Helmet.
Trotterellava per il marciapiede sul
suo skateboard.
Il ragazzino riccio con le ginocchia
sbucciate e lo sguardo di ghiaccio.
Il sorriso ammiccante, un visetto
ancora imperlato di innocenza, ma già cosparso di quella leggera dose di
fascino che avrebbe fatto breccia nei cuori di molte ragazze.
Era un bambino tranquillo il piccolo
Noah Puckerman.
Vivace, certo, ma non un perdigiorno.
Giocava a baseball con gli amici, e si
divertiva a sfrecciare in bicicletta con gli amici per le strade isolate di
Lima.
Come qualsiasi ragazzino della sua età
detestava i compiti a casa e non disdegnava mai una bella battaglia a palle di
neve.
Come tutti i bambini era in grado di
sorridere con fare sicuro quando il ditino magro scivolava sul campanello di
quel signore “tanto strano” e poi scappare ridendo; ben sapendo che la sera si sarebbe
svegliato più volte in preda al panico, sognando di venire rincorso da uno
zombie assetato di vendetta.
Era un ragazzino come gli altri
insomma. E in un pomeriggio come tanti il giovane Puckerman sfrecciava
sull’asfalto con il suo fidato skateboard disegnando ghirigori nella polvere.
“Ciao Noah!” un rumore di rotelle che
scivolavano sul marciapiede annunciò al bambino che l’amico Steven era nei
paraggi, i pattini in linea a sostituire le consumate scarpe da ginnastica.
“Vieni al campetto più tardi?” la sua
voce lo raggiunse a pochi metri di distanza.
Noah calcolò la proposta giocherellando
con il suo skate, balzando a terra.
“Ehy Noah!” nello stesso momento una voce distante, la voce di un uomo,
lo raggiunse.
Lo sguardo del ragazzino si affrettò a
frugare il viale alla ricerca del suo proprietario.
Un minuscolo sorriso increspò le labbra
sottili del bambino con un guizzo.
“Papà!” mormorò interrompendo la
traversata del marciapiede individuando il padre dall’altro lato.
“Allora vieni?” Steven si chinò per
stringere ulteriormente un pattino e rivolse all’amico un’occhiata insistente.
“Magari più tardi.” Con una scrollata
di spalle ed una lieve insicurezza sfumata su quel volto tanto limpido, il
giovane Noah pestò un lato dello skateboard e se lo fece scivolare fra le
mani,appoggiandosi al muretto.
“Ok allora a dopo!” Steven guadagnò
velocità, mentre con gli occhi socchiusi, il ragazzino osservava a braccia
incrociate l’ombra del padre avvicinarsi sempre di più.
Lentamente un sorriso fece capolino sul
suo viso.
Erano trascorsi due mesi dall’ultima
volta che l’aveva visto.
Avere un padre musicista non era sempre
facile, ma a Noah piaceva stare con lui:
Eli Puckerman era un tipo tosto, divertente e con la battuta sempre pronta.
Tutti i ragazzini di Lima lo conoscevano
e ammiravano,ed il petto di Noah si gonfiava di orgoglio quelle rare volte che
Eli lo portava fuori in qualche pub. Ogni tanto gli concedeva persino di scoccare qualche sorso della sua birra.
Sì, Noah andava pazzo per suo padre.
Eppure…
“Steven!” d’un tratto il ragazzino si
accorse di qualcosa che luccicava nella polvere a qualche metro di distanza dai
suoi piedi.
“Steven ti è caduto qualcosa!”
Si avvicinò all’oggetto mentre il padre
lo raggiungeva di gran carriera: riusciva sempre ad attirare l’attenzione su di
sé; persino nelle cose più semplici, come l’andatura particolarmente rilassata.
“Che cos’è ragazzo?” Eli tirò su il
figlio che si era accovacciato per raccogliere l’oggetto caduto a Steven.
Noah glielo porse.
“Un coltellino svizzero. Di quelli
multiuso. Deve essere caduto a Steve mentre si allacciava il pattino.”
Le iridi chiare del bambino luccicarono
di un insolito brillio: aveva sempre sognato un coltellino come quello.
Steven l’aveva ricevuto per il suo
dodicesimo compleanno e da allora si ostinava a portarlo con sé ovunque si
recasse.
Si sarebbe preoccupato se si fosse
accorto di averlo perso.
“Sarà meglio che corra un attimo a
restutituirglielo. Torno subito!” esclamò depositando a terra lo skateboard e
salendoci sopra con entrambi i piedi.
La presa energica del padre lo bloccò
all’altezza della spalla provocandogli un' insolita sensazione di malessere.
“Aspetta.” Eli gli prese il coltellino
di mano e glielo infilò in una delle tasche dei jeans.
Noah osservò l’operazione con una vaga
ombra di sgomento dipinta su quei lineamenti puri, ancora infantili.
Non riusciva a capire il piccolo
Puckerman.
“Ma… Ma il coltello è di…”
“Shhh…” il padre gli depositò un
pollice sulle labbra e gli sorrise con aria divertita.
“Non dicevi sempre di volere un
coltellino svizzero?”.
Gli fece l’occhiolino.
Il ragazzino non rispose, lo sguardo
colmo di incredulità e rimorso.
La mano vibrò insicura verso la tasca
dei jeans, dove un tesoro che non gli spettava giaceva immobile. Più pesante di
quanto non gli sembrasse solo qualche minuto prima.
“E ora
non fare quella faccia, ragazzo. Vuoi o non vuoi essere come il tuo vecchio?” domandò Eli
allungandogli un leggero schiaffetto amichevole sulla nuca e prendendo a
camminare per il marciapiede. Il braccio a circondare le esili spalle del
figlio.
“Se c’è una cosa che ho imparato in
questa dannata vita, è che nessuno ottiene le cose con le buone, stando ad
aspettare. Bisogna alzarsi e andarsele a prendere. Fare a gomitate. Parola di Puckerman.
Hai capito ragazzo?”
Quelle parole scivolavano come gocce di
pioggia sulla pelle candida del ragazzino, penetrando a fondo, scorrendo in
ogni angolo del suo corpo, come una sottile fonte di veleno.
Le frasi che Eli Puckerman pronunciò al
figlio quel tiepido pomeriggio di giugno ebbero il tempo di crescere e
germogliare dentro di lui, occupando sempre più spazio, dando spintoni a destra
e a manca per guadagnarsi un posto in prima fila fra i pensieri del giovane Noah.
“Ho detto, hai capito? Sto parlando con
te Noah.. .Noah!”
***
“Noah?”
Il sedicenne scrollò il capo con
nervosismo, distogliendosi dai propri pensieri.
“Sei stato carino a passare.” Mrs
Corcoran gli rivolse un sorriso gentile oscurato solo da una leggera patina di
malinconia.
“Vuoi.. Vuoi vederla?” domandò
indicando il corridoio, oltre il quale una stanzetta probabilmente dipinta di
un pallido rosa ospitava una minuscola creaturina addormentata.
Noah “Puck” Puckerman lasciò ciondolare
il capo con aria distaccata ed infilò le mani in tasca.
“No.” Mormorò infine in maniera poco convincente,ma decisa.
La donna lo squadrò per qualche istante, non del tutto convinta.
“Volevo solo che avesse questo.” Aggiunse il giovanotto dopo qualche minuto porgendole una scatolina di cartone.
“Che cos’è?” vagamente sorpresa, Shelby
Corcoran tese la mano per accogliere il dono, mentre il ragazzo si sollevava in
direzione della porta.
Noah fece roteare gli occhi e sbuffò,
come se gli costasse dover dare ulteriori spiegazioni.
“Un casco…” spiegò mentre la donna apriva il pacchetto, ritrovandosi tra le mani un piccolo casco da bicicletta rosa.
Non sapeva bene cosa dire.
“è una cosa carina…” decise infine di pronunciare con
fare stupito ed un accenno di risata cucito sulle labbra.
“Ma posso chiederti,come mai un casco?
Suppongo passerà un po’ di tempo prima che Beth possa salire su un triciclo…”
“Quando ero piccolo, mio padre mi
diceva spesso che per ottenere qualcosa si deve combattere. Tirare calci e
pugni. Gomitate se necessario…”
Lo sguardo del giovane vagò senza meta per un
paio di secondi soffermandosi su una foto posizionata in bella vista su una
mensola.
Ritraeva una donna sorridente che
stringeva tra le braccia un fagottino roseo.
“Io l’ho fatto. Ho fatto a botte e ho
tirato calci ad un sacco di persone. Ma… Ma mi sono anche fatto male… Vede,
quello che mi mancava era…”
“Un casco?” Mrs Corcoran sorrise.
Credette di incominciare a capire dove il ragazzo volesse andare a parare con quello
strano discorso.
“Già…” Noah rivolse un’ultima triste
occhiata alla fotografia e tornò d osservare Shelby.
“Voglio che Beth combatta. Però mi deve
promettere Mrs Corcoran, che indosserà sempre il casco. Non deve farsi male
capisce? Dio,che discorso stupido…”
“Ho capito sai?” la donna annuì e in
quel frangente, il sorriso dell’ex coach dei Vocal Adrenaline gli risultò quasi
confortante.
“Ti prometto che farò del mio meglio
per assicurarmi che non si faccia mai del male.”
Noah annuì, la mano già pronta sul pomello
della porta, l’altra al sicuro in tasca.
La stessa tasca che per giorni aveva
ospitato un coltellino svizzero nuovo di zecca prima di essere scaraventato con
furia in un fiume.
“Sicuro di non volerla vedere?” domandò
Shelby con voce dolce, notando l’esitazione nel ragazzo.
Puck inspirò profondamente e scosse il
capo mantenendo lo sguardo chino sul pavimento.
“Meglio
di no” mormorò infine inclinando il pomello ed aprendo leggermente la porta.
“Forse un altro giorno?” domandò ancora
Shelby avvicinandosi all’uscita.
Il ragazzo le rivolse un’occhiata
pensierosa.
“Magari sì.” Acconsentì voltandosi un
ultima volta in direzione della donna,
“Magari domani.”
“Domani. Perfetto!Ti aspettiamo allora.”
Un ultimo breve cenno del capo ed il
ragazzo si congedò.
La donna osservò il giovane Puckerman
abbandonare l’appartamento ed allontanarsi verso le scale con le mani in tasca.
Solo in quel momento si accorse dell’ostinata
cresta corvina che si arrampicava sulla nuca del giovane.
Sorrise, nel realizzare di che cosa
significasse quel bizzarro taglio di capelli che conferiva a Puckerman l’aria
da tosto, da ribelle.
Non era altro che un casco. Il casco
che Noah si era fatto crescere per attutire i dolori provocati dalle sue risse
con il mondo.
Un leggero piagnucolio si insinuò nella
stanza e con un sorriso triste, la donna richiuse la porta dell’appartamento,
pronta a fare i conti con una piccolina dagli occhioni grandi come il cielo.
Un paio di iridi turchine colme di
ingenuità: la stessa ingenuità che un tempo era scandita tra le acrobazie di un
ragazzino riccio che sfrecciava tra i viali alberati di Lima con il suo fidato
Skateboard.
Il piccolo Noah.
Nota dell'autrice.
Scritta di getto.
Piccolo frammento che mi è saltanto alla mente mentre mi sforzavo di lavorare alla mia "ipotetica" long fiction su Glee.
Noah è uno dei miei personaggi preferiti e mi ha sempre affascinato il discorso che in Thetricallity rivolge a Quinn a proposito del suo rapporto con il padre.
Ho sempre desiderato scrivere di loro due, e oggi, pprofittando di questo vago (e forse insensato) bagliore di ispirazione, ci sono finalmente riuscita.
Non ho molto da aggiungere.
Vi ringrazio
Laura