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Autore: Briseide    22/09/2010    3 recensioni
Le cose erano precipitate da sole, come era naturale che fosse.
"Cosa vuoi?"
Cosa voleva? Niente.
Tutto.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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margherita
Margherita

Le cose erano precipitate da sole, come era naturale che fosse.
A pranzo, durante la pausa tra una lezione e un’altra, lei mangiava sempre di meno, tormentava quello che Livia le metteva nel piatto, prendeva sorsi distratti di quello che trovava nel proprio bicchiere; lui si aggiungeva al tavolo poco dopo, sempre più pallido e teso e non toccava cibo. Scivolava al suo posto, fissando un solo punto con il vuoto negli occhi, né le parole del fido compagno né l’intensità degli occhi scuri di lei riuscivano a strapparlo dai suoi tormenti.
Valerio assisteva in silenzio a quella disfatta, desideroso e timoroso di vederne la fine. Se aveva trovato il coraggio di augurarsi che arrivasse presto, era stato solo perché sapeva che Margherita non fosse felice neanche in quel modo.
La vedeva attraversare l’atrio di facoltà, la mattina, altera e irraggiungibile, sfrecciare tra persone di cui non incontrava il volto, di cui non conosceva nome, chiusa nel baluardo dei suoi pensieri dedicati ad una persona che per loro non aveva posto.
Valerio si sentiva la sua ombra, seguiva le sue mosse, osservava la spigolosità dei suoi gesti, ascoltava la durezza e il sarcasmo delle sue parole e si chiedeva che suono avesse la voce di Margherita quando si trattava di parlare all’orecchio di un amante, con che delicatezza le sue labbra si posassero sulla bocca del padrone del suo cuore, e che respiro leggero le premesse sul seno nelle ore del sonno, quando si abbandonava alla timida morbidezza dei sogni, in assenza di qualsiasi indiscreto spettatore.
Poi a pranzo o nelle ore di lezione Valerio era costretto a vederla ammantata nel suo maglione, con quella spilla appuntata al cuore, a ricordare a tutti che era stato punto, perforato, lacerato già una volta e che quella spilla era lì proprio per quel motivo, perché non c’era niente più ormai da compromettere, nessuna innocenza da perdere. Valerio non era d’accordo, lui, se avesse potuto, avrebbe preso la spilla e ne avrebbe arrotondato la punta, e poi l’avrebbe gettata via lo stesso, perché nessuna divisa si addiceva al corpo di Margherita, che era se stessa e a se stessa doveva bastare per potersi amare.
Quella mattina rimase fermo, impassibile al suo posto, a bere caffè e lasciare illibato il piatto, proprio come lei stava facendo, e con una morsa di ironia e frustrazione pensò che in fondo conoscessero entrambi gli stessi sintomi e che dallo stesso male si stessero lasciando consumare.

-

Crescere insieme a lei non era stato facile, non era stato un regalo.
Non aveva memoria del giorno in cui aveva iniziato ad amarla. Certi giorni gli sembrava che fosse così da sempre, tanto era naturale partecipare alla sua giornata come fosse la propria. Altri giorni alcune sue espressioni o una certa indolenza nel sedere al tavolo comune riportava agli occhi di Valerio l’immagine di una Margherita bambina, perfetta nelle sue calze bianche alte al ginocchio e nella gonna allora della giusta lunghezza, che si arrotolava in mille frange ogni qualvolta lei scendesse le scale dell’Istituto del Sacro Cuore in quel suo modo saltellante, come se ci fossero dei chiodi pronti ad attenderla ovunque posasse il peso del suo corpo. Quelle volte la gonna scopriva impietosa dei loro tredici anni ciò che Valerio aveva solo osato immaginare, avventurandosi con cautela e un certo timore nei terreni aperti della sua fantasia.
Poi erano cresciuti, e le vezzosità che Margherita aveva da piccola le aveva perse da un giorno all’altro. La ricordava in Giugno, vanitosa e sapientemente frivola, aveva questa immagine del suo dito sottile immerso nei capelli neri, e quel movimento del polso, dolce su se stesso, con cui arrotolava ciocche di capelli che lui sapeva profumati pur non avendone mai conosciuto l’odore, e lo sguardo basso, il sorriso niente affatto timido ma consapevole di sé. La ricordava in Giugno affezionata a se stessa e scanzonata, irridente ed esperta perché sola ed unica conoscitrice delle regole di un gioco che lei stessa aveva inventato.
Settembre cancellò quel ricordo. Era finita la primavera, e con quella anche i colori e le luci della seduzione infantile di Margherita. Non era più una bambina, era una donna che era sbocciata senza fiorire: il sorriso accattivante non c’era più, non giocava più con se stessa, forse perché era divenuta gioco di altri – di un altro – e il divertimento si era perso, sciupato, il giocattolo rotto, il meccanismo inceppato, la regola violata in modo brutale e lei non aveva saputo vendicare e nessuno aveva vendicato per lei.
A settembre Margherita era una donna malinconica, il sorriso non più invitante come in Giugno né timido come ad undici anni, ma sporadico adesso e poco generoso. Lei, era poco generosa di sé.
Forse era stato proprio allora che Valerio si era innamorato di lei: il giorno in cui smise di adorarla e iniziò ad esplorare nascostamente i solchi dei suoi dispiaceri, le rughe della sua espressione pensosa, il mutismo del suo dolore.
Si innamorò di lei lentamente e in maniera inevitabile, trovando piene di luce le sue ombre. Allora la trovò più vera di quando era bambina, e in fondo anche più raggiungibile. Non aveva più avuto timore di toccarla anche solo nei pensieri, spaventato all’idea di rovinarle le pieghe del vestito. Adesso conosceva le pieghe che aveva sul cuore e di quelle riusciva ad avere molto più rispetto, e per quelle credeva di poter fare qualcosa, di poterle distendere, con una carezza ben diversa dalla morsa sgraziata e poco gentile con cui di certo l’altro, Luca Rendina, lo aveva stretto tra le sue mani pallide. Mani che non erano degne di toccare Margherita e la fragilità del suo corpo. Che ne sapevano, quelle mani lisce e arroganti, che non avevano conosciuto la vita? Per questo stringevano e strappavano e sottraevano senza sapere che l’altro è una cosa delicata, che la vita in sé è fatta di materia friabile, che basta un niente perché si spenga o perché si accartocci.
Luca Rendina era figlio del bastone di suo padre: premuto con arroganza ben ritmata in accompagnamento ad ogni passo del loro imperialismo.
Che ci faceva, Margherita, tra loro?
Lei che aveva il nome di un fiore, come poteva confondersi con quella sterpaglia, con quelle persone i cui passi erano soliti calpestare e mai attraversare, che conoscevano solo appropriazione e conquista e mai ospitalità, che seccavano ed estirpavano senza mai seminare né coltivare.
Nella sua immaginazione Valerio allungava la propria mano e premeva le dita intorno al polso sottile di Margherita, le chiedeva di voltarsi e le sorrideva timido, offrendole una sponda comune su cui camminare insieme a piedi scalzi.
Ma quando incrociava poi gli occhi neri di Margherita, la sua immaginazione vacillava, i disegni netti in cui aveva dipinto infinitesime volte quella scena gli apparivano solo bozze degne di scarto, dai tratti infantili e dai colori annacquati.

-

Distraendosi durante le lezioni, Valerio si appuntava nella mente di chiederle perché mai Luca Rendina, che razza di scelta poco rispettosa di sé fosse quella e, se fosse riuscito a mitigare l’asprezza che lo pervadeva per la questione, le avrebbe anche detto sottovoce che tanta ottusità da parte sua proprio non se la aspettava.
Poi però gli apparve il ritratto dell’aria tormentata, dell’espressione frustrata e del corpo magro di Margherita, un fascio di nervi negli ultimi mesi, i suoi capelli sottili, le sue labbra esangui ora che non le adornava più di rossetti dai colori sfiziosi, la laconicità del suo parlare, la fuggevolezza dei suoi sguardi, il baratro di vuoto dei suoi occhi nei momenti in cui non vista smetteva la maschera di implacabile intransigenza, di quel freddo distacco da diva con cui andava in giro per corridoi e aule universitarie.
E si chiedeva perché scegliere lei in mezzo ai fianchi morbidi di Ginevra o ai sorrisi accattivanti di Elisabetta o persino al placido e affezionato ben volere di Livia.
Si ricordò di non aver avuto voce in capitolo in quella scelta, di essere stato aggredito alle spalle e stordito, intrappolato nelle morse di una passione viscerale e di un pensiero dedicato con sincerità, al punto che non si trattava di un capriccio, davvero.
Avrebbe anche potuto non averla. Se Margherita non avesse voluto saperne, lui per rispetto di sé ma prima di tutto di lei, che continuava a vedere regina anche se di stracci ora e non più di glorie, non avrebbe sollevato un dito, anzi avrebbe fatto un passo indietro.
Cosa voleva?
La sua malinconia non lo rendeva inquieto, non lo metteva a disagio. I suoi silenzi così chiusi e privati sapevano comunque tenergli compagnia. Le sue ossa sporgenti non lo avrebbero ferito, lui era certo di avere angoli del suo corpo perfetti per quell’incastro.
Non le avrebbe chiesto sorrisi di circostanza e voti d’amore. Lui per primo ne vedeva l’inutilità.
E non avrebbe fatto sfoggio di lei. Non avrebbe esultato in pubblica piazza per la vittoria ottenuta, le avrebbe raccontato la propria felicità in un bacio, nella loro solitudine lontana dagli altri.
Certo, non era Luca Rendina.
Né i suoi capelli né il suo nome rilucevano in quel modo abbagliante.
Non aveva un padre facoltoso, in fondo un padre non lo aveva e basta.
Sua madre era stata una bella donna, ma non era lì per darne dimostrazione, era già appassita, a quell’ora della sua bellezza non era rimasto niente, con disgusto e con un dolore indicibile – che però lei avrebbe compreso e accudito, ne era certo – Valerio avrebbe confessato che sua madre se la stava mangiando il tempo, anzi l’aveva già consumata e sfibrata, di lei non aveva lasciato niente altro che ossa e polvere abbandonate all’umidità della terra popolata di insetti e di oscurità.
Le sarebbe andato bene lo stesso?

-

Un giorno trovò il coraggio di seguirla.
L’aveva sentita discutere con Luca fuori dalla biblioteca, uno di quei soliti dialoghi tra loro, fatti di parole sibilate e di pensieri strozzati in gola, di confessioni mancate che entrambi si tenevano strette preferendo logorarsi con mezze verità e costruzioni di menzogne.
Valerio non credeva a se stesso e al suono attutito dei propri passi: la stava seguendo davvero, e per ottenere cosa? Fino a che punto e poi cosa avrebbe fatto?
In università di sera alle otto per i corridoi non c’erano altri che loro, lei la luce argentea e tremolante del fantasma di sé, lui fatto di ombra.
I suoi passi piccoli e affrettati lo percorsero tutto, Valerio le tenne dietro con il cuore in gola.
Vedeva le sue spalle magre contratte, le braccia strette intorno al proprio corpo, come se avesse freddo o cercasse in tutti i modi di tenere uniti i propri pezzi, di non sgretolarsi, di non soccombere con tanta arrendevolezza.
Poi di improvviso si fermò, e Valerio con lei.
“Cosa vuoi?”
La sua voce sottile andò a conficcarsi di netto dentro di lui.
Gelò non conoscendo la risposta.
Cosa voleva? Niente.
Tutto.
Margherita continuava a dargli le spalle, ma nel silenzio fremeva l’attesa impaziente di una risposta. Era curiosa e sorpresa, forse anche un po’ spaventata.
Valerio non mosse un passo, perché pur in quella distanza fisica che li separava, non si era mai sentito tanto vicino a lei come nel contenuto di quella domanda. Entrambi non avevano risposta, e non importava che quella di Valerio fosse dovuta e quella di Margherita pretesa, restava il fatto che una risposta precisa non c’era, e che mentre Valerio ammetteva di non averla, nella stessa porzione di istante Margherita accettava di non ottenerla.
Una strana, la prima, sintonia tra loro.
“Mi segui un altro po’?” domandò poco dopo Margherita.
Si stava informando o glielo stava chiedendo, o entrambe le cose.
Anche quello aveva poca importanza a quel punto dei giochi.
Valerio annuì anche se lei non poteva vederlo. Allora fece due passi in avanti e si fermò di nuovo, perché dal suono capisse quale fosse la sua risposta o capisse solo che aveva accettato.
“Continua” la invitò.
Margherita esitò ancora qualche secondo, il tempo in cui le parole di Valerio la raggiungessero e si adagiassero sulle sue spalle come un mantello di promesse già esaudite.
Continua. La sua voce le arrivò calda di tenerezza e di desiderio, ma di un desiderio che non era affilato e non era invasivo: fu circospetto e attento a non oltrepassare una linea di confine che lei non aveva mai tracciato perché non era poi molto capace di prendersi cura di se stessa, ma che invece il rispetto di Valerio aveva tracciato per lei.
E allora continuò.

-

Si fermò poco dopo, stanca di vagare.
Le sembrava di non aver fatto altro, di aver sempre brancolato nel buio. Prima nel buio affettivo dei suoi genitori, poi in quello oltretutto silenzioso della sua storia con Luca, poi in quello di una vita vissuta in stato di guerra, di nuovo dalla parte sbagliata, incapace e senza forze per valicare il recinto di torti in cui si era trovata.
Si fermò e attese che anche Valerio si fermasse.
Fu puntuale come era sempre stato, anche se forse non sospettava che lei lo sapesse, che lo avesse notato. A pranzo, a lezione, alla fermata dell’autobus. Né in anticipo né in ritardo: Valerio era sempre già lì, dove e quando avrebbe dovuto essere.
Solo in quella circostanza però, per la prima volta, Margherita comprese di sentirsi rassicurata da quella sua abitudine.
Si voltò, cercandone lo sguardo, lo trovò ad una distanza che lui di certo definiva debita, anche se gli costava un sacrificio.
Margherita lo volle vicino.
Scivolò con le spalle al muro, fino a sedersi sul pavimento freddo del corridoio, lontana dalle luci disseminate sulla parete opposta, perché lui non vedesse troppo di lei, a dispetto di quanto di sé avesse mostrato in tutto il tempo precedente.
“Non ti siedi?”
Valerio notò come a lui Margherita parlasse sempre per domande.
Con gli altri era dispotica e sentenziosa, il poco che aveva da dire era un ordine da capoclasse al liceo o una raccomandazione dettata a sua sorella dal rigido dogma della sua famiglia, o il rifiuto ad un invito di una compagna di corso o ancora la negazione di un’ipotesi timidamente avanzata da Livia al suo riguardo.
Con lui però era interrogativa e propositiva.
A lui chiedeva conferme a voce bassa, sottile, pronta a sparire.
Valerio non disse niente, andò a sedersi al suo fianco, attento a non sfiorarla senza un suo permesso.
Abituata ai capricci del casato Rendina, forse lei per prima non avrebbe saputo come chiedere ad un uomo di starle accanto e non andarsene, come accordargli il permesso di toccarla davvero, perché nessuno le aveva insegnato a parlare per sé e di sé.
“Perché mi seguivi?” chiese ancora.
Lo guardava nel parlargli e Valerio fece forza a se stesso per sostenere quello sguardo nero come un baratro ma non torbido, non più.
“Non lo so, io ti seguo sempre.”
Non sapeva perché lo aveva detto in quel modo e in quel momento dopo tanto riflettere su altri come e altri quando. Ma era vero, che non faceva altro che seguirla, e quando non in un corridoio comunque nei pensieri e con lo sguardo.
“Sì, questo lo so” confessò anche lei, sorridendo piano.
Allora Valerio ebbe davvero il coraggio di guardarla, per capire se lo stesse prendendo in giro o fosse successo davvero. Scoprì seduto per terra in un corridoio dell’università che per tutti quegli anni Margherita aveva conosciuto l’ardore degli occhi che posava su di lei, la puntualità della sua presenza nelle sue giornate.
Lo scoprì e se ne vergognò e infine abbassò lo sguardo, perdendolo altrove.
“Non parliamo molto noi due” disse ancora Margherita.
Per un attimo tornò in lei l’ironia bambina, il sorriso sornione del custode di un segreto che sta per essere rivelato.
“Anche se di occasioni ce ne sono, durante il giorno. Quando siamo tutti insieme io parlo sempre ad altri, mai a te. Non ti sei chiesto come mai?”
Era retorica la sua domanda, entrambi lo sapevano.
Valerio rispose tornando a guardarla, offrendole quel coraggio racimolato a stento in quello spazio troppo effimero tra loro, tutto occupato dal suo profumo per la prima volta così vicino e la sua voce per la prima volta così reale e non immaginata in un ipotetico incontro. Poteva sentire l’odore dei suoi capelli. Sapeva che sarebbero stati profumati. Lo sapeva.
“Perché avevo paura di parlare con te. Chissà cosa avresti potuto dirmi. Invece i tuoi silenzi mi piacevano di sicuro, già lo sapevo. Quando sei nei paraggi sento di avere le spalle coperte. Non mi tocchi mai però è come se mi costruissi ovunque ci troviamo quattro mura intorno. Invece le parole non costruiscono niente, spesso demoliscono. Quindi non volevo che mi parlassi, soprattutto in mezzo agli altri. Si dicono una marea di scemenze, in mezzo agli altri. Si parla sempre per loro, anche quando si è convinti di parlare a nome proprio. Invece è solo la propria voce, che si usa, ma il contenuto è quello che gli altri, in silenzio, bel paradosso vero?, ti hanno messo in bocca. E’ vero, mi dai ragione?”
Valerio alzò le spalle, sentendosi del tutto inerme eppure a suo agio.
“Ho poca dimestichezza con le parole.”
Lo disse con tutta la stanchezza che gli aveva procurato fare i conti con i suoi silenzi in un mondo perso in chiacchiere.
Anche nella loro infanzia, nell’istituto privato dove i loro genitori li avevano spediti senza preoccuparsi di indagare se i leoni di marmo posti all’entrata avrebbero inghiottito i loro bambini sottoforma di apprendimento cattedratico e punizioni esemplari e divise soffocanti e una competitività insana e precoci ansie da prestazione… anche lì, tra quei bambini, nelle loro classi, dove il crimine diveniva fonte di complicità e teneva stretti contro la fulgente giustizia della Presidenza e del Corpo Docente, anche lì non si faceva altro che parlare per bisbigli o discutere con toni veementi durante la ricreazione, ma sempre parlare, che fosse un complotto o una nuova strategia, che fosse un segreto svelato per convenienza o per un sincero e improvviso bisogno di una qualche onestà.
Sempre parole, in mezzo alle quali Valerio si muoveva goffamente e alle quali rispondeva con silenzi prolungati che a lui sembravano eloquenti ma che nessuno degli altri, dei suoi supposti compagni, sapeva interpretare né ascoltare.
E ora Margherita gli chiedeva conto dei suoi silenzi, spiegandogli i propri nei suoi confronti. Mai avrebbe potuto descrivere con parole umane la libertà che gli scoppiò nel cuore di fronte a quel riconoscersi così timido e primitivo.
“Sì” disse soltanto, Margherita.
Poi si alleggerì di un sospiro e aggiunse:
“Mi hai sentita litigare con Luca?”
Valerio annuì, sentendo quasi di dover chiedere scusa per essersi reso spettatore di qualcosa di tanto privato come ciò che avesse per oggetto Luca Rendina. Sapeva quanto Margherita fosse gelosa di lui e di ciò che li riguardasse come coppia, come quel noi che in ogni caso non riuscivano o forse non potevano essere.
Lei però non diede segno di sentirsi violata.
Scivolò ancora un poco, dalla posizione in cui era, più languida, meno diffidente.
“Pazienza. Non sei il primo, non sarai neanche l’ultimo. Va così, sappiamo solo litigare, è il nostro modo di stare insieme. Siamo piccoli, ancora. O forse insieme non possiamo proprio crescere. Saremo piccoli e ci faremo i dispetti con la cattiveria dei bambini fino a quando ci ostineremo a voler stare insieme.”
Valerio frenò la mano con cui avrebbe voluto fermare quella rassegnazione nella voce di Margherita, la mano con cui avrebbe voluto prenderle il polso e mostrarle l’altra sponda del fiume. Quella abitata da un uomo diverso da Luca, pronto a fare posto ad una donna vera, capace di sopportare la sua malinconia e di condividere qualche suo desiderio.
Non le presentò alcun invito, ancora.
Rimase a guardarla, ancora, ferma sull’altra sponda, con ai piedi una barca addormentata nel fiume, che altro non aspettava se non che Valerio vi salisse e raggiungesse la bambina divenuta donna, sulla sponda opposta.
“A me sembra che sia impari. Lui è più integro di te.”
Dette da un altro l’avrebbero uccisa, ma Valerio pronunciò quelle parole riempiendole di pietà, di una pietà buona e non di circostanza, non blanda ma piena di amore, per lei.
Era un modo piuttosto salvifico di ricevere una verità che in qualsiasi altra veste sarebbe risultata solo spietata.
Margherita annuì, cercò la mano cresciuta, non più bambina, di Valerio e vi sovrappose la propria, stringendo le sue dita lunghe e nervose tra le sue, a dirgli che non era offesa, era solo molto triste e del tutto incapace di parlare della propria tristezza.
“Lo so, è così. È il suo egoismo che lo protegge. Ha un cuore sano e forte, non si è mai scalfito. Il mio cade a pezzi, il suo è ancora pieno di sé.”
Allora Valerio fremette al suo fianco, si voltò verso di lei, le strinse la mano invertendo l’incastro di dita, la risvegliò e la richiamò a sé, le parlò con occhi lucidi di sentimento e una voce grave e presente a se stessa.
“Spezzato va bene, Margherita. Va bene che sia spezzato, basta che non geli. Spezzato fa male ma vuol dire che è ancora vivo, gelido è morto.”

-

Non parlarono per diversi giorni dopo quella sera.
Valerio assistette al recupero di terreno di Luca, la mattina dopo e i giorni a seguire.
Li vide parlare, seduti vicini, sul muretto di marmo nel cortile dell’università.
Il biondo dei capelli di Luca sfiorava la tempia di Margherita, lei era china su di lui, una mano sulla sua gamba, a tenerlo fermo, a chiedergli di restare, per una volta, di prendere un respiro profondo come quello degli adulti, di non rincorrere individualismi fatui e di guardarla tanto a lungo negli occhi da poter leggere tutto, tutto quello che c’era scritto per lui.
Non seppe se quel pomeriggio Luca trovò il coraggio, perché si allontanò da quel cortile e da quell’immagine, trovando nello studio del codice penale un rifugio temporaneo.

O forse Margherita non gli stava chiedendo niente di simile.
Forse quella mano sul ginocchio era materna, e le sue labbra non chiedevano baci o parole d’amore ma lo invitavano ad accettare la realtà dei fatti, a dimostrarsi maturo accogliendo la sconfitta comune di coppia.
Per questo Luca non la guardava negli occhi, perché non era in grado di perdere. E del resto, almeno su quello, Valerio non riusciva a sentirsi a lui superiore, perché di fronte all’idea di perdere Margherita avrebbe conosciuto lo stesso sgomento e lo stesso dolore attanagliante che forse stava risvegliando Luca su quel muretto, richiamandolo al mondo degli uomini.

-

Una sera Margherita venne a cercarlo.
Non gli aveva tolto gli occhi di dosso per tutta la giornata, in università, e lui lo sapeva, lo aveva sentito, bruciante, il suo sguardo su di sé.
Le parole che le aveva sentito rivolgere ai compagni erano state vaghe e distratte prima ancora che laconiche come al solito.
Lasciando il proprio posto e incamminandosi verso la fermata dell’autobus, Valerio aveva avuto la netta ubriacante sensazione che lo avrebbe cercato. Non aveva voluto concedersi il beneficio del dubbio, si era rimproverato e imposto di ritirare quel pensiero prima che perdendone convincimento si tramutasse in speranza e che venisse poi delusa.
Quando però sentì suonare la porta di casa sua, quella sera, era di nuovo più che certo di cosa avrebbe incontrato dietro il legno massiccio: i suoi occhi. Il corpo magro di Margherita, teso e nervoso. La voce bassa e monocorde con cui avrebbe chiesto un incerto permesso, ostentando sicurezza e savoir-faire, come se a parlare fosse la spilla di capoclasse ancora al suo posto sul petto.

“Sì?” domandò sapendo che qualsiasi altro avrebbe aperto senza bussare, usando le chiavi.
“Aprimi.”
Non era una domanda, ma tutto sommato neanche un ordine.
Valerio aprì la porta come se stesse salendo su quella barca ancorata alla riva del fiume.
Margherita lo guardò con quei suoi occhi neri, lucidi quella sera come forse erano stati quelli di Valerio la volta prima, nel corridoio dell’università..
Era leggermente ansante, come se avesse fatto le scale di corsa, o se avesse trattenuto il fiato troppo a lungo o stesse ardendo di un affanno diverso, che lui conosceva bene.
Valerio comprese subito che Margherita non avrebbe mai avuto il coraggio di assecondare i suoi desideri. Non sapeva come fare, come dare loro voce né attuazione, non sapeva come prendersela la felicità e tanto meno come chiederla, anche solo in prestito.
Forse era lì proprio per chiedergli questo, di renderla felice, o di farla sentire anche solo in pace, che probabilmente valeva di più, di più della felicità, che è solo un momento e non può essere programmato dopotutto, è qualcosa che si conosce solo dopo, quando il fuoco già si è spento e resta un calore tiepido a spiegare che quella appena passata era proprio lei, la felicità, e che come sempre non c’era stato tempo né modo di salutarla e tenersela più stretta di così.
No, forse la felicità non avrebbe saputo dargliela in quel modo preciso e duraturo, perché per quanto fosse innamorato di Margherita, Valerio era come lei, un essere umano e le sue mani avevano le stesse fattezze di quelle di Margherita, e sarebbe stato impossibile anche per lui acchiappare la felicità e portarla a qualcuno.
“Non c’è nessuno, vero?” chiese Margherita, chiudendo la porta alle proprie spalle.
Tremava. E Valerio desiderò abbracciarla fino alla fine del tempo.
“No” disse soltanto, e poi lo fece, finalmente. Allungò la propria mano, a premerle le dita intorno al polso sottile, e la invitò a sé, alla sua sponda.
Margherita, la indomabile intrattabile forastica capoclasse, l’irraggiungibile e supponente magistrato di domani, si lasciò trasportare, al punto tale da ritornare in sé lungo quel brevissimo tragitto che la separava da Valerio in tutto e per tutto.
In quei cinque passi rifiorì donna.
“Chiudi la porta.”
Tremava anche la sua voce.
“E’ già chiusa, Marghe. L’hai chiusa tu.”



Fine.


  
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