14.
Non c'era molto spazio dove andare. Si diresse dalla parte opposta rispetto alla creatura e presto dovette fermarsi:
non c'era più spazio. Bloccata dalla conformazione esterna dello scafo alieno che ergeva tutto intorno a lei colline
di quel metallo strano, brunito a tratti, ricco di venature e trame intricate, dovette fermarsi. Ahmad era vicino a
lei, col fiato grosso e gli occhi strizzati per difendersi dalla luce del sole. Di fronte a loro il colonnato
pressoché circolare di zampe meccaniche, sovrastato dal veicolo splendente nei suoi colori sgargianti. Poco oltre
l'alieno. Vero, incontestabile, reale. Un polpo di dimensioni sconcertanti, i cui tentacoli si muovevano tutti
insieme, indipendenti. Presto si accorse che stava dibattendosi per fare qualcosa. Ma cosa? Lo osservò inarcarsi,
contrarsi, estendersi con tutto il corpo, una specie di sacca gonfia con delle creste che la percorrevano nel senso
della lunghezza. L'occhio, vicino a dove i tentacoli si diramavano, grossi come una sua coscia o forse di più,
sembrava guizzare disperato. Stava cercando di trascinarsi. Visto che l'alieno era ancora fermo lì dov'era caduto,
la paura la abbandonò lasciandole il cervello libero di pensare meglio. L'alieno era in difficoltà. Ma certo! Si
sorprese di quel ragionamento così lucido, fino a pochi secondi prima del tutto impossibile. Era davvero una creatura
del mare! Aveva bisogno dell'acqua e ora stava soffrendo! Come se l'essere avesse potuto sentire i suoi pensieri,
arricciò penosamente un lungo tentacolo nella sua direzione. Poi lo lasciò cadere, torcendolo e unendolo agli altri
che stavano inutilmente impegnandosi a trascinare il corpo.
- Sta male! - esclamò Nadine quando fu evidente che gli inutili sforzi compiuti dall'alieno per spostarsi stavano
scemando di intensità.
- Sta soffrendo! - sbottò irosa contro il pilota, che non faceva altro che guardare con occhi sbarrati l'alieno
contorcersi nella luce del sole.
- E che cazzo dovrei fare io? - reagì finalmente quello di scatto, ma la sua voce tradiva ancora paura.
Nadine si fece forza: costrinse le sue mani ad allontanarsi dal cavallo dei pantaloni inzuppato di urina che la
infastidiva oltre misura. Avrebbe voluto lavarsi immediatamente. Camminando con le ginocchia strette si avvicinò
all'alieno, badando a stare alla larga dai tentacoli. Ciò la costrinse a fare un percorso più lungo. Ebbe un tuffo
al cuore quando si accorse che l'occhio lenticolare, grande come il palmo della sua mano, si era orientato verso di
lei e l'aveva seguita un passo dopo l'altro. Incoraggiata dal fatto che i poderosi tentacoli non accennavano a
smettere di spingere il corpo dell'alieno, con scarsi risultati, si avvicinò. Sentì un rumore liquido: da sotto
il corpo affusolato ancora un po' d'acqua scorse via, probabilmente rilasciata dall'alieno. Capì che, a modo suo,
la creatura stava trattenendo il fiato e che non ce la faceva più.
Come in un sogno, frastornata Nadine si inginocchiò vicino all'alieno e con le mani lo toccò, alla ricerca di un
punto per sollevarlo. Odorava in modo curioso, come nulla avesse mai sentito prima. Al tatto era caldo, liscio,
compatto. La pelle dava l'idea di essere spessa, ma quando cercò di spingere quella cedette. Sentì la creatura
fremere e per lo spavento si ritirò. Era pesantissimo: per lei sola, inamovibile.
- Aiutami! - gridò all'uomo, che era rimasto imbambolato con la telecamera al collo. Dovette ripetere più volte
l'invito, arrivando anche agli insulti, prima che quello trovasse il coraggio di raggiungerla.
- Spingiamolo in acqua – si guardò intorno: lo scafo era scosceso in più punti. Non era un caso se Ahmad aveva
faticato a trovare un posto dove fermare l'aerogrifo, anche se poteva atterrare verticalmente.
Individuarono il punto più facile da scavalcare e iniziarono a trascinare l'alieno. Quello dette dimostrazione di
aver capito: coi robusti tentacoli si spingeva abbastanza da rendere l'impresa possibile. Nemmeno con l'aiuto di
Ahmad ce l'avrebbe fatta a sollevare quel corpo pesantissimo.
Vinta ogni remora Nadine si fece sotto per avere la presa migliore. Ma l'alieno era umido, le mani scivolavano in
continuazione. Ahmad le fece notare la presenza di una specie di guscio rigido, dove correvano le lunghe creste
sporgenti. L'alieno smise di fremere, dando l'idea di gradire il nuovo punto di appoggio scelto da lei e dal pilota
per sospingerlo.
In breve Nadine fu stremata dallo sforzo. L'alieno era davvero pesante e superare la prima gibbosità era stata per
lei una fatica immane. Era scivolata e caduta due volte e si era fatta male a un gomito. Gli occhiali di Ahmad le
erano caduti e ci aveva messo sopra un piede senza volere, rendendoli inutilizzabili. Spinsero l'alieno oltre la
cima della gobba bruna e si lasciarono scivolare insieme a lui lungo la breve discesa. Nadine aveva il fiato tra i
denti.
- Forza, di qua è più facile! - esclamò Ahmad dalla cima di una collinetta metallica lì vicino. Accecata dal sole,
fradicia di sudore e provata dalla paura, Nadine lo maledisse, e maledisse se stessa per l'idea avuta. Sarebbe stato
più comodo avere uno scheletro di polpo extraterrestre da esaminare, si disse in preda alla debolezza. Poi il suo
sguardo tornò all'occhio della creatura: era inespressivo, una semplice lente nera. Per un attimo le sembrò di
scorgere una pupilla contratta a spillo, al centro di un'iride di una diversa sfumatura di nero. La creatura non
aveva smesso di tentare pateticamente di sospingersi: senza il loro aiuto non aveva speranze. Vinta ogni remora,
accantonata la paura, Nadine si posizionò meglio che poté per fare forza con gambe e braccia e ricominciare a
trascinare l'alieno.
Giunti in cima alla collinetta di metallo, ebbe un capogiro. La discesa, dapprima dolce e lentamente digradante, si
faceva poi piuttosto ripida. Un secondo orizzonte, vertiginoso, tra lo scafo e le onde dell'oceano cupo. Il vuoto
improvviso, il vento più forte, lo strapiombo: troppo, per lei. Era nata e cresciuta in un ambiente chiuso: aveva
avuto un lieve malore la prima volta che aveva visto il pozzo gravitazionale di Apollo, un ambiente vastissimo dove,
quando non c'era foschia, era possibile vedere perfino il lato opposto “appeso” a testa in giù. Si contrasse di paura
di fronte alla vastità dell'oceano, di fronte all'orizzonte inavvicinabile. Lo strapiombo, lo scafo in discesa parve
attirarla con una forza sconosciuta. Perse l'equilibrio gemendo e annaspò per tornare indietro, al sicuro. Dove solo
il cielo azzurro e infinito la opprimeva con la sua incomprensibile vastità e col suo vuoto orripilante.
- Dai che è fatta! - udì la voce di Ahmad come se provenisse da molo lontano. Riconobbe i sintomi: attacco di
panico. Vertigini. Stava male e non vomitava solo perché il suo stomaco era vuoto. Cercò la pastiglia appiccicata
al palato: sciolta. Non le era rimasto nemmeno l'aroma di limone.
- Una spintarella e va giù da solo!
Una spintarella, si ripeté Nadine. Vide il colossale veicolo dalle molte zampe. Non le sembrava molto lontano. Una
spintarella, una sola, si disse rialzandosi. Guardò per terra per non vedere la distesa di acqua, per non vedere la
pendenza. Ahmad aveva spinto un poco l'alieno che, forse resosi conto della vicinanza dell'acqua, si dibatteva con
rinnovata energia. Lo faccio per te, bestiaccia, pensò Nadine cercando un appoggio per fare l'ultimo sforzo.
- Al tre, pronta? Uno, due...
Al tre Nadine dette tutto quello che le era rimasto nell'esile corpo. Spinse forte la corazza dell'alieno, la spinse
verso la discesa, verso l'acqua dell'oceano. Spinse con le gambe e con le braccia, così tanto che la sua vescica la
tradì di nuovo. Spinse gridando per lo sforzo, un grido che rimase mozzato a metà quando il piede più vicino al pendio
scivolò facendole perdere l'equilibrio.
Si rotolò immediatamente sulla pancia, per istinto. Divaricò braccia e gambe, alla ricerca di una presa. Sbatté il
mento, dolorosamente, e cominciò a scivolare. Sentiva la superficie dello scafo alieno scorrere sulla sua pelle del
ventre e del torace, sentiva il metallo liscio e caldo attraverso gli abiti, sentiva la forza di gravità del pianeta,
così nemica per lei abitante dello spazio. Slittò per diversi metri, acquisendo velocità, gridando inutilmente. Poi i
piedi trovarono un ostacolo e la sua scivolata si interruppe. Il dolore alla caviglia sinistra sembrò trapassarle il
cranio, ma si attenuò subito un poco: è la paura, pensò. Irrigidita, non osava muoversi. Era in bilico sulle punte
dei piedi, appoggiata sul ventre in posizione quasi verticale. Non vedeva altro che il metallo dell'astronave, non
osando scostare la testa. Anche il vento le era nemico: aumentato d'intensità, sembrava voler fare tutto ciò che era
in suo potere per staccarla da lì e farla cadere. Sentì il pilota gridare qualcosa, ma era troppo lontano. Nadine si
spaventò: troppo lontano per raggiungerla, per fare qualcosa, per salvarla. Fu allora che si rese conto di un rumore
nuovo: l'acqua. Sotto di sé le onde si frangevano contro il fianco dell'astronave, rumorosamente, con forza. Quelle
che viste dall'alto le erano parse innocue bizzarrie di quella enorme massa d'acqua erano in realtà grandi e forti,
rumorose. Ne arrivò una più forte delle altre, che la fece sobbalzare.
Fu questione di un istante. Un solo istante le bastò per precipitare. Un minimo movimento del piede, alla disperata
ricerca di una posizione meno dolorosa per la caviglia traumatizzata. La punta del piede perse aderenza, tutto il
corpo si sbilanciò e riprese a scivolare. Veloce, sempre più veloce: il gomito sinistro sbatté con forza contro
qualcosa di molto duro, il dolore le offuscò la vista. Il calore dell'attrito sulla pancia divenne insopportabile,
ma come per magia lo scafo si allontanò da lei, inesorabilmente, gettandola ancora più nel panico. Stava cadendo:
una lunga, interminabile vertigine. Gridò, agitò braccia e gambe alla ricerca di appigli che non c'erano mentre
cadeva di schiena, la bocca spalancata in un grido acutissimo diretto al cielo.