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Autore: Keiko    09/09/2010    3 recensioni
“Ma è evidente che le fiabe che ti ha raccontato tuo fratello ti possano aver influenzato e portato alla manifestazione di certi disturbi durante l’età adulta, Michael.”
“No, senta, io le sto dicendo che eravamo tutti terrorizzati in quel posto. Mio fratello è sempre stato così ma non è…”
“… forse dovrei prendere in cura anche lui, Michael.”
Tono fintamente accondiscendente, odioso e detestabile.
“… dicevo. Ma non è pazzo. Lei non ha idea di cosa significhi vivere settimane intere circondati da un incubo costante.”
“Sei sicuro di volermene parlare?”
“Ha paura, dottore?"
Genere: Horror, Song-fic, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bob Bryar, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Sweet Revenge © [09/09/2010]
Disclaimer: I My chemical Romance (Mikey Way, Gerard Way, Frank Anthony Iero, Bob Bryar e Ray Toro) sono persone realmente esistenti. I personaggi originali non sono ovviamente persone realmente esistenti, ma semplice frutto della mia immaginazione. La storia è frutto di una narrazione di PURA FANTASIA che mescola la mia visione di fan a eventi storicamente accaduti e rumors spulciati in rete, destinata al diletto e all'intrattenimento di altri fans. Non si persegue alcun intento diffamatorio o finalità lucrativa. Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla personalità degli artisti succitati si ritiene dunque intesa.


HAPPY b-Day Mikey





Impari a comprendere che al mondo non esiste solo ciò che vediamo nel momento esatto in cui vieni a contatto con la morte, quando il dolore ti impone di cercare le persone a te care altrove, non più sulla terra ma in qualsiasi altra dimensione esistente e non.
Se sei il fratello di Gerard Way è normale, poi, che spiriti senza pace, mostri di ogni sorta spuntati da vecchi romanzi fantasy e supereroi dei fumetti esistano realmente. E non è uno scherzo: impari a convivere con le manie di tuo fratello a tal punto che diventano un po’ anche le tue, e inizi a credere che i gatti neri siano la reincarnazione di demoni, che le streghe indossino guanti anche d’estate – e sfuggi a ogni donna di qualsiasi età che sia contraddistinta da un accessorio del genere con le conseguenze ridicole del caso – e che, ovviamente, gli spiriti dei morti vaghino sulla terra.
Tutto l’anno però, non è come Frankie che è convinto che la cosa accada solo durante la notte di Halloween – facendolo sentire tremendamente figo per questo, dato che è il giorno del suo compleanno -, quindi questo causa notevoli problemi ad ogni rumore improvviso o fenomeno non esattamente adattabile alla realtà.
“Quindi stai dicendo che la colpa dei tuoi problemi è di tuo fratello?”
“Non ci sono ancora arrivato a quale sia la colpa di tutto, dottore.”
“Scusami, Mikey, ma credo tu stia divagando e…”
“Senta, lei e le sue diagnosi riguardo a un presunto disturbo bipolare… sa cosa significa per me? Che potrei essere schizofrenico, per quel che ne posso sapere, ma lei non c’è stato in quel monastero del cazzo.”
Okay, niente parolacce Mikey. Questo è un coglione, fa il suo lavoro ed è normale. Certo che se ci fosse stato anche solo una notte al monastero, ora avrebbe meno voglia di parlare con quest’aria fastidiosamente saccente.
“Ma è evidente che le fiabe che ti ha raccontato tuo fratello ti possano aver influenzato e portato alla manifestazione di certi disturbi durante l’età adulta, Michael.”
“No, senta, io le sto dicendo che eravamo tutti terrorizzati in quel posto. Mio fratello è sempre stato così ma non è…”
“… forse dovrei prendere in cura anche lui, Michael.”
Tono fintamente accondiscendente, odioso e detestabile.
“… dicevo. Ma non è pazzo. Lei non ha idea di cosa significhi vivere settimane intere circondati da un incubo costante.”
“Sei sicuro di volermene parlare?”
“Ha paura, dottore?”
“No, voglio solo che tu sia certo di ciò che vuoi raccontare. Non voglio forzarti.”
“Guardi che questa non è una storia come tutte le altre che sente di consueto nel suo studio. Questa storia è vera. E l’abbiamo vissuta in prima persona. Se non ci crede lo chieda a Liza Minelli, una volta ha assistito anche lei a una sceneggiata di quei tizi.”
“Allora Michael inizia pure, io sono tutto orecchi.”

“Gee sei sicuro che sia tutto a posto? Io ho trovato le mie scarpe lontane dal letto. E sai perfettamente che le lascio sempre lì prima di andare a dormire.”
“Senti Frankie, perché dovrei sapere io dove si trovano le tue scarpe?”
“Perché l’idea di venire in questo posto dimenticato da Dio a incidere il disco è stata tua. E, visto il tuo senso dell’umorismo da boyscout, ho pensato potessi aver deciso di fare i tuoi scherzi intelligenti sin dal primo mattino. Sai, per rallegrare il clima.”
“Guarda che siamo qui per lavorare, Frank.”
“Giusto.”
Frank Iero aveva preso una fetta biscottata spalmandola avidamente di burro di arachidi, i capelli arruffati e i pantaloni del pigiama di un paio di taglie più grandi, cercando di prendere posizione tra Ray e Bob, intenti a bere silenziosamente il proprio caffè e ben decisi a rimanere estranei al battibecco delle sette e mezza del mattino tra i due.
“Frank ma non puoi comprarti un pigiama nuovo? Quando dimagrisci ti va tutto largo. E va bene i jeans durante i concerti, ma non sei un bel vedere di primo mattino con il culo al vento.”
“Ray, vaffanculo. Ho sonno e ho dormito letteralmente di merda stanotte. Odio dormire lontano da casa, è un inferno riuscire a chiudere occhio almeno per una settimana. Non vengono giornalisti vero?”
“No, solo MTV Frankie.”
Il chitarrista non aveva prestato troppa attenzione a Gerard, rispondendo con un indice medio ben alzato indirizzato verso di lui.
“Certo che se andiamo avanti così non ci arriviamo alla fine delle incisioni. Frankie ma non puoi essere meno rompicoglioni al mattino?”
“Guarda che quello rompipalle è Gee di solito, Ray. Io alle sei sono già in piedi e lo sai perfettamente. A me il mattino mette di buon umore e infatti ero scattante e pronto per registrare, ma sono quasi diventato scemo a cercare le mie scarpe.”
“Le hai trovate almeno?”
“No, Mikey. E’ questo che mi fa incazzare. Erano le mie scarpe preferite oltretutto.”
“Sarà stato il mostro del tappeto, Frankie. Quello si mangia tutto ciò che gli lasci sopra. Attento a non addormentartici sopra, o rischiamo di perderti per sempre.”
“Guarda che non mi chiamo Gerard Way, io. Sono talmente cattivo che mi risputerebbe fuori subito, in ogni caso.”
Aveva ingoiato gli ultimi bocconi della fetta biscottata, cercando di raggiungere la caffettiera in cerca di un po’ di carica in vista della giornata.
“Senti Gee, ma perché hai scelto proprio questo monastero? Voglio dire, è una figata pazzesca ma non è esagerato?”
L’occhiata di Gerard era stata quanto mai eloquente: nulla è esagerato, se si parla di Gerard Way, e Frank aveva lasciato cadere il discorso spostando la propria molesta attenzione su Mikey.
“Mike stai bene? Mi sembri più pallido del solito.”
“Questo posto è il peggiore che potessimo scegliere.”
“Visto Gee? Per una volta anche Mikey riesce a darti addosso.”
“E’ la prima notte, passerà. Siamo lontani da casa, sperduti a Silver Lake in questo eccezionale monastero. Io lo trovo suggestivo e artistico. Mi sento ispirato, e questo significa che il nuovo album sarà un successo ragazzi.”
Ray aveva ingollato l’ultimo sorso di caffè – talmente lungo che Frank aveva creduto ne morisse soffocato, una fine degna visto il contesto – e aveva fissato Gerard con l’espressione esasperata di chi ha ormai raggiunto la certezza le cose non cambieranno mai, nella sua vita.
“Speriamo” , aveva borbottato Frank, tornando ad occuparsi della propria tazza di caffè e degli avanzi del burro di arachidi pronti per essere ripuliti dal barattolo ormai vuoto.

“Frankie tu e i tuoi scherzi del cazzo, si può sapere quanto casino fai la notte? Cristo mi sembra di essere in una stazione ferroviaria, sei capace di piantarla di russare come una locomotiva?”
Gerard era entrato senza tante cerimonie nella stanza di Iero, salvo trovarlo con le luci della stanza accese e un romanzo tra le mani, intento a leggerne alcuni passi.
“Non sei tu?”
Aveva esalato Way, quasi avesse timore a chiedere chi fosse il casinista di turno: da Ray o Bob, di certo, non sarebbe andato a fare il diavolo a quattro nel cuore della notte.
“Senti Gee, sono settimane che ti dico che non riesco a dormire per tutto il casino che c’è qui, e tu ti degni solo ora di realizzare che forse c’è qualcosa che non va?”
Frank non si era nemmeno degnato di sollevare lo sguardo dalle pagine in cui era immerso, le lenzuola tirate sino alla cintola e una sciarpa pesante avvolta attorno al collo.
“Guarda che questo casino si sente anche nei corridoi, ovunque. Sembra che arrivi dalle viscere di questo posto.”
“Bene, almeno questi stronzi hanno avuto la decenza di dare i loro festini anche lontano dalla mia stanza.”
“Non parlare così, Frank. Sai che se ti sentono siamo nella merda più nera?”
“Gee sbaglio o l’idea di venire in un fottuto monastero infestato è stata tua?”
“Ci sono decine di case infestate in America, come potevo sapere che questa la era realmente?”
“Dovevi pensarci perché tu hai la sfiga che ti perseguita, Gee. E quindi evitare a priori di avere questi colpi di genio, no? Piuttosto, hai visto Mikey?”
“Starà dormendo, no?”
Solo a quel punto Frank si era degnato di sollevare lo sguardo su di lui, chiudendo il libro e posandolo accanto a sé sul letto, l’aria di chi vorrebbe solo dormire e, invece, è costretto a subire ogni sorta di tortura della sveglia.
“Guarda che lui sente questi tizi tanto quanto me. Perché non vai a vedere come sta? E soprattutto, perché non ce ne andiamo prima che accada davvero qualcosa di irreparabile?”
Gerard aveva lanciato un’occhiata in tralice all’amico, il solito sguardo che non ammetteva replica.
“Okay, fai come vuoi. Ma io il mio consiglio te l’ho dato, Gee.”
Gerard aveva lasciato la camera di Frank incamminandosi verso quella di Mikey, qualche metro più avanti lungo il corridoio del primo piano del monastero.
Era vero quello che aveva raccontato a Frank: non credeva realmente che le testimonianze su quel luogo fossero vere, semplicemente gli erano parse le più attendibili.
Aveva cercato per settimane intere un luogo che fosse perfetto per l’incisione del loro nuovo album: doveva trasudare morte dalle fondamenta alle tegole, avere permeati i muri e l’aria di quel sapore dolciastro di gigli e fiori secchi, l’odore ferroso del sangue, persino.
Quando aveva parlato con il custode del monastero, l’anziano – un uomo sulla cinquantina, a dire il vero, ma a Gerard sembrava parecchio più vecchio a causa dei capelli radi e bianchi come neve – non si era lasciato sfuggire una mezza leggenda su quel posto.
“Ragazzo, se vuoi storie di fantasmi valle a cercare in qualche romanzo da quattro soldi. Sono solo invenzioni per attirare turisti e spillare soldi alla gente.”
“Io voglio dormire qui dentro per i prossimi sei mesi.”
“E come pagheresti?”
Gerard aveva colto la palla al balzo per sfoderare il più infantile dei sorrisi, mostrando all’anziano una vecchia copia di Kerrang! recuperata dall’auto.
“Ecco, siamo una band musicale. Dovremmo incidere il nostro ultimo disco e ci serve un posto tranquillo. Paga la Warner Bross ovviamente.”
“E mi chiedi se ci sono davvero fantasmi qui? Hai un concetto deviato di tranquillità ragazzino.”
Veramente Frankie adora camminare per i cimiteri perché lo trova rilassante, ma non credo sia una buona idea sottolinearlo a questo vecchio.
“Be’, se ci sono fantasmi immagino che parecchia gente giri al largo da questo posto, no?”
Non era mai stato bravo a contrattare, poteva essere un eccelso leader e un ottimo sceneggiatore, ma in quanto a doti di marketing Gerard Way faceva davvero pena.
“Senta, a noi non interessa quanto ci verrà a costare. Vogliamo questo posto isolato dal mondo, dimenticato da Dio e tutto quello che vuole.”
“Parlerò con i proprietari. Siete famosi?”
“Il nostro target è… è un pubblico di teenagers prevalentemente.”
E tu di certo non ci conosci, vecchio.
“Allora dubito che i padroni vi abbiano mai sentiti, ma vedrò di fare il possibile per farvi restare in questo posto dimenticato da Dio, per i prossimi sei mesi.”
“Grazie, posso lasciarle il mio numero di telefono? Così mi fa sapere non appena ha notizie.”
Il vecchio aveva allungato la mano in attesa di un biglietto da visita, e Gerard era stato costretto a fare dietro front, recuperare in auto un foglio del taccuino da disegno e rifilare al custode il numero scritto con la sua calligrafia illeggibile e spigolosa.
“A presto allora.”
“Si si, a presto.”
Gli aveva grugnito l’uomo in risposta, nemmeno avesse avuto la certezza di avere sul groppone, per i mesi a venire, una scolaresca di teppisti pronti a disintegrare la pace di Silver Lake.

“Mikey sei sicuro di stare bene? Hai una faccia stravolta.”
Il minore dei fratelli Way aveva annuito davanti a un bicchiere di succo di carota ormai diventato una poltiglia lasciata a macerare per minuti interi, continuando a rigirare il bicchiere su sé stesso sperando di creare la forza centrifuga necessaria ad amalgamare gli ingredienti della spremuta.
“Ieri notte non mi hai aperto, ho provato a bussare non so quante volte… stavi dormendo?”
“Secondo te, Gee? Cosa cazzo vuoi che faccia una persona alle quattro e mezza del mattino? Conta la pecorelle nella Way’s Farm?”
“Frank hai la simpatia di un caimano in questi giorni, che cosa ti prende?”
Gli aveva fatto notare Ray, ormai arrivato ai limiti di sopportazione dei battibecchi tra le due prime donne della combriccola che duravano ormai da settimane intere, ovvero dal mistero irrisolto delle scarpe scomparse.
“C’è che questo è un posto di merda e Gee continua a voler stare qui dentro.”
“Te la fai sotto, Frankie?”
“Senti Gee, solo tu non hai sentito un fottuto lamento, i passi lungo i corridoi e sul soffitto? Guarda, ci manca solo che questi cazzo di tuoi amici fantasmi ci facciano compagnia a cena e poi siamo a posto.”
“Gee guarda che Frank non ha tutti i torti. Qui dentro iniziano ad accadere cose strane. L’altro giorno io e Bob eravamo nella sala d’incisione per provare un pezzo di Mama e...”
“… e?”
Ray aveva lanciato un’occhiata complice al batterista, costretto così a prendere la parola.
“E la porta si è spalancata e richiusa da sola.”
“Sarà stato un colpo di vento.”
“Non riuscivamo più a riaprirla, Gee.”
“Sono porte vecchie, si sarà inceppata la serratura. Faremo in modo di non rimanere bloccati in sala d’incisione, okay?”
“Si, anche perché qui dentro nemmeno c’è campo per i cellulari. Per chiamare Jamia devo andare fuori e cercare un posto nel parco che mi faccia fare una chiamata di cinque miseri minuti. Se rimaniamo bloccati, qui dentro ci moriamo anche.”
“Sempre pensieri allegri, eh, Frankie? Di primo mattino poi, sono indispensabili per iniziare bene la giornata.”
Frank aveva lanciato un’occhiata a Mikey, chiuso in un silenzio spettrale sin dall’alba quando – entrambi dopo una notte insonne – si erano incrociati lungo le scale che conducevano al piano superiore, Frank con il cellulare in mano intento a imprecare tra sé e sé e Mikey con lo sguardo fisso nel vuoto.
“Ehi Mikey, che hai? Sembra che tu abbia visto un fantasma.”
Frank aveva riso alla propria battuta, tuttavia l’ilarità gli era morta in gola quando gli era parso di scorgere dietro all’amico una figura che si rituffava nell’ombra del corridoio.
“Cosa cazzo era? L’hai…”
“Siamo nei casini, Frankie.”
“Mikey, quella cosa biancastra era… era…”
“Sono settimane che ci sono qui in giro, è stato un errore che tu li vedessi.”
“Adesso andiamo da quell’enorme testa di cazzo di tuo fratello e ce ne andiamo di qui. Questa cazzo di Black Parade la scrive in casa sua, con le candele della messa accese se vuole, ma non qui dentro.”
“No, Frank. Gee tiene enormemente a questo progetto, lui ci crede in questo album. E ci crediamo tutti in realtà. Chi siamo noi per impedirgli di lavorare come vuole?”
“E’ l’unico che non si rende conto che qui non c’è niente di normale, cazzo!”
Frank era visibilmente scosso, incazzato e impaurito: sarebbe stata la normale reazione di qualsiasi persona – anche la meno ordinaria –, ma Michael Way aveva una colossale esperienza di storie inventate alle spalle, al punto tale che la realtà che viveva da settimane non era altro che una distorsione mentale delle storie di suo fratello.
Una sorta di warp temporale, ecco.
“Tu non li vedi, vero?”
“No, Mikey… e tu si?”
“Vengono da me ogni notte.”
Frank aveva sgranato gli occhi risalendo le scale di corsa – due gradini alla volta -, incespicando nei pantaloni troppo larghi del pigiama, dirigendosi verso la camera di Ray.
Volenti o nolenti, Gerard doveva ascoltarli: e se non voleva andarsene di lì, ci sarebbe rimasto da solo.

“Mama, we all go to hell.
Mama, we all go to hell.
I'm writing this letter and wishing you well,
Mama, we all go to hell”


Le note della canzone si erano sparse nell’aria con la cadenza secca di una marcia funeraria, tetra e angosciante mentre saliva su, sino ai soffitti per poi rimbalzare prepotentemente a terra, sin dalle prime ore del mattino.
Liza Minelli era stata a fare visita ai ragazzi quasi ad ogni pomeriggio nelle ultime settimane, ma non si era mai trattenuta dopo le dieci di sera.
C’era qualcosa, a quell’ora, che li costringeva ad avere paura anche di sé stessi.
Frank Iero si era sollevato a sedere sul letto di soprassalto, le mani a coprire istintivamente le orecchie per ripararle dall’ululato del vento che penetrava dall’esterno.
Si era affacciato alla finestra a ogiva della sua stanza constatando che fuori, tutto attorno, si era sollevata una nebbia degna della peggiore tradizione di Silent Hill.
E no, lui di morire come uno stronzo – perché sarebbe stato uno di quei protagonisti sfigati che muoiono nella maniera più idiota possibile in un film horror – non voleva farla.
Di fare il topo in trappola, cioè, non ne aveva la minima intenzione.
Un grattare lento, fastidioso e ritmico l’aveva costretto a staccarsi riluttante dalla finestra per spostare la propria attenzione sulla porta della sua stanza, ermeticamente chiusa dall’interno a doppia mandata.
“Gee? Sei tu?”
Il grattare si era arrestato, come se la sua voce avesse provocato nel suo misterioso interlocutore una sorta di attesa, poi aveva ripreso con più forza.
Frank aveva guardato il display del cellulare: non c’era campo.
Vaffanculo.
Il suono ruvido delle unghie sul legno della porta strideva, sovrastava con le note più alte persino il rumore del vento tra gli alberi, acuto come il suono del gesso che si spezza sulla lavagna.
Il ragazzo si era allora portato di nuovo verso la finestra, nel punto più lontano dalla porta: guardando di nuovo tra la nebbia, di sotto, aveva scorto una figura ammantata di nero scivolare fuori dal monastero e svanire inghiottita da quella coltre di nulla, giù, dentro al bosco.
Era una chiazza nera nella luce soffusa emanata dall’unica luce esterna – quella della lanterna posta all’ingresso della costruzione –, un gioco di ombre cinesi immerse in una pozza sfilacciata di nubi basse e dense come fumo.
Non sapeva se fosse meglio tuffarsi nella nebbia o restare in attesa che quella cosa – che non era Gee – entrasse nella sua stanza per fargli visita e, di certo, non voleva aspettare che la risposta arrivasse da sé, senza che lui la richiedesse.

“She said: "You ain't no son of mine
For what you've done they're gonna find
A place for you
And just you mind your manners when you go.
And when you go, don't return to me, my love."
That's right.”


Gerard Way si trovava nello studio di registrazione, intento ad ascoltare le incisioni della giornata in un loop che andava avanti da almeno un paio d’ore ormai. Non si era accorto dell’orario che era scemato pericolosamente oltre le dieci, l’orario in cui tutto in quella dannata costruzione pareva proiettarsi fuori e dentro di loro in un gioco di specchi che sembrava via via destabilizzare ogni singolo attimo della loro esistenza residua.
Ovvero il prima e il dopo di ogni notte, ormai.
Gerard non aveva mai creduto possibile di trovarsi faccia a faccia con una vera dimora infestata – e negli Stati Uniti erano decine quelle che si potevano trovare tra le attrazioni turistiche -, ma le sue esperienze con l’Al di Là erano state più che sufficienti per dissolvere ogni dubbio sull’esistenza o meno di spiriti e demoni.
E lì dentro c’era qualcosa, una presenza morbosamente attaccata alle loro vite. Dapprima erano state solo porte che si aprivano e chiudevano senza essere sospinte da correnti d’aria, poi era stata la volta degli oggetti.
Mikey si era ritrovato con un coltello in mano senza ricordarsi dove l’avesse preso, Cristo.
A volte capitava che questi venissero nascosti e mai ritrovati – come le scarpe preferite di Frank – altre, che gli oggetti più disparati venissero trovati nei luoghi meno probabili.
Le cuffie ancora infilate in testa, ascoltava le incisioni del pomeriggio con Liza e disegnava bozze per la copertina del nuovo album, quando era stato costretto a interrompersi per sollevare gli occhi al soffitto.
“Fantastico.”
Anche la lampadina fottuta nella sala di registrazione.
Gerard aveva mosso alcuni passi verso la porta, deciso a recuperare una qualsiasi fonte di luce che gli permettesse di continuare a lavorare: era ispirato da quella notte senza luna, dal vento che muoveva violentemente le fronde degli alberi sbattendole con forza contro le inferriate delle finestre della sala e dalla nebbia che era salita sino a coprire come un sudario l’intero monastero.
E tutto era immerso nel buio in modo così totalmente tetro e soffocante.
E’ questa l’essenza del nero: annulla ogni colore, lo abnega sino a soffocarlo.
E’ questa la mia Black Parade.

L’ennesimo tonfo contro le inferriate l’aveva fatto deglutire e voltare lentamente in direzione della finestra in cerca di un ramo che, battuto dal vento, picchiava con forza contro il vetro.
Solo che quello era un bussare lento: il bussare di qualcuno che voleva entrare.
“Ho lavorato troppo.”
Gerard aveva cercato la maniglia della porta tastando il muro sino a ritrovarsi tra le mani la maniglia, per poi immergersi nel buio glaciale dei corridoi del monastero deciso a conquistare il bagno e una bella doccia fredda.
Aveva osservato la nebbia che avvolgeva la loro piccola roccaforte di morte, come se quella notte dovesse essere rivelatrice, per ognuno di loro, di un mistico segreto.
Soli, contro il resto del mondo: ma quale mondo?
Era arrivato al bagno seguendo con la mano destra la balaustra delle scale, stando ben attento ad assestare con la punta dei piedi colpi precisi all’aria che aveva dinnanzi.
“Cristo, finalmente.”
Oh, merda merda merda. Santissima merda.
La luce del bagno gli aveva temporaneamente inibito la vista, passando da quello stato di assoluta cecità a un bagliore violento al neon, e Gerard era rimasto fermo per quelli che erano stati minuti infiniti dinnanzi allo specchio.
“Cosa cazzo… significa?”
Gerard aveva esalato parole che sembravano essere anche la sua stessa anima, pesanti e strascicate mentre un freddo glaciale si stava lentamente impossessando di lui.
Con quello che hai fatto troveranno un posto per te.
Fissava la scritta vermiglia colare lentamente sullo specchio del bagno, le parole di Mama – le sue parole – vergate con una calligrafia tremolante sullo specchio.
Dio ti prego, fa che sia vernice.
Un tonfo secco dietro di lui senza che alcun alito di vento l’avesse sfiorato, aveva richiuso la porta con violenza.
Forse non doveva nominare Dio?
Il maggiore dei fratelli Way aveva deglutito, avvicinandosi lentamente allo specchio e constatando che quella che era stata usata era vernice.
Fresca e calda.
Gerard non voleva voltarsi, non voleva dare le spalle alla porta né tanto meno allo specchio.
Gli specchi sono da sempre maledetti, cazzo.
Avrebbe potuto gridare, ma chi l’avrebbe sentito?
Era fuggito da quel qualcosa che bussava alle finestre dello studio per rifugiarsi in un luogo senza vie d’uscita: se voleva uscire, doveva per forza scontrarsi con la cosa che aveva chiuso la porta, non aveva possibilità di scelta.
Aveva passato una mano sullo specchio dapprima con delicatezza poi con sempre più forza: voleva cancellare Mama e la voce carica di dolore di Liza, cancellarla dalla sua testa, da quella stessa casa che sembrava parlargli attraverso le sue stesse parole.
Continuava a grattare la superficie dello specchio, le mani sporche di un sinistro color sangue: grattare sino a farsi sanguinare le dita senza accorgersene.
Sangue misto a vernice.
Caldo e fluido e vischioso.
Lo sguardo fisso nel proprio riflesso nello specchio: attento, che la porta dietro di lui non si aprisse senza fare il minimo rumore sui propri cardini.

“Mama, we all go to hell.
Mama, we all go to hell.
It's really quite pleasant
Except for the smell,
Mama, we all go to hell.”


Ray Toro aveva cercato di restare fuori dalle menate del tizio che passava alle dieci sino a quando la cosa non aveva iniziato ad avere manifestazioni corporee.
Frank gli aveva confidato di aver visto la cosa accanto a Mikey, una mattina in cui per errore si erano incrociati lungo le scale quando tutti ancora stavano dormendo, e l’unica cosa che gli aveva fatto ponderare la cosa fosse vera, era stato che Frank era pallido come un morto.
Poi era stata la volta del coltello: Mikey era sceso dalla sua camera perfettamente vestito, con in mano un coltello da cucina che non avevano mai visto lì.
Mikey non ricordava dove l’avesse preso, ma era certo di non averlo cercato o portato con sé la sera prima. Gerard era sprofondato nel terrore più nero, ammutolendosi, e Frank aveva preso a lamentarsi e supplicare di andarsene da lì il prima possibile.
Lui e Bob stavano giocando l’ennesima partita a tennis con la Wii, quando Bryar si era arrestato di colpo perdendo il set.
“Ehi, che ti prende?”
“Non l’hai sentito?”
“Cosa, Bob? Non ti ci mettere anche tu, sembriamo dei fuori di testa totali.”
“Non lo senti?”
In effetti gli sembrava di sentire la voce di Frank chiamare aiuto dalla propria stanza, ma la sua voce sembrava insicura e, soprattutto, terrorizzata.
“Andiamo a vedere cosa succede? Non è da Frankie gridare come un pazzo a questo modo.”
Bob era avanzato a passo deciso verso la porta, girando la maniglia pronto a schizzare fuori dalla stanza in un baleno.
“Oh, merda Ray. Aiutami.”
La porta era bloccata dall’esterno.
Cazzo.
Ray aveva preso la rincorsa lanciandosi a peso morto contro la porta, ma senza risultato.
“Cazzo Ray.”
Bob si era portato le mani alle orecchie chiudendo gli occhi in modo talmente violento che per un attimo, Ray aveva creduto gli uscissero le cornee dalle palpebre.
Un rumore di passi in corsa - ma ce n’erano anche altri, strascicati e più pesanti dei precedenti – proveniva dal sottotetto.
“Lì non ci sta una persona in piedi, vero?”
“Non ci stanno persone, Bob.”
Il batterista si era portato, le spalle al muro, sul letto, gli occhi fissi sulla porta bloccata.
“Tu tieni d’occhio la finestra?”
“E’ chiusa dalle persiane e... okay.”
Ray aveva girato attorno al letto, posando la propria schiena contro quella dell’amico.
“Io non ci volevo credere… Dio, che schifo. Lo senti anche tu, Bob?”
Il biondo aveva annuito portando la mano destra a coprire il naso: un fetore dolciastro, amaro di putrescenza e fiori ormai appassiti, si era diffuso per la stanza rendendo l’aria irrespirabile.
“Cazzo, è lo stesso odore di quando seppelliscono i morti.”
“E’ l’odore dei morti e dei… gigli?”
Non erano solo gigli, ma quello era il nauseante odore dei lilium ormai avvizziti, dei pistilli che perdono la loro polvere ormai marrone imbrattando qualunque cosa con quell’aura pestilenziale.
I gigli, a Ray, ricordavano sempre la morte dei bambini.
Era come se ci fosse un funerale, lì, da qualche parte: un funerale lungo un’eterna notte.


“Mama, we're all full of lies.
Mama, we're meant for the flies.
And right now they're building a coffin your size,
Mama, we're all full of lies.”


Mikey fissava il soffitto della propria stanza, incapace di prendere sonno.
I rumori dei passi, i graffi contro le pareti di chi voleva liberarsi, le grida nel cuore della notte: le aveva sentite soltanto lui per settimane.
Poi era accaduto qualcosa, forse semplicemente capricci, e i fatti strani si erano amplificati coinvolgendo tutti.
Mikey aveva dato la colpa alla presenza di Liza – era stato da lì che tutto era precipitato pericolosamente – ma qualcosa aveva poi deviato l’attenzione sulle parole di Mama, l’ultima canzone su cui stavano lavorando.
E aveva compreso tutto, sin nei minimi dettagli.
Di nuovo i passi, sopra la sua testa.
Di nuovo la zaffata di lilium ormai marci e la nebbia che fitta copriva ogni cosa, fuori dalla finestra.
E ora stanno costruendo una bara della tua misura, tesoro siamo tutti pieni di bugie.
Ancora quella dannata voce: nella testa, tutt’attorno e fuori.
La stanza buia, illuminata da un pallido neon azzurro, si agitava di ombre sinistre e voci non umane.
Una bara della tua misura, Mikey.
Si era sollevato a sedere, di scatto, cercando di interrompere il flusso delle voci che si rincorrevano come una rete che andava via via stringendosi attorno a lui, costringendolo a divincolarsi come la farfalla intrappolata nella tela del ragno, l’aria che stentava a scorrere giù, lungo la gola sino ai polmoni.
Stava morendo?
No, non voleva morire in quel modo così stupido: avrebbe deciso lui quando sarebbe morto, non una comunità di spiriti in cerca di vendetta.
Michael si era sollevato a fatica dal letto, incespicando nelle lenzuola sfatte e poi lungo le scale, sino a riuscire a vedere la nebbia tutt’attorno, a vedere la notte senza stelle né luna, a sentire un freddo naturale sfiorarlo: lontano da mani invisibili che lo accarezzavano ogni notte sino a soffocargli le grida nel petto, posandosi avidamente sulle sue labbra sottili e spaccate dal freddo.
Una tortura durata mesi, ma ora basta.
Basta.


“[Liza Minelli:] And if you would call me your sweetheart,
I'd maybe then sing you a song

[Gerard Way:] But there's shit that I've done with this **** of a gun,
You would cry out your eyes all along.

We're damned after all.
Through fortune and flame we fall.
And if you can stay then I'll show you the way,
To return from the ashes you call.”


“Dunque Mikey non sai capire cosa fosse ciò che c’era al monastero? Dici che tutti siete stati coinvolti, ma solo tu hai cercato di toglierti la vita.”
“L’ha detto lei: è il disturbo bipolare. Ma le posso assicurare che può credere a ciò che le dico solo chiudendosi là dentro. Era una bara grande a sufficienza per contenerci tutti. Ci volevano, ci stavano chiamando. Forse erano più di uno, ma sono certo che fosse il tizio che passava alle dieci, quello che aveva più problemi.”
“Che genere di problemi, Mikey?”
“Il genere di problemi che ha uno spirito, dottore. Credo che l’ora della seduta sia finita da un pezzo, no?”
“Si, proseguiremo la prossima volta, Michael.”
“No. Lei non mi crede, ed è l’unica persona a conoscere tutti i fatti. Se non mi crede lei, non ho motivo di fidarmi di altri. Faccia la sua diagnosi dottore, il disturbo bipolare c’è. Esiste. Ma non esisteva prima di Silver Lake. Di questo ne sono sicuro.”

Ciuffi di nebbia lo seguono ovunque, sguardi nascosti nella coltre grigiastra e compatta che si addensa al calare dei tenebre.
Nei suoi sogni, nei suoi incubi, in quel suo subconscio che un dottore da strapazzo cerca di sondare - razionalizzando - l’impossibile.
Nessuno gli crede – nessuno crede mai a un bipolare con manie suicide – ma lui sa che non sarà mai più la stessa cosa, restare solo al buio.
La nebbia sale, sale sempre, quando le tenebre diventano fitte.
E non è rivivere sempre lo stesso momento – quello in cui vedi la tua morte secondo dopo secondo come in un film a rallentatore – è vivere ogni notte lo stesso istante, quello in cui l’aria di cui ti sei cibato sino a pochi istanti prima ti soffoca come erba maligna, incollandosi ai polmoni, svegliandoti di soprassalto con il senso di vertigine che accompagna sempre quel precipitare giù, all’inferno, per vedere il tuo corpo pendere dai rami secchi di un faggio spoglio.
Sullo sfondo si staglia – tra la nebbia che sale dal bosco - un monastero abbandonato, cori di ragazzini che si levano tra pianti soffocati e grida, e tutt’attorno profumo di gigli morti.
Mikey Way si volta di scatto, guardando alle proprie spalle.
E’ solo, lungo le strade di Newark, ma solo all’apparenza: sa che loro sono sempre con lui, lì, nascosti nella nebbia.
Ed ogni notte, con la magia sinistra di cui sono dotati gli spettri, fanno crescere quella coltre filacciosa sino alla finestra della sua camera superando facilmente l’ostacolo della finestra sbarrata scivolando al di sotto delle fessure.
Mikey Way è sempre sveglio quando loro arrivano, è meno doloroso di quando arrivano e lo prendono alla sprovvista cercando di soffocarlo.
Almeno, così, sa quando sta per soffocare, quando la nebbia sale sino all’altezza del letto e poi si insinua sotto le lenzuola, striscia accanto al suo viso e poi lo bacia con la freddezza di un amante bastardo.
Prima o poi, la nebbia sparirà anche da Newark, di questo lui è certo.
E se non dovesse andarsene, basterà un colpo di pistola.








Note dell’autrice. Il riferimento al fatto vero della band utilizzato è la nota registrazione di “The Black Parade” all’interno di un monastero infestato [ http://theblackparade.altervista.org/wordpress/2006/10/reazione-chimica/ ] e il conseguente disturbo bipolare di Mikey Way, che ho voluto imputare agli avvenimenti dei mesi della registrazione. La canzone della band scelta come sottofondo è invece “Mama Scritta per il contest "12 mesi di fedeltà", round estivo.
   
 
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