore semplice e antico della Roma imperiale, e tu per quello fastoso e corrotto, ma pur sempre affascinante, della Roma dei Papi. Ho pensato che sarebbe stato un bel ricordo. L’ho preso dalla libreria, e ho aperto la prima pagina, quella bianca, dove c’è la mia dedica scritta in corsivo con inchiostro blu: “Natale 2004. Al mio Chicco, così avrà tante belle foto delle sue opere d’arte preferite. Tanti auguri, piccolo! Con affetto, Maya.”

Ho provato un po’ di nostalgia per quei momenti, ma ho continuato a sfogliare le immagini finché non mi sono imbattuta proprio nella lettera, chiusa tra due pagine di un incredibile scatto del colonnato di San Pietro al tramonto. Chissà perché l’avevi messa lì. Forse perché quell’immagine era la tua preferita, e quindi tornavi spesso ad aprire il libro proprio in quel punto, per vederla e ricordarti che prima o poi avresti dovuto trovare il coraggio di consegnarmi ciò che avevi scritto e nascosto lì, vicina ai tuoi occhi e vicina al tuo cuore. L’ho aperta subito, te l’ho detto, pensavo stesse per iniziare una caccia al tesoro che ci avrebbe riunito, dopo quattro anni.

E invece no.

Ma sono contenta di averlo fatto, perché ho potuto conoscere i tuoi pensieri e ritrovare il tuo cinico realismo di sempre, ma devo farti delle correzioni. “Non guarirò mai” non è vero: tu, quando te ne sei andato, eri pulito.  “Dovrò lasciarti libera e dirti addio” non è vero neanche questo: non ci siamo divisi per volontà tua, ma per il destino. Vedila così: non ci siamo mai detti addio, perché saremo sempre insieme. Solo che su piani diversi: io qui, e tu in cielo, ma ti sento comunque accanto a me nell’anima.


Sono tua per sempre, ricordi? Il mio cuore batte nel tuo, non è così? Simo, io sono convinta che due anime non si incontrano mai per caso. Grazie per essere entrato nella mia vita, e grazie per aver lasciato il segno.
Ti sono debitrice, lo sai.

E poi, siccome solo ciò che è scritto rimane, e questo è quello che ho sempre imparato da te, ho deciso di mandarti una lettera di risposta. La arrotolerò e la attaccherò con del filo a un palloncino ad elio, che lascerò volare verso le nuvole in modo che tu possa afferrarla e leggerla. Io ci credo, che lo farai, perché so che mi osservi da lassù. Anzi, devo dirti che non ti sogno da un bel pezzo, e sinceramente mi manca trovarti nel mio cervello anche di notte. Sì, è un messaggio velato per dirti che ti rivoglio nei miei sogni. E presto, anche. So che puoi farlo, quindi sbrigati, amore mio, non ce la faccio ad aspettare oltre.


Ti amo
Tua, Maya

  
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