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Autore: Kary91    01/10/2010    6 recensioni
Storia da revisionare.
“Che cos’è?” vagamente sorpresa, Shelby Corcoran tese la mano per accogliere il dono, mentre il ragazzo si sollevava in direzione della porta.
“Un casco…” spiegò Puck mentre la donna apriva il pacchetto, ritrovandosi tra le mani un piccolo casco da bicicletta rosa.
“è una cosa carina…” decise di pronunciare con fare stupito ed un accenno di risata cucito sulle labbra.
“Ma posso chiederti,come mai un casco? Suppongo passerà un po’ di tempo prima che Beth possa salire su un triciclo…”
“Quando ero piccolo, mio padre mi diceva spesso che per ottenere qualcosa dovevo combattere. Tirare calci e pugni. Gomitate se necessario…”
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Noah Puckerman/Puck, Shelby Corcoran
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Helmet.

Trotterellava per il marciapiede sul suo skateboard.

Il ragazzino riccio con le ginocchia sbucciate e lo sguardo di ghiaccio.

Il sorriso ammiccante, un visetto ancora imperlato di innocenza, ma già cosparso di quella leggera dose di fascino che avrebbe fatto breccia nei cuori di molte ragazze.

Era un bambino tranquillo il piccolo Noah Puckerman.

Vivace, certo, ma non un perdigiorno.

Giocava a baseball con gli amici, e si divertiva a sfrecciare in bicicletta con gli amici per le strade isolate di Lima.

Come qualsiasi ragazzino della sua età detestava i compiti a casa e non disdegnava mai una bella battaglia a palle di neve.

Come tutti i bambini era in grado di sorridere con fare sicuro quando il ditino magro scivolava sul campanello di quel signore “tanto strano” e poi scappare ridendo; ben sapendo che la sera si sarebbe svegliato più volte in preda al panico, sognando di venire rincorso da uno zombie assetato di vendetta.

Era un ragazzino come gli altri insomma. E in un pomeriggio come tanti il giovane Puckerman sfrecciava sull’asfalto con il suo fidato skateboard disegnando ghirigori nella polvere.

“Ciao Noah!” un rumore di rotelle che scivolavano sul marciapiede annunciò al bambino che l’amico Steven era nei paraggi, i pattini in linea a sostituire le consumate scarpe da ginnastica.

“Vieni al campetto più tardi?” la sua voce lo raggiunse a pochi metri di distanza.

Noah calcolò la proposta giocherellando con il suo skate, balzando a terra.

“Ehy Noah!” nello stesso momento una voce distante, la voce di un uomo, lo raggiunse.

Lo sguardo del ragazzino si affrettò a frugare il viale alla ricerca del suo proprietario.

Un minuscolo sorriso increspò le labbra sottili del bambino con un guizzo.

“Papà!” mormorò interrompendo la traversata del marciapiede  individuando il padre dall’altro lato.

“Allora vieni?” Steven si chinò per stringere ulteriormente un pattino e rivolse all’amico un’occhiata insistente.

“Magari più tardi.” Con una scrollata di spalle ed una lieve insicurezza sfumata su quel volto tanto limpido, il giovane Noah pestò un lato dello skateboard e se lo fece scivolare fra le mani,appoggiandosi al muretto.

“Ok allora a dopo!” Steven guadagnò velocità, mentre con gli occhi socchiusi, il ragazzino osservava a braccia incrociate l’ombra del padre avvicinarsi sempre di più.

Lentamente un sorriso fece capolino sul suo viso.

Erano trascorsi due mesi dall’ultima volta che l’aveva visto.

Avere un padre musicista non era sempre facile, ma a Noah piaceva stare con lui:
Eli Puckerman era un tipo tosto, divertente e con la battuta sempre  pronta.

Tutti i ragazzini di Lima lo conoscevano e ammiravano,ed il petto di Noah si gonfiava di orgoglio quelle rare volte che Eli lo portava fuori in qualche pub. Ogni tanto gli concedeva persino di scoccare qualche sorso della sua birra.

Sì, Noah andava pazzo per suo padre.

Eppure…

“Steven!” d’un tratto il ragazzino si accorse di qualcosa che luccicava nella polvere a qualche metro di distanza dai suoi piedi.

“Steven ti è caduto qualcosa!”

Si avvicinò all’oggetto mentre il padre lo raggiungeva di gran carriera: riusciva sempre ad attirare l’attenzione su di sé; persino nelle cose più semplici, come l’andatura particolarmente rilassata.

“Che cos’è ragazzo?” Eli tirò su il figlio che si era accovacciato per raccogliere l’oggetto caduto a Steven.

Noah glielo porse.

“Un coltellino svizzero. Di quelli multiuso. Deve essere caduto a Steve mentre si allacciava il pattino.”

Le iridi chiare del bambino luccicarono di un insolito brillio: aveva sempre sognato un coltellino come quello.

Steven l’aveva ricevuto per il suo dodicesimo compleanno e da allora si ostinava a portarlo con sé ovunque si recasse.

Si sarebbe preoccupato se si fosse accorto di averlo perso.

“Sarà meglio che corra un attimo a restutituirglielo. Torno subito!” esclamò depositando a terra lo skateboard e salendoci sopra con entrambi i piedi.

La presa energica del padre lo bloccò all’altezza della spalla provocandogli un' insolita sensazione di malessere.

“Aspetta.” Eli gli prese il coltellino di mano e glielo infilò in una delle tasche dei jeans.

Noah osservò l’operazione con una vaga ombra di sgomento dipinta su quei lineamenti puri, ancora infantili.

Non riusciva a capire il piccolo Puckerman.

“Ma… Ma il coltello è di…”

“Shhh…” il padre gli depositò un pollice sulle labbra e gli sorrise con aria divertita.

“Non dicevi sempre di volere un coltellino svizzero?”.

Gli fece l’occhiolino.

Il ragazzino non rispose, lo sguardo colmo di incredulità e rimorso.

La mano vibrò insicura verso la tasca dei jeans, dove un tesoro che non gli spettava giaceva immobile. Più pesante di quanto non gli sembrasse solo qualche minuto prima.

 “E ora non fare quella faccia, ragazzo. Vuoi o non vuoi essere come il tuo vecchio?” domandò Eli allungandogli un leggero schiaffetto amichevole sulla nuca e prendendo a camminare per il marciapiede. Il braccio a circondare le esili spalle del figlio.

“Se c’è una cosa che ho imparato in questa dannata vita, è che nessuno ottiene le cose con le buone, stando ad aspettare. Bisogna alzarsi e andarsele a prendere. Fare a gomitate. Parola di Puckerman. Hai capito ragazzo?”

Quelle parole scivolavano come gocce di pioggia sulla pelle candida del ragazzino, penetrando a fondo, scorrendo in ogni angolo del suo corpo, come una sottile fonte di veleno.

Le frasi che Eli Puckerman pronunciò al figlio quel tiepido pomeriggio di giugno ebbero il tempo di crescere e germogliare dentro di lui, occupando sempre più spazio, dando spintoni a destra e a manca per guadagnarsi un posto in prima fila fra i pensieri del giovane Noah.

“Ho detto, hai capito? Sto parlando con te Noah.. .Noah!”

***

“Noah?”

Il sedicenne scrollò il capo con nervosismo, distogliendosi dai propri pensieri.

“Sei stato carino a passare.” Mrs Corcoran gli rivolse un sorriso gentile oscurato solo da una leggera patina di malinconia.

“Vuoi.. Vuoi vederla?” domandò indicando il corridoio, oltre il quale una stanzetta probabilmente dipinta di un pallido rosa ospitava una minuscola creaturina addormentata.

Noah “Puck” Puckerman lasciò ciondolare il capo con aria distaccata ed infilò le mani in tasca.

“No.” Mormorò infine in maniera poco convincente,ma decisa.

La donna lo squadrò per qualche istante, non del tutto convinta.

“Volevo solo che avesse questo.” Aggiunse il giovanotto dopo qualche minuto porgendole una scatolina di cartone.

“Che cos’è?” vagamente sorpresa, Shelby Corcoran tese la mano per accogliere il dono, mentre il ragazzo si sollevava in direzione della porta.

Noah fece roteare gli occhi e sbuffò, come se gli costasse dover dare ulteriori spiegazioni.

“Un casco…” spiegò mentre la donna apriva il pacchetto, ritrovandosi tra le mani un piccolo casco da bicicletta rosa.

Non sapeva bene cosa dire.

“è una cosa carina…” decise infine di pronunciare con fare stupito ed un accenno di risata cucito sulle labbra.

“Ma posso chiederti,come mai un casco? Suppongo passerà un po’ di tempo prima che Beth possa salire su un triciclo…”

“Quando ero piccolo, mio padre mi diceva spesso che per ottenere qualcosa si deve combattere. Tirare calci e pugni. Gomitate se necessario…” Lo sguardo del giovane vagò senza meta per un paio di secondi soffermandosi su una foto posizionata in bella vista su una mensola.

Ritraeva una donna sorridente che stringeva tra le braccia un fagottino roseo.

“Io l’ho fatto. Ho fatto a botte e ho tirato calci ad un sacco di persone. Ma… Ma mi sono anche fatto male… Vede, quello che mi mancava era…”

“Un casco?” Mrs Corcoran sorrise. Credette di incominciare a capire dove il ragazzo volesse andare a parare con quello strano discorso.

“Già…” Noah rivolse un’ultima triste occhiata alla fotografia e tornò d osservare Shelby.

“Voglio che Beth combatta. Però mi deve promettere Mrs Corcoran, che indosserà sempre il casco. Non deve farsi male capisce?  Dio,che discorso stupido…”

“Ho capito sai?” la donna annuì e in quel frangente, il sorriso dell’ex coach dei Vocal Adrenaline gli risultò quasi confortante.

“Ti prometto che farò del mio meglio per assicurarmi che non si faccia mai del male.”

Noah annuì, la mano già pronta sul pomello della porta, l’altra al sicuro in tasca.

La stessa tasca che per giorni aveva ospitato un coltellino svizzero nuovo di zecca prima di essere scaraventato con furia in un fiume.

“Sicuro di non volerla vedere?” domandò Shelby con voce dolce, notando l’esitazione nel ragazzo.

Puck inspirò profondamente e scosse il capo mantenendo lo sguardo chino sul pavimento.

 “Meglio di no” mormorò infine inclinando il pomello ed aprendo leggermente la porta.

“Forse un altro giorno?” domandò ancora Shelby avvicinandosi all’uscita.

Il ragazzo le rivolse un’occhiata pensierosa.

“Magari sì.” Acconsentì voltandosi un ultima volta in direzione della donna,

“Magari domani.”

“Domani. Perfetto!Ti aspettiamo allora.”

Un ultimo breve cenno del capo ed il ragazzo si congedò.

La donna osservò il giovane Puckerman abbandonare l’appartamento ed allontanarsi verso le scale con le mani in tasca.

Solo in quel momento si accorse dell’ostinata cresta corvina che si arrampicava sulla nuca del giovane.

Sorrise, nel realizzare di che cosa significasse quel bizzarro taglio di capelli che conferiva a Puckerman l’aria da tosto, da ribelle.

Non era altro che un casco. Il casco che Noah si era fatto crescere per attutire i dolori provocati dalle sue risse con il mondo.

Un leggero piagnucolio si insinuò nella stanza e con un sorriso triste, la donna richiuse la porta dell’appartamento, pronta a fare i conti con una piccolina dagli occhioni grandi come il cielo.

Un paio di iridi turchine colme di ingenuità: la stessa ingenuità che un tempo era scandita tra le acrobazie di un ragazzino riccio che sfrecciava tra i viali alberati di Lima con il suo fidato Skateboard.

Il piccolo Noah.

Nota dell'autrice.

Scritta di getto.

Piccolo frammento che mi è saltanto alla mente mentre mi sforzavo di lavorare alla mia "ipotetica" long fiction su Glee.

Noah è uno dei miei personaggi preferiti e mi ha sempre affascinato il discorso che in Thetricallity rivolge a Quinn a proposito del suo rapporto con il padre.

Ho sempre desiderato scrivere di loro due, e oggi, pprofittando di questo vago (e forse insensato) bagliore di ispirazione, ci sono finalmente riuscita.

Non ho molto da aggiungere.

Vi ringrazio

Laura

   
 
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