-Siamo figli di Dio. Siamo stati
creati con uno
scopo, il più grande che ci sia: amare ed essere amati.-
Lo avevo sentito ripetere
più volte nel corso della mia vita, fin dalla più
tenera età. All’inizio ci
credevo. Sorridevo orgogliosa, stretta nel mio cappottino nero,
raggomitolata
insieme ai miei fratelli, durante l’ora della messa,
ascoltando quelle parole
ripetute con enfasi dal prete che presiedeva la cerimonia. A quel tempo
ero
piccola e ingenua, credevo facilmente a tutto quello che mi veniva
detto. In modo
particolare credevo in Dio. Spesso mi sentivo in soggezione pensando
che lui mi
stesse guardando e non mi abbandonavo quasi mai a quei giochi infantili
e
sciocchi tipici dell’infanzia.
Mi piaceva pensare di avere
uno scopo, anche se allora non lo capivo era anche logico.
“Amare ed essere
amati” può apparire un concetto decisamente
semplice, ma neanche ora che sono
adulta sono sicura di comprenderlo a pieno. Un giorno chiesi a mia
madre cosa
significasse amare e lei ne rimase sorpresa. Ci mise un po’ a
trovare le parole
giuste per spiegare a una bambina di appena sei anni un sentimento
così
complesso. Borbottò qualcosa che non ricordo e mi pose una
mano sulla testa,
annodandosi una ciocca dei miei capelli bruni alle dita affusolate. Mi
disse
che l’amore era quello che legava in modo speciale due
persone e, per rendermi
le cose più chiare, mi fece l’esempio di lei e
papà. Allora credetti di aver
capito.
Spesso mi ritrovavo a
osservarli mentre si baciavano o si sfioravano le mani o semplicemente
parlavano.
E la mamma sorrideva. La mamma sorrideva sempre.
Con il passare del tempo
però papà passava sempre meno tempo a casa e non
baciava più la mamma, non le
carezzava le mani ed evitava di parlarle.
E la mamma non sorrideva
più. E mentre la vedevo ingrigire e appassire mi chiedevo se
anche quello fosse
amore.
Quando raggiunsi i quindici
anni credetti di aver finalmente trovato l’amore, di aver
davvero raggiunto il
mio scopo. Mi sentivo leggera mentre stringevo la mano del mio primo
ragazzo e
le farfalle mi si agitavano nello stomaco quando lo vedevo. Avvertivo la terra
mancarmi sotto i piedi
quando le nostre labbra si sfioravano.
Ero una ragazzina
innamorata. Una ragazzina stupida e innamorata che credeva ancora nelle
favole
e nel principe azzurro. A ripensarci mi sento ancora in imbarazzo.
Quando lui mi lasciò
la
favola finì e allora credetti di aver compreso
definitivamente cosa fosse l’amore.
Quel vuoto
opprimente che sentivo
dentro, quella rabbia e quel sentimento di nostalgia, quello era amore.
Niente,
solo un miscuglio di sensazioni spiacevoli e poco coerenti, a mio dire.
Crescendo la mia visione
dell’amore mutò ulteriormente divenendo sempre
più cinica, fino a convincermi
che esso non esistesse. Più volte maledii Dio per avermi
destinata a rincorrere
qualcosa di fasullo.
Ora che non sono più
una
bambina né una ragazzina mi chiedo se quello che provo ora
non sia amore,
mentre mi passo la mano sul ventre rigonfio in una lasciva carezza e
avverto un
piccolo piede calciare; se finalmente ho raggiunto il mio scopo...
Angolo Autore:
la frase iniziale appartiene
a Maria Teresa di Calcutta. In origine era un compito di filosofia, ma,
visto
che mi piace, ho deciso di pubblicarlo **
Credo che sia abbastanza
chiara. Perdonate la visione un po’ pessimistica
dell’amore, ma ero
particolarmente ispirata ** La storia è abbastanza
autobiografica e chi mi
conosce bene se ne accorgerà – indi lo posso fare
solo io ù.ù
Mi hanno chiesto se il
personaggio alla fine riesce a capire che cosa è
l’amore. Potrei dire di sì, ma
non ne sono certa. Io vedo l’amore come una continua ricerca,
forse anche perché
è un sentimento troppo astratta...
Spero
vi piaccia, fatemi
sapere che ne pensate >.<