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Autore: smiles    12/09/2010    2 recensioni
Che mi aspettavo? Di vederlo all’aeroporto di Londra, di lì a qualche ora, con le braccia aperte pronte ad accogliermi e gli occhi brillanti tutti per me che mi veniva incontro dicendomi: “Finalmente, mi hai fatto aspettare tanto”. Magari mi avrebbe anche rivolto un suo sorriso mozzafiato. Destiny ha 18 anni. E' disillusa ma riesce ancora a sognare. Si è appena trasferita a Londra. La sua vita sta per cambiare.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kristen Stewart, Nuovo personaggio, Robert Pattinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Undisclosed Desires
Autrice: smiles
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale
Personaggi: Kristen Stewart, Robert Pattinson, Destiny Martini (Nuovo Personaggio)
Rating: Giallo

 

Prefazione dell’autrice

Mi sembra doveroso introdurre i lettori alla mia storia. C’è da premettere che io sono una Robsten convinta quindi l’ultimo dei miei desideri è quello di vedere i due separati. Però, senza un po’ di sana competizione la vita è monotona, non trovate?
La nostra protagonista è italiana, ha 18 anni. Destiny è un personaggio controverso. E’ capricciosa, testarda, egoista per certi versi; però possiede lati dolci, è sognatrice e caparbia, lotta per le cose cha ama. La nostra storia comincia con una partenza. Destiny è segnata dalla recente rottura con un ragazzo importante che la getta sull’orlo della depressione. Non accetta il distacco, si aggrappa con forza ai ricordi, nonostante lui le abbia sempre mentito e l’abbia soggiogata. I suoi genitori la costringono a fuggire, la spediscono a Londra. E’ sempre stato il suo sogno e invece adesso sembra una punizione. Ma anche le esperienze più brutte possono portare a dei risvolti positivi. I nostri risvolti positivi si chiamano Robert Pattinson e Kristen Stewart. In qualche modo loro entreranno a far parte della vita di Destiny. Sarà un bene? Un male? Staremo a vedere. Buona lettura a tutti.

 

1.
Partenze

L’auto serpeggiava lenta fra le auto che percorrevano l’autostrada e il sole riscaldava pigro l’abitacolo, rendendolo di un tepore quasi soffocante ma mai sgradevole. La mia testa sobbalzava ogni tanto quando le ruote del veicolo incontravano l’asfalto sconnesso più del dovuto. L’unico sottofondo alla mia partenza, il ringhiare cupo del motore ormai decrepito dell’auto.
Sarebbe stato un sollievo per me partire, in altre circostanze. Avevo desiderato davvero tanto scappare da casa mia, dal mio paese. Mi ero ripromessa che avrei detto addio a quello schifo e non sarei dovuta tornare mai più. A volte però le prospettive cambiano e la visuale si ribalta, vedi le cose in modo diverso e riconsideri le tue posizioni. Io non avrei mai pensato di farlo eppure era successo. Ed eccomi lì, sul sedile posteriore della Mercedes Benz di mio zio, diretta verso l’aeroporto di Milano.
L’auto prese in pieno un fosso al centro della strada e la mia testa si schiantò rumorosamente contro il finestrino. Mi servì per schiarirmi le idee. Le pagine del libro che avevo aperto e posizionato sulle ginocchia svolazzarono al vento che sferzava dal vetro aperto, vicino al posto di guida. Ritrovai la concentrazione e tentai di riprendere la mia lettura,  ma neanche Eclipse fu tanto interessante da farmi distogliere lo sguardo che si era posato sull’anello che portavo alla mano destra, finemente lavorato. Piccolo e discreto com’era non avrebbe dovuto catturare la mia attenzione in quel modo. Forse qualcosa nel lieve luccichio argenteo della montatura semirigida o nelle pietruzze lilla incastonate su tutto il perimetro dell’anello calamitavano la mia attenzione in modo morboso. Forse era colpa del nome inciso al suo interno che in quel momento sembrava bruciare come infuocato, quasi volesse marchiarmi a fuoco per non poter cancellare più la traccia della sua esistenza. Destiny. Soffocai il gemito che stava per uscirmi dalla bocca.

 
Non mi aveva mai fatto impazzire il mio nome, aveva una certa teatralità che non mi si addiceva. A quanto mi avevano raccontato, mio padre non gradiva l’idea di un nome inglese, troppo orgoglioso com’era di essere italiano, ma mia madre era stata irremovibile e aveva vinto.
La gente si stupiva nel sentire il mio nome, mi chiedeva quale dei miei genitori fosse straniero. “Nessuno”, rispondevo sempre io, un po’ annoiata, sicura che ancora una volta avrei dovuto spiegare perché avevo un nome degno di una delle protagoniste di un romanzetto rosa. Rabbrividivo al solo pensiero.
Mia madre amava ogni cosa che le ricordasse i viaggi che aveva fatto, le cose che aveva visto, le culture che aveva conosciuto. Il mio nome era il suo modo per tenersi stretta l’Inghilterra, innamorata com’era di quella nazione. Aveva trasmesso quell’amore anche a me, che fin da piccola avevo avuto una certa propensione verso l’inglese come se fosse una lingua che avevo sempre parlato. Appena mia madre l’aveva scoperto mi aveva riempito la testa di lunghi, date, foto, persone, aneddoti della sua permanenza a Londra. Mi aveva spinta a bramare di vivere lì più dell’aria o del cibo. E finalmente ci stavo andando, ma non ero euforica come mi aspettavo. Non lo ero affatto.
Il viaggio a Londra non era il costoso regalo di diploma dei miei genitori, benché loro cercassero di farlo passare in tutti i modi così. Era solo un modo per allontanarmi dal ragazzo che amavo e buttarmi nelle braccia del ragazzo che avevo sempre desiderato amasse me. O meglio, il loro piano prevedeva la prima parte del mio ragionamento mentre l’altra era tutta farina del mio sacco. Perché di Londra non mi affascinava solo la cultura, affatto. Mi affascinavano anche i londinesi. Uno in particolar modo.

Robert Thomas Pattinson, ovviamente.

Mi sentii una stupida per aver pensato una cosa del genere. Che mi aspettavo? Di vederlo all’aeroporto di Londra, di lì a qualche ora, con le braccia aperte pronte ad accogliermi e gli occhi brillanti tutti per me che mi veniva incontro dicendomi: “Finalmente, mi hai fatto aspettare tanto”. Magari mi avrebbe anche rivolto un suo sorriso mozzafiato.
Il sogno ad occhi aperti sparì nel momento in cui l’auto si arrestò bruscamente. Spalancai gli occhi, sorpresa. Non mi ero minimamente accorta che eravamo arrivati al’aeroporto. Un angolo delle mie labbra si alzò disegnando la mezza curva di un sorriso. Trattenni a stento una risata quando mi accorsi che i miei pensieri erano davvero molto sciocchi e pretenziosi.
Chiusi il libro che tenevo in grembo e lo ficcai nel mio bagaglio a mano. Sospirai. Non volevo davvero sorbirmi il check-in e tutto il resto. Di sicuro il metal detector avrebbe rilevato la mia macchina fotografica e avrei dovuto tirarla fuori dalla valigia. Aprii lo sportello, inspirando lentamente dal naso. Mio zio mi salutò fuori dalle grandi porte automatiche dell’edificio.
«Fa’ la brava, Destiny. E fai attenzione lì, è una grande città e tu non ci sei abituata», disse contrito.
«Lo so, tranquillo. Ci vediamo presto», promisi, sfoderando il solito sorriso, il più convincente che mi fu possibile. Sapevo bene che non sarei tornata. Non così presto, almeno. Gli diedi un bacio sulla guancia e trascinai il trolley verso l’interno dell’aeroporto.

L’edificio era enorme e pieno zeppo di gente che correva a destra e a sinistra. Provai il forte istinto di voltarmi e scappare urlando ma mi imposi di mantenere la calma. Sarebbe stato davvero controproducente.
Avanti, pensai, molli tutto ciò che hai desiderato per tanto tempo così? Adesso scollega il cervello, non pensare a niente e fai questo maledetto check-in. E magari non dovrai pensare neanche sull’aereo. Dormirai. Dormire. Ovviamente non ci sarei riuscita.
Ignorando quel pensiero, scollegai il cervello dal corpo e meccanicamente proseguii verso i metal detector.

 
Quando il mio corpo riprese contatto con il cervello ero comodamente seduta al mio posto in prima classe. Era confortante sapere che avrei potuto accendere e spegnere i miei pensieri a mio piacimento; non mi obbligava a pensare, soprattutto in quel momento, quando l’anello che portavo al dito diventava pesante come un macigno. Mi ero imposta di portarlo sempre, me lo sarei fatto tatuare se mai l’avessi perso o gettato. Dovevo ricordare. Sempre. Perché aveva un significato importante, che mai avrei dovuto dimenticare o accantonare. Quei pensieri si fecero di un’intensità assurda, quasi insopportabile. Presi il mio Ipod dalla tasca, decisa ad ignorare l’ondata di ricordi che mi faceva girare la testa.
Incredibilmente, senza neanche accorgermene, mi addormentai scivolando nei sogni.

Non mi rendevo conto di essermi addormentata, ero fermamente convinta di essere a Londra. Camminavo per le strade affollate in cerca della casetta che i miei avevano affittato per me. Mi sentivo stanchissima, affaticata, come se avessi camminato per chilometri senza mai fermarmi. Fissavo il marciapiede sotto di me mentre camminavo a testa bassa. Poco mi importava che le persone affianco a me mi urtassero e mi spingessero da una parte all’altra. Ad un tratto una botta secca, persi l’equilibrio e caddi. Oddio, pensai subito, mi calpesteranno! Ma non fu così. Tutto divenne nero. Riuscivo solo a vedere due mani tese verso di me, una era femminile e l’altra maschile. Sembravano volermi aiutare ma io non riuscivo proprio a trovare la forza per muovere i muscoli e afferrarle. E quelle si allontanavano. Io mi tendevo il più possibile per raggiungerle e loro mi sfuggivano. Aprii gli occhi di scatto.
Ero ancora sull’aereo, seduta al mio posto e con le cuffie nelle orecchie. Il cielo fuori dal finestrino era grigio e nuvoloso. Sicuramente stavamo per arrivare a destinazione. Spensi l’Ipod nonostante la canzone partita in quel momento era Undisclosed Desires dei Muse, una canzone che amavo. Mi sentivo tutta indolenzita. Mi stiracchiai piano. Come immaginavo la voce di una hostess ci avvisava che stavamo per atterrare e ci ringraziava per aver scelto la loro compagnia. Allacciai le cinture di sicurezza. Sentivo il pulsare del sangue nel cervello, quel sogno mi aveva scossa davvero.
Premetti le dita contro le tempie disegnando cerchi concentrici per cancellare il mal di testa. Sospirai.
L’atterraggio non fu dei più confortevoli ma ormai andava bene tutto. Volevo solo trovare la mia nuova casa e dormire. Mi sentivo proprio esausta, come se non avessi dormito affatto. Recuperai la mia valigia e uscii subito dall’aeroporto. Non vedevo l’ora di lasciarmi alle spalle la gente che correva da un terminal all’altro, gli altoparlanti che chiamavano i voli e i metal detector. Le strade erano più affollate di quanto immaginassi. Forza, mi feci coraggio. Da oggi comincia una nuova vita.

*Writer notes: Ovviamente è inutile dire che le recensioni sono graditissime. Mi serviranno per scrivere dei capitoli ricchi e interessanti, soprattutto per voi. A presto! Smiles.

  
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