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Autore: Mikaeru    23/09/2010    2 recensioni
“Papà, papà, staremo sempre assieme?”, gli chiedevamo con la devozione di un innamorato, come chiedendolo ad un eroe delle leggende, delle favole, eravamo un’unica bocca di pulcino che richiedeva amore masticato, caldo, una coperta che fosse il nostro mantello durante le tempeste d’inverno. Lui ci mentiva col suo sorriso migliore, ci carezzava con gli occhi mantenendo una fisica distanza, noi in una stanza lui in un’altra, la mamma in soffitta a guardare e a benedirci tutti.
“Sempre, bambini.”
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Trishia Elric
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando Al sparerebbe a suo fratello, Fullmetal Alchemist

Mother make us golden

La mamma parlava tanto, con voce calma e allegra e dolce, per ignorare il silenzio in cui era immersa, il ronzio perenne che albergava nelle sue orecchie; con una lucida corazza di metallo si mostrava a noi e proteggeva se stessa dalle tempeste in cui viveva.

Di nostro padre ricordiamo solo particolari fisici, alcune frasi, gesti diradati nella nebbia: le mani grandissime, lisce, con cui ha raramente accarezzato i suoi figli, con cui stringeva i fianchi della mamma quando dormiva – sbuffava, cercando di non farsi vedere, quando andavamo a dormire tra loro, dopo un incubo – fra le sue braccia ci stringevamo, chiudendo gli occhi e fingendoci circondati dalle mura di un castello, lì dall’alba dei tempi, fortissimo, temprato da tutte le cose di questo mondo. Aveva le spalle larghe, il sorriso triste: non era felice. Non lo era con noi, non con la mamma. Una sorta di uccello in gabbia. Soffocava tiepidamente, non annaspava per non fare rumore; la sua ostinazione a fingere si è trasmessa ai suoi figli come una ragnatela dipanata in ogni angolo fino ad assorbire tutto.
“Papà, papà, staremo sempre assieme?”, gli chiedevamo con la devozione di un innamorato, come chiedendolo ad un eroe delle leggende, delle favole, eravamo un’unica bocca di pulcino che richiedeva amore masticato, caldo, una coperta che fosse il nostro mantello durante le tempeste d’inverno. Lui ci mentiva col suo sorriso migliore, ci carezzava con gli occhi mantenendo una fisica distanza, noi in una stanza lui in un’altra, la mamma in soffitta a guardare e a benedirci tutti.
“Sempre, bambini.”
Lui non sapeva chi fossimo noi e cosa significasse sempre.
Andavamo a giocare con il cuore colmo, ci tenevamo per mano per sottolineare l’eternità in cui credevamo profondamente, ci baciavamo sulla bocca all’ombra dei pini con labbra tremanti perché così si amavano i nostri genitori, e anni abbiamo passato a ripeterci questa stessa nenia nel buio delle tende tirate. Sorridevamo di sorrisi sdentati, guardando loro e noi stessi, specchiandoci nelle pozzanghere e nella luce lattea e purissima della Luna, sorridevamo di questa imperfezione intoccabile. Nei loro occhi e nelle loro mani individuavamo l’amore e questo ci bastava, nessuna domanda nell’oasi pacifica di un’infanzia immacolata.

Poi un piatto si ruppe e lui se ne andò: il boato che fecero i suoi piedi mentre calpestava l’erba del giardino riecheggiò nella nostra casa ora orrendamente vuota.
Guardammo nostra madre che raccoglieva cocci; si tagliò ed iniziò a sanguinare – si era tagliata l’anulare sinistro, la fede si macchiò, non avrebbe mai più luccicato (non l’avrebbe mai lavata).
“Mamma, mamma, oggi papà non lavora, dov’è andato?”
“Bambini, la mamma ha bisogno di un cerotto.”
Non ci guardò e noi le ubbidimmo, passammo davanti alla camera da letto, la metà del letto di nostro padre era buia, inghiottita dalle tenebre. Le ombre l’avevano mangiata, le piume volavano ovunque. Nostra madre lo buttò nel pomeriggio, ne comprò uno dorato che risplendeva quando lo guardava. Dorato come i nostri occhi. Come quelli di nostro padre. Gli assomigliavamo, ma non ci odiò mai per questo. Lei lo amava, lo ha sempre amato, come amava noi.
La vita riprese a viaggiare su un binario stabile e sicuro. Facevamo colazione parlando ad alta voce di sogni e giocattoli di legno magici che ci parlavano a lume di candela e facevamo merenda nei prati a piedi nudi, soffiando sulla rugiada, facendola rotolare sulla punta delle nostre dita. Nostra madre tornò ad essere il nostro angelo perfetto.

Nostro padre divenne un fantasma di bolle di sapone, ne rompevamo una senza darci peso, mischiavamo i ricordi con il fango e con l’acqua, perdevamo pezzi per strada senza pensare di raccoglierli, non ci chiedevamo i suoi perché e lo stesso facevamo con lei, che era sacra e intoccabile – lei che ci allevava e ci proteggeva, nascondendoci nel suo seno, guardandoci crescere e dividendosi a metà tra l’orgoglio e la volontà di mantenerci neonati attaccati ai suoi capezzoli. Eravamo i suoi gioielli della domenica, continuava ad amarci come fossimo stelle.
“Mamma, mamma, staremo sempre insieme?”
Lei ci sorrideva abbracciandoci, stavamo nello stesso piccolo minuscolo universo geocentrico, vivevamo su un granello di polvere, di sabbia dorata – la polvere di un migliaio di conchiglie.
Fu sempre attenta a non rompere più nessun piatto, a non innescare nessuna nuova crisi, trattandoci col velluto più pregiato. Aveva preso le tempere e si era dipinta la faccia di bianco, così da divenire una maschera neutra su cui decidere ogni mattina cosa dipingere. Era sempre un sorriso rosso ciliegia.
“Mamma, mamma, stai bene? Mamma, mamma, ti bastiamo? Mamma, mamma, quando saremo grandi ti sposeremo! Sarai la nostra principessa bianca, ti porteremo in un castello d’argento e vivrai per sempre, e sempre felice!”
Il suo sorriso rosso ciliegia splendeva e riscaldava come cento soli. Lei non si affaticava, lavorava per noi eppure era sempre perfetta. Non umana.
Quando ci abbracciava ci comprendeva tutti. Ci avvolgeva e ci riscaldava. Nessun inverno era mai troppo freddo, quando eravamo tra le sue braccia.
Lavorava e non sudava, soffriva e non lacrimava, e quando rideva la sua risata riecheggiava per le foreste e per il mondo intero. Non aveva lacrime, il suo dolore lo avevamo mangiato noi.

Un giorno sparì, all’improvviso.
Ci svegliammo e lei non era in cucina, non aveva le nostre tazze di the caldo, e ci spaventammo a morte. Gridammo il suo nome mille volte, speravamo apparisse come le stelle nelle notti profonde ed interminabili.  
“Mamma, mamma, mamma, mamma!”
Con le lacrime agli occhi e mano nella mano esplorammo la casa cercandola, il nostro dio era sparito e noi avevamo bisogno di pregare per sopravvivere. Non era nella sua camera, non era in giardino, non curava le rose col suo solo tocco, non cantava ai fili d’erba e al sole, non intonava canti d’angelo ai nostri nomi pregando e sperando che tutto andasse bene per sempre. La trovammo in soffitta, piegata su se stessa come i bambini nella pancia della mamma. Singhiozzava forte stringendo la giacca di nostro padre. Sembrava appena venuta al mondo col più grande dolore – quello schiacciante di tutta l’umanità la comprimeva e la soffocava. Quando si accorse di noi, si alzò e si asciugò gli occhi, ci prese in braccio e baciò le nostre tempie, poi il petto per guarire la ferita.
“Scusate piccoli miei, scusatemi…”
Noi santificavo nostra madre fino ad immaginare il suo corpo un agglomerato di luce bianca; riscoprirla di carne pulsante e lacrime ci lasciò disperati, tremanti e muti e immobili per un tempo che ci parve infinito. Ci lasciava senza protezione, senza mura a nasconderci. Non eravamo pronti.
“Scusatemi, scusatemi, non succederà più…”
Aveva le labbra che tremavano e un profumo incerto, quasi anonimo.

Ci mentì. Ci sconvolse. In cosa potevamo credere? Tornò più volte in soffitta, a nascondersi tra i ricordi e l’odore della notte e quello dell’abbandono – l’abbandono profumava di vie non battute e di foglie secche, delle loro grida quando le schiacci con le scarpe e non te ne curi. Fuggiva dalle quattro mura in cui ci aveva cresciuti, fuggiva dal respirare affannato e faticoso – la claustrofobia che le immobilizzava le ossa.

“Mamma, mamma, cosa ci fai qui?”
Glielo chiedemmo una volta sola. Lei ci guardò con le lacrime agli occhi e un sorriso luminoso.
“Per dimenticare. E non dimenticare. Capirete, quando sarete grandi.”

Una volta facemmo una passeggiata nei boschi, noi e lei. Le tenevamo le mani e guardavamo a turno per terra per impedire che potesse inciampare da qualche parte. Le margherite si aprivano al nostro passaggio, si scostavano salutandoci, le farfalle si posavano sul nostro naso. C’era un buon profumo attorno, e parlavamo sotto voce per non disturbare le fate.
“State attenti a dove mettete i piedi, bambini, o distruggerete le loro case.”
“Dove abitano le fate, mamma?”
“Sotto le foglie più belle e dentro i fiori più profumati. Quindi state bene attenti a dove camminate.”
Continuò a raccontarci le favole sotto voce, per non disturbarle. Parlava di quanto fossero libere, belle; di quanto la loro regina fosse buona e gentile, e trattasse tutte come sue pari. La vedemmo scintillare. Ci disse “La vostra mamma avrebbe tanto voluto essere una fata.”
“Quando eri piccola?”
Non rispose.
Quando ci voltavamo, la nostra ombra raggiungeva l’orizzonte, chiara ed effervescente; la sua non esisteva neppure.

Lasciava che la sua anima venisse rinchiusa in un rovo di spine, la lasciava sanguinare senza un lamento.
Quando fuggiva, lo faceva per non gemere di dolore davanti a noi.

Non l’abbiamo mai odiata, neppure quando potevamo non esserne consapevoli. Mai. La capivamo sempre. Forse perché prima eravamo nella sua pancia.

Miagolavamo come gatti quando tornava a casa; ci portava sempre un giocattolo nuovo, ci portava la pace profonda che vibrava nel fondo dello stomaco.
“Mamma, mamma, resteremo sempre assieme, sempre assieme!”
Lo ripetevamo in continuazione, tanto a lei come a noi. Rassicuravamo lei e noi stessi quando andava in soffitta. Ci abbracciavamo e ognuno lo ripeteva all’altro. “Sempre insieme, noi e la mamma, sempre insieme.”
Lo ripetevamo nel cercarla; quando la trovavamo, era sempre nello stesso punto, si illuminava quando ci vedeva. Aspettava lì come un cucciolo, voleva essere ritrovata, in ogni occasione voleva farci sapere dov’era. Noi dipendevamo da lei e lei da noi.
Sapeva perfettamente di farci soffrire, e questa le bruciava come una scottatura.

Quando tornammo a casa, un pomeriggio, non la trovammo e la cercammo. Chiamammo a gran voce; era così tanto che non spariva, non eravamo più abituati. Seguimmo il suo profumo e poi era lì, dinnanzi ai nostri occhi. Stava cementando la porta della soffitta.
Si voltò e baciò i nostri nasi, le nostre guance gelate, i nostri sguardi sconvolti, abbracciò la nostra anima.
“Per dimenticare e non dimenticare, mi bastate voi.”

  
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