Titolo: Partita
in Do minore
Genere: Introspettivo,
Malinconico
Rating: Arancione
Prompt: 33. “Quando voglio incontrarti, in
che modo dovrei chiamarti?” (Tabella)
Avvertimenti: Missing
moment, oneshot
Note Autore: la
fanfiction si basa cronologicamente tra il periodo scolastico di Shoichi e
Byakuran e il momento in cui a Shoichi torna la memoria come manovrato da
Future!Shoichi.
-“Partita in Do minore” è una sonata di Bach
(sia per piano che adattata a violino); qui ha doppia valenza musicale e come
“partita” del Choice.
-
Si ringrazia nacchan per aver betato <3
Shoichi
aveva imparato a riconoscerla, quella sensazione; quella che non era
propriamente un dejà-vu, che non aveva un nome preciso in verità.
Shoichi
non sapeva mai capire di cosa si trattasse veramente: era fastidiosa, come
quando c’è qualcosa lì, proprio nella tua testa.
Lo
sai che c’è.
La
prima volta che aveva pensato, e ripensato, con nostalgia l’aveva
paragonata a qualcosa di musicale: come quando c’è una canzone che
conosci, ma che non ascolti più da molto tempo. E poi succede che
all’improvviso, le note suonano di nuovo, e insieme a
loro le parole – anche se questo non valeva per la musica classica che
aveva amato tanto.
Tu
sei lì.
Le
note si formano nella tua mente ancora prima che arrivino fisicamente
all’orecchio; conosci già le parole, in realtà le labbra le
stanno formando quando il tuo cervello non gli ha nemmeno dato l’input.
Le
sai, le conosci. Sono lì.
Allora
ti sforzi di ricordarne il titolo, perché se la ricordi a tal punto, quella
melodia, allora vuol dire che l’hai certamente ascoltata così tanto da imprimerla nella mente in maniera tale
da non dimenticarla, seppure inconsciamente.
Ma
non ne hai memoria, non del tutto; le note sono ancora lì, le parole
anche, quasi hai la sensazione della lingua impastata – come se cercasse
di articolare quel qualcosa che non hai davvero
dimenticato, ma in parte in realtà non è nemmeno più fra i
tuoi ricordi.
E
allora ti sfugge: fastidiosamente, in maniera subdola, prendendosi gioco di te;
striscia via, lasciandoti la sensazione sgradevole di qualcosa da dire e che
non abbandona il tuo corpo, ferma lì, a quel nodo in gola.
Shoichi
aveva imparato a riconoscerla, quella sensazione.
L’accompagnava sempre un vago senso di confusione, e un nodo alla gola.
Il
perché non lo sapeva, però. Sapeva solo
che c’era.
E
che quando Byakuran-san gli sorrideva, sembrava sempre fare un po’
più male.
«Sho-chan~» si sentì salutare in
quel modo che ormai era diventato inconfondibile.
Una sola persona lo chiamava con quel diminutivo
– e fin dalla prima volta, per giunta; si voltò quindi senza avere
davvero necessità di farlo, abbozzando un sorriso quando gli occhi
chiari incrociarono la figura di Byakuran.
«Buongiorno, Byakuran-san.» salutò
di rimando, aspettando che l’altro lo affiancasse per poi avviarsi con
lui lungo il corridoio che stava percorrendo già in precedenza.
Il via vai per l’edificio scolastico era sempre
lo stesso, quasi monotono forse: ogni lunedì mattina sembrava quasi che
nuove matricole si materializzassero dal nulla, aggiungendosi alle diverse paia
di piedi che si alternavano in passi più o meno
frettolosi.
Ogni lunedì mattina lui e Byakuran quasi si
ritrovavano a fare un buffo slalom
tra volti e corpi, diretti all’aula della prima lezione del mattino.
«Chimica. Le
prime due ore di puro divertimento, ne
Sho-chan?» lo interrogò Byakuran in quella che oramai era divenuta
a tutti gli effetti una domanda retorica, per lui. Alla quale, come ogni
lunedì, sorrideva leggermente annuendo e trovando sul viso
dell’albino la soddisfazione tipica di quando gli veniva
data la ragione.
Shoichi non aggiungeva mai nulla, e percorrevano in
silenzio il resto del tragitto fino a varcare la soglia dell’aula E.
Lui, Shoichi, ammetteva di essere rimasto perplesso
dai suoi primi scambi di parole con Byakuran-san, e d’altra parte non era
un mistero quanto fosse abbastanza lontano dalla realtà definire
l’altro “normale”. Tuttavia Shoichi in qualche modo si era
convinto che la “non normalità” di Byakuran fosse da
intendere in senso buono.
Anche se, certamente, la prima volta non era stato esattamente quello il tipo di pensiero che aveva
fatto.
Tuttavia, nonostante la sicura eccentricità
dell’altro, Shoichi non aveva mai avuto un valido motivo per pensare male
di lui, e come logica conseguenza non ne aveva avuto uno nemmeno per mantenere
un certo distacco dal compagno.
Era perciò stato un ovvio quanto naturale
evolversi degli eventi, quello di diventare amici – anche se
l’albino, come aveva sostenuto più volte, era dell’idea che
Shoichi “applicasse troppo liberamente la parola amicizia”
anche laddove non fosse necessario.
Ecco, quella era una delle uscite che lo avevano fatto
rimanere basito più di una volta.
«Sho-chan» fu proprio la voce di Byakuran
a riportarlo alla realtà – era un ruolo che gli si addiceva
particolarmente: l’altro era sempre razionale, di una fredda cortesia,
imperscrutabile e per questo apparentemente incapace di venire
sorpreso. Lui, Shoichi, nonostante fosse un cosiddetto “cervellone”
che si supponeva fosse con i piedi ben piantati per terra… beh, insomma.
Non era proprio paragonabile a Byakuran.
Portò lo sguardo su quest’ultimo, in un
muto “sì?” in risposta al suo
richiamo. Lo vide sorridere, una sfumatura di divertimento ad
incurvargli le labbra: «Se non stai attento» gli indicò la
lavagna «ti perderai un’interessante lezione sugli eteroatomi,
sai?» concluse.
Shoichi accennò ad un
ridacchiare leggero, spostando l’attenzione sulla lavagna e sul docente
che aveva iniziato già a trascrivere quelli che certamente sarebbero
stati una valanga di appunti.
Con il tempo avevano preso a non mangiare più
ogni giorno nella mensa dell’istituto, sfruttando nelle giornate
più calde gli spazi aperti. Tuttavia la prima volta Shoichi lo aveva
incrociato proprio nel refettorio della scuola: era il primo giorno, e non
sarebbe certo servito sottolineare che fosse solo e
che non conoscesse nessuno.
Nonostante le svariate
raccomandazioni di sua madre e sua sorella, non era certo facile per lui fare
amicizia, aprirsi subito; era, per sua sfortuna probabilmente, di quelle
persone timide e riservate, che pur involontariamente tendevano a stare sulle
proprie.
Non per arroganza, ma per semplice impaccio dal quale
per lui era molto più difficile uscire, rispetto agli altri.
Scegliere un tavolo vuoto verso il quale dirigersi con
il proprio vassoio era stato a dir poco istintivo, meccanico; e non si era
aspettato che qualcuno si unisse a lui, motivo per il quale quando aveva
sentito: «Posso sedermi, è libero, vero?» rivolto a
sé aveva lasciato senza quasi accorgersene il cucchiaio – ah, le
posate occidentali! – a mezz’aria.
Aveva alzato lo sguardo verso il presunto
interlocutore e per la prima volta era rientrata nel suo campo visivo la figura
di Byakuran, ormai già sedutosi senza nemmeno aspettare la risposta. Con
il senno di poi, Shoichi era consapevole dell’alta probabilità
dell’averlo fissato con espressione ebete.
Ma all’epoca, era
stata una sfumatura che si era naturalmente sostituita a quella pensierosa
avuta fino a poco prima.
«Ah…» aveva tentato, senza sapere
bene cosa dire, anticipato subito dall’altro: «Irie Shoichi,
giusto?» aveva domandato, in maniera retorica chiaramente – col
tempo Shoichi lo avrebbe imparato, che la maggior parte delle sue domande erano sempre di quella natura, poco importava a chi fossero
rivolte o cosa trattassero.
Aveva annuito incerto, continuando a tenere gli occhi
verdi su di lui, studiandolo forse involontariamente, forse volutamente.
«Byakuran.» aveva detto lui semplicemente,
allungando una mano sopra il tavolo e porgendogliela rivolgendogli un sorriso
che Shoichi non seppe definire allora – in realtà, non ci riusciva
nemmeno adesso.
L’aveva stretta in maniera impacciata che era
sembrata forse quasi frettolosa, sentendosi per un attimo tornato alle medie,
quando per quel suo modo di fare non era raro essere
preso in giro.
Non che fosse stato soggetto dei bulli della scuola
più di altri, chiaro, ma per quanto
intenzionalmente bonarie le derisioni c’erano state.
Si era sentito come se fosse stato di nuovo un
quattordicenne, di fronte a Byakuran, aspettandosi una risata divertita al suo
atteggiamento… ma non era mai arrivata.
L’altro aveva stretto la mano per poi ritirare
la propria, mantenendo lo sguardo su di lui con quel sorriso ancora ad incurvargli le labbra, ma senza alcun accenno di quella
derisione che si sarebbe aspettato Shoichi.
«Ho sentito che sei un piccolo genio, eh
Sho-chan?» aveva invece detto.
Shoichi aveva assunto un’aria sorpresa,
abbassando per qualche istante lo sguardo sul piatto che conteneva il suo riso
al curry, imbarazzato.
Quando lo aveva poi occhieggiato di sottecchi, aveva
notato che come se nulla fosse Byakuran aveva preso a
mangiare il proprio pranzo e allora aveva abbozzato un sorrisetto leggero; era
un tipo un po’ strano e con un modo di fare conoscenza tutto suo, ma non
era male, in fondo.
Shoichi era una persona come se ne trovavano tante, in
verità.
Certamente aveva un cervello niente male;
d’altra parte, se così non fosse stato, non sarebbe di certo
andato in un istituto come quello riuscendo a seguire i corsi con voti di tutto
rispetto.
Tuttavia, se come eccezione si prendeva questo dato di
una sua discreta intelligenza, Shoichi era certo che di sé non sarebbe
rimasto granché degno di nota: era più che cosciente di essere un
adolescente che non aveva esattamente fatto le stesse esperienze di molti suoi
coetanei – e sì, era proprio di ragazze et similia che si parlava.
Non che fosse mai stato il centro dei suoi pensieri a
dirla proprio tutta: alle elementari non ci pensi nemmeno a certe cose, anzi le
bambine ti fanno anche un po’ schifo a dire il vero. Alle medie, certo,
c’era quella sua compagna di classe che gli piaceva – Okazaki-san,
ancora se la ricordava anche se adesso c’era il
sorriso tipico di quando si ripensa ad un ricordo che non influisce più
particolarmente sulla nostra vita – e alla quale non si era mai
dichiarato.
Quanto alle scuole superiori… semplicemente
aveva da impegnarsi per raggiungere risultati tali da potersi meritare quel scuola a cui aveva deciso di andare a tutti i costi.
Non era di quelle persone che, troppo prese dai libri,
si estraniavano dal resto del mondo: era uscito in gruppo con alcuni amici,
certo, e aveva interessi che condivideva con i
compagni di classe, ovvio.
Però Shoichi era anche la persona timida, quella che spesso sembrava
erroneamente snob o un po’ cupa, di quelle che si fanno i fatti propri e
non hanno interesse per gli altri o per la maggior parte delle cose che
dovrebbero piacere ai ragazzi della sua età.
Era gentile, non sapeva dire di no. E questo,
più volte, gli aveva procurato qualche guaio – nulla di serio,
comunque.
A volte era un po’ burbero, lo ammetteva, e si irritava più spesso che in passato quando era
soggetto a nervosismo – e di conseguenza al terribile mal di stomaco che
aveva sviluppato come reazione all’ansia in maniera del tutto
involontaria.
Di Irie Shoichi potevi comunque dire, senza dubbio,
che era “una brava persona”; ma lui sapeva che spesso era un modo
cortese di dire che era noioso, o banale.
A lui dopotutto andava bene: forse non sarebbe mai
stato quello che tutti andavano a cercare, ma non era poi di vitale importanza.
Era sempre stato dell’idea che la notorietà per quanto minima
portasse guai.
Oh beh, considerando i suoi primi tempi lì
all’istituto anche la sua posizione gliene aveva procurato qualcuno.
Il classico periodo del “sono
una matricola, e so che nel vostro linguaggio non è nulla di
buono”.
In realtà non avrebbe saputo dire con
precisione per quale motivo fosse finito in quella situazione quella volta,
semplicemente perché non lo ricordava, o magari era una di quelle scene
quasi ovvie in cui senza un motivo particolare vieni
preso di mira – le solite cose: ti sei svegliato male, la giornata
è andata storta, sei frustrato, cose così.
Ma nel caso di Shoichi era diverso, il suo non
ricordare precisamente “come” e “perché” era dovuto solo al fatto che quando ci ripensava, quello che
gli tornava in mente era altro: era quell’aspetto di Byakuran-san che non
aveva mai visto. Né immaginato.
Né tantomeno sospettato.
E che a dire il vero, ancora oggi… non aveva
capito.
«Non fare il sostenuto, Irie, non ti stiamo mica
chiedendo
«Magari quella con due calcoli e qualche formula
saprebbe pure darcela, il cervellone!» aveva
sentito aggiungere ad uno dei due.
Shoichi si era detto semplicemente di tirare dritto,
perché non aveva nessun motivo né alcuna intenzione di dargli
corda e farsi trascinare in qualcosa che non era decisamente
alla sua portata. Tanto più che non voleva guai quando non erano ancora
passati neanche sei mesi pieni dal suo ingresso in quella scuola.
No, si sarebbe fatto gli affari suoi e quelli si
sarebbero semplicemente stancati e avrebbero lasciato stare –
l’unica cosa di cui era stato certo era che non sembravano intenzionati
ad alzare le mani, il che per l’anti sport come era
lui era certamente un bene.
«Irie, stiamo parlando con te!»
«Che diamine, non è carino ignorarci,
sai?» si era sentito rimproverare, e l’attimo dopo una mano aveva
raggiunto la sua spalla obbligandolo a dar loro l’attenzione che tanto avevano cercato.
«La mia risposta è no.» si era
rifiutato categoricamente, e poi quale sano
di mente avrebbe acconsentito a cercare di infiltrarsi nel database della
scuola?
Nessuno, e lui voleva continuare a rientrare in quella
categoria ancora per molto tempo.
«Ehi, ehi, tu la
prendi troppo seriamente, lasciatelo dire. Che ti costa in fondo?»
«Ho già detto di no.» aveva
bofonchiato, desiderando di potersene andare e soprattutto non trovando
particolarmente stimolante avere la consapevolezza di
essere quasi con le spalle al muro, letteralmente parlando.
«Sho-chan» si era sentito chiamare, e lo
aveva inconsciamente cercato con lo sguardo ancora prima di accostare
effettivamente la sua voce alla sua persona: «di cosa state parlando di
bello?» era stata la domanda e sì, quello era stato uno dei tanti
casi in cui era stato legittimo chiedersi fino a che punto Byakuran giocasse e
da quale esattamente iniziasse ad essere serio.
Perché, parola sua, Shoichi non lo aveva capito
in quel momento; e non lo avrebbe capito nemmeno dopo.
«Ma
Byakuran-san…» aveva tentato, perché non poteva aver davvero
pensato che stessero facendo una chiacchierata amichevole sul tempo
atmosferico.
Ma Shoichi poi lo aveva notato: che Byakuran era una
persona grottesca a volte; che faceva le cose che
nessun altro osava fare, che pensava, pensava in continuazione senza mai
fermarsi e che dava forma spesso alle cose più atroci con la massima
innocenza, o che riusciva a rendere le cose piacevoli cose…
«Byakuran-san!»
…spaventose.
«B-Byakuran-san, sei impazzito?!»
aveva esclamato, il panico nella voce mentre le braccia avevano cinto la vita
dell’altro non in un abbraccio di due amici che non si vedono da tanto,
ma in una stretta volta ad allontanarlo.
Shoichi ricordava di come fosse stato un movimento
veloce e naturale, insospettabile, quello con cui l’albino aveva avvicinato entrambi. E di come avesse sorriso come
sorrideva sempre, di come lui avesse infantilmente pensato che ora che era arrivato la questione si sarebbe risolta facilmente –
perché Byakuran dava sempre la sensazione che tutto si sarebbe
sistemato.
Quella stessa sensazione che Shoichi avrebbe imparato a distinguere, perché “tutto si
sistemerà” e “tutto finirà bene”, non erano
soltanto due sfumature quando si trattava di Byakuran.
L’altro si era fermato, il piede lasciato a
mezz’aria, le mani in tasca mentre si voltava verso Shoichi con il
sorriso divertito di un bambino che in quel momento però non riusciva a
rallegrare o intenerire l’altro: «Cosa c’è,
Sho-chan?» aveva chiesto con tutta la tranquillità del mondo.
E Shoichi probabilmente doveva averlo guardato in un
modo particolare, che poteva essere stato confuso, spaventato, o magari tutti e due insieme. Perché Byakuran lo aveva
osservato, accennando ad uno di quei due compagni
sfortunati che ora era per terra a mugugnare dolorante: «Oh, per quello
dici?» aveva domandato con la casualità nel tono di voce.
Come se non se ne fosse accorto.
Come se si fosse trattato di qualcosa di trascurabile,
non degno di nota.
«Gli ho solo insegnato una lezione importante,
Sho-chan.» aveva quindi ripreso, con il modo di esprimersi di chi
pazientemente spiega ad un bambino: «Toccare le
cose degli altri, non è corretto. Non pensi anche tu, Sho-chan~? Se ora
non glielo insegna qualcuno, nel futuro potrebbe non esserci più nessuno disposto a farlo. E se non lo impara adesso, nel
futuro potrebbe essere un problema per altre persone. Gli stiamo facendo un
favore.» aveva assicurato, dando ad intendere di
essere non solo perfettamente cosciente di cosa stesse facendo, ma anche
assolutamente convinto di essere nel giusto.
L’unica cosa che a Shoichi era sembrato sensato dire, in quell’occasione, era stata:
«Non puoi certo preoccuparti del futuro di tutti, Byakuran-san. Non sei
di certo Dio.» cercando di farlo ragionare.
Aveva erroneamente ed
ingenuamente pensato di esserci riuscito quando Byakuran gli aveva risposto:
«Beh, per adesso ha imparato, quindi non ti toccherà più.
Andiamo a mangiare, Sho-chan? Offro io~.»
Shoichi, nel seguirlo, aveva inconsapevolmente colto
nel segno con un pensiero tanto semplice come quello
che seguì quell’invito. Ma era stato veloce a sostituirlo con
qualcosa che gli diceva: “ti sbagli”.
Byakuran sembrava ossessionato dal futuro.
Forse era normale, si disse, e non ci badò.
Lo avrebbe rimpianto, un po’ più in
là nel tempo, nell’ossessione di Byakuran che era più reale
e vicina di quanto Shoichi credesse.
Ciò che Shoichi era riuscito ad
evincere, era l’ambiguità degli atteggiamenti di Byakuran, quei
modi di fare che nemmeno ora che erano amici – o insomma, qualcosa del
genere: non ne era proprio sicuro, visto che l’albino non l’aveva
mai detto chiaramente, ma nemmeno aveva mai espresso fastidio in sua compagnia
– non erano mai stati particolarmente coerenti.
Byakuran-san era infantile, era capriccioso: non amava
essere contraddetto, e anche se te lo faceva capire con un sorriso, era
quell’incurvarsi di labbra che ti dava la sensazione che dire di no non fosse affatto la soluzione migliore. Shoichi non
avrebbe potuto parlare di vera e propria inquietudine, in realtà: era
più soggezione.
Era come se Byakuran scrutasse qualcosa, come se tutte
le ore e tutti i giorni osservasse qualcosa che vedeva solo lui ed era
esattamente come se rivolgesse lo sguardo e i pensieri a quell’unica cosa
invisibile a chiunque altro; per quello forse nulla lo interessava, e tutto lo
annoiava.
Shoichi non aveva mai saputo dargli
un nome preciso, perché non era mai riuscito a capire a cosa
l’altro rivolgesse lo sguardo e tutto ciò di cui si era accorto
spendendo altrettanto tempo ad osservare l’albino, era che ciò che
l’altro guardava non gli piaceva affatto.
Irrazionalmente, senza un vero motivo.
E Byakuran la contemplava ancora, e ancora, e Shoichi
aveva preso l’abitudine di rimanere in silenzio come se Byakuran non
dovesse essere disturbato per nessun motivo; però ci rimuginava su, lui,
come un pallino fisso nella tua mente che non se va e non se ne andrà finché non avrai almeno capito
perché è lì.
Eppure, non era mai cambiato.
Erano passati prima dei giorni, poi delle settimane e
poi degli interi mesi e lo sguardo di Byakuran si posava su di lui, ma non
vedeva lui, e veniva rivolto al cielo, ma non vedeva
lo stesso cielo che guardava lui.
Shoichi se ne era accorto.
E quando finalmente, mentre erano in biblioteca a
studiare e si era accorto di essere studiato,
aveva trovato il coraggio di alzare lo sguardo leggermente imbronciato e
chiedere: «Cosa guardi, Byakuran-san?»
L’albino lo aveva guardato, la guancia poggiata
al pugno e il gomito tenuto sul tavolo, e aveva sorriso: «Guardavo
Sho-chan, no~?» aveva pronunciato come se fosse
ovvio.
Shoichi aveva ostentato una leggera seccatura per la
distrazione, ed era tornato a leggere – e allora l’aveva sentito
per la prima volta, quel dolore un po’ più forte di quando
Byakuran-san sorrideva a quel modo.
«Sho-chan?» si sentì richiamare e
alzò lo sguardo un po’ perplesso, come se non si fosse nemmeno
accorto di essersi perso in uno dei suoi soliti giri mentali che non si interrompevano mai davvero, ma rimanevano talvolta un
rumore in sottofondo, presente ma non necessariamente fastidioso.
«Non ti avrò messo davvero tanto in
crisi?» aggiunse canzonatorio, alludendo alla partita a Choice che
stavano effettuando; Shoichi scosse la testa,
abbozzando un sorrisetto che ormai l’altro sapeva interpretare – ma
dopotutto aveva la sensazione che non ci fosse un’espressione, un
movimento, qualcosa che Byakuran non sapesse analizzare.
Non si trattava solo di lui, non era quella conoscenza
data dal tempo passato insieme o dall’attenzione che si rivolge alla
persona amata o importante per naturale inclinazione, curiosità e
affetto: era né più né meno il modo in cui l’albino
guardava tutti.
Ti studiava, carpiva ogni tua debolezza e la sfruttava
in maniera così sibillina, che persino accorgersi di essere usati
diventava un’impresa sulla quale scommettere; ma era sempre meglio non
azzardare sulla vittoria dello sfidante di Byakuran.
«Scusami, mi sono distratto.» ammise con
un’inflessione divertita seppur leggera nel tono, tornando a concentrarsi
sulla mossa da contrapporre a quella dell’altro.
«Ne, Sho-chan» si sentì
interrompere, ma non alzò lo sguardo su di lui, replicando con un
meccanico «Mh?» preso intanto dal proprio ragionamento; capitava
che parlassero durante il Choice, e che altre volte invece non si scambiassero
nemmeno una parola fino a fine partita, ma in ogni
caso non c’era mai nulla di importante da dirsi.
«A che stai pensando?» domandò con
quella curiosità infantile che, a differenza dei bambini, nel suo caso
non era sempre e solo qualcosa di positivo. Tuttavia Shoichi abbozzò un
sorrisetto leggero, divertito: «A quanto sei strano, Byakuran-san.»
replicò, palesemente bonario.
Col tempo aveva imparato che c’erano momenti
– individuarli era la parte più difficile, ma non era impossibile
– in cui poteva azzardare, momenti in cui se anche si spingeva un
po’ più in là Byakuran non se la prendeva
e non reagiva male.
Lo sentì ridacchiare mentre faceva la propria
mossa, e si chiese se fosse per la propria risposta o perché avesse
già intuito come muoversi sul Choice.
«Che cattivo che sei, Sho-chan~»
ribatté, lo sguardo che era su quel piccolo campo di battaglia che li
intratteneva spesso. Il Choice era un gioco divertente – uccideva la noia
di Byakuran, e Shoichi era così impegnato a pensare che quella pessima
sensazione sembrava assopirsi un po’, e
lasciarlo in pace.
«Sho-chan?» si sentì chiamare di
nuovo ed alzò lo sguardo, grosso modo nello
stesso momento in cui Byakuran rispondeva alla sua mossa: «Hai
perso.» disse l’albino con quel sorrisetto enigmatico, quello che
sembrava tante cose, e spesso non era nessuna di quelle nemmeno lontanamente.
Shoichi si lasciò andare contro la sedia,
l’espressione un misto tra rassegnazione e un
leggero broncio: «Cavolo.» borbottò.
Perché espressioni come “hai perso”
suonavano così pesanti, se in fondo quello era solo un gioco? –
sembrava come se Byakuran dovesse alzarsi, e andare via per non tornare, e al
tempo stesso c’era nell’aria la tensione di qualcosa che ti
è scivolata fra le mani e non porterà a nulla di buono.
E sarà solo colpa tua, se non fai attenzione e
non la afferri subito – ma se quel qualcosa era Byakuran, afferrarla non
era possibile.
«Sho-chan paga pegno~»
lo sentì quasi canticchiarlo e non fu esattamente ciò che
avrebbe definito “rassicurante”: «Cosa…?» gli
sfuggì fra le labbra, stupito forse – magari non davvero – o
preoccupato. Nessuno avrebbe potuto fargliene una colpa dopotutto, nemmeno se
ci fosse stato qualcun altro oltre lui e Byakuran.
Ma quel qualcun altro non
c’era.
Shoichi non avrebbe saputo spiegare con nessuna delle
parole che conosceva cosa stessero scatenando i gesti di Byakuran;
c’erano i brividi di sentire le labbra sulla pelle, così simili a
quelli dovuti all’averlo sentito muoversi alle sue spalle quando lui si
era alzato, scivolando silenzioso verso di lui senza una parola e lasciando che
il braccio sinistro si muovesse meccanicamente come se quella di cingergli la
vita fosse un’abitudine sviluppata in anni.
Quel gesto che lo aveva colto di sorpresa – cosa
di Byakuran non lo faceva, dopotutto – anche se il sussulto c’era
stato al respiro caldo che sfiorava il collo, e poi l’orecchio, mentre un
sussurro leggero si insinuava in niente più che
uno scherzoso pronunciare quel nomignolo che non aveva mai avuto poi molta
importanza e che lui non si era mai nemmeno dato la pena di correggere.
Non era stato un modo di attirare l’attenzione
dell’altro, nemmeno per avvisare di quanto aveva intenzione di fare: era
solo un chiamare qualcuno l’attimo prima che accada qualcosa, in un
divertimento intrinseco e contorto di prendersi gioco di qualcuno di cui si sa tanto, tutto. Al punto tale che puoi
immaginarne senza difficoltà le risposte, le reazioni, nella loro
più piccola gestualità.
C’era stato un bacio, un bacio, e un bacio
ancora, ad ognuno dei quali c’era stato un
diverso movimento – un sussulto prima, un stringersi delle spalle quasi
cercando riparo ed infine un sospiro che sembrava sollievo, ed era invece
nervosismo misto a confusione.
Così tipico di Shoichi, eppure Byakuran non era
ancora riuscito ad annoiarsi completamente; ogni volta c’era quella
differenza della stessa portata di un granello di
polvere insignificante che per la sua unicità irrimediabilmente attirava
la sua attenzione.
E ancora, ancora ridestava il
suo interesse: la capacità delle cose banali, così se l’era
spiegata Byakuran.
Quelle cose semplici che, come Sho-chan, erano sempre
in movimento comunque e che inevitabilmente venivano
intaccate da quello squarcio di realtà in cui trovavano un posto come le
tante altre cose e persone uguali a loro.
Shoichi non aveva precisamente sentore di quando le
labbra fossero state sostituite da veloci e precisi guizzi della lingua
né quando, ancora, questa fosse stata quasi prepotentemente rimpiazzata
dai morsi che si appropriavano della pelle umida e sensibile.
Non erano forti tanto da far male, come se Byakuran
avesse fatto magistrale attenzione affinché
significassero precisamente ciò che voleva arrivasse all’altro.
Resta immobile.
Continua ad essere sulle
spine come ora.
Lascia che sia io ad
occuparmene.
«B-Byakuran-san… dovresti
smetterla.» aveva mormorato ad un certo punto.
Precisamente quando, appellandosi ad
un minimo della lucidità che l’aveva sempre caratterizzato almeno
un po’, si era accorto di quanto fosse sbagliato, e assurdo, e in qualche
modo anche grottesco.
Che a Byakuran piacessero gli uomini, le donne, o
entrambi non era il punto della questione: quello era
l’averlo osservato da lontano e da vicino abbastanza da capire non tutto
di lui, ma una cosa almeno.
Byakuran era come quell’esecuzione al violino di
quel pezzo di tanti anni fa che lo aveva incantato ad
uno dei pochi concerti dal vivo che aveva potuto vantare di ascoltare prima che
la musica fosse qualcosa a cui rinunciare e poi da ricordare con affetto.
Quando era ancora qualcosa che riusciva a creare con
le sue mani, dalle sue mani.
Quell’esecuzione era stata difficile quanto
perfetta.
Qualcosa a cui avrebbe potuto
aspirare dopo dieci, forse vent’anni, e non avere mai la certezza di
poterla eseguire in maniera altrettanto perfetta in futuro.
Byakuran era così: un violinista che cercava la
perfezione e non si accontentava affatto di qualcosa
che vi si avvicinasse soltanto; era quel tipo di musicista pieno di talento e
strade aperte nel futuro, innumerevoli quasi, ma che probabilmente lo avrebbero
tutte visto riuscire a prescindere dalla strada scelta.
Una persona così, dei pezzi semplici non si
accontenta.
Li suona riuscendovi fin dalla prima volta, vi si
sofferma per affinarne la tecnica perché sia impossibile che qualcun
altro possa suonarli in maniera altrettanto sublime.
E poi, se ne dimentica.
Shoichi non era sicuro di saper interpretare la parte
dello spartito che viene irrimediabilmente
accartocciato e buttato o tenuto con cura per nessun altro scopo se non essere
chiuso nella cartelletta di quei pezzi suonati una volta e che ormai hanno
fatto il loro tempo.
Aveva sentito la presa sulla sua vita stringersi in
maniera infantilmente possessiva, la schiena aderire al corpo dell’albino
e le sue labbra sfiorare il lobo giocosamente: «Hai
già perso, Sho-chan. Non hai il diritto di lamentarti, no?» era
stata l’unica risposta di cui lo aveva degnato mentre una mano si insinuava appena sotto la maglia nera, e l’altra
sbottonava con estrema naturalezza i pantaloni.
Shoichi si era detto certo che in breve le gambe
avrebbero iniziato a tremolare appena, mentre si era chiesto a cosa fosse dovuta la piacevole sensazione di brividi lungo la
schiena mista alla stretta allo stomaco.
Se alle dita che sfioravano leggere l’addome
intrufolandosi sotto la stoffa, se fosse colpa della bocca di Byakuran che era
tornata ad appropriarsi del suo collo con tocchi lenti e letali, o se la mano
che abbassando la zip sembrava minacciare di
permettersi presto un contatto fin troppo intimo.
Poi quella stessa mano aveva sfiorato l’intimo,
e quell’eccitazione che aveva fatto imporporare le guance di Irie. Lui
che, per la prima volta da quando si era stabilito fra loro quel contatto
“in più”, era grato di stare dando le spalle all’altro.
Quel qualcosa di vergognoso, che si era insinuato nella sua testa chissà
quando e chissà perché, portandolo in un fondo dei recessi della
sua mente a desiderare un contatto del genere da parte di un altro uomo –
o forse solo da Byakuran, che però era un uomo – voleva
nascondergliela.
Almeno quell’unica debolezza.
Se fra tutte quelle che aveva
era in suo potere sceglierne una sola da non mostrare e dare in pasto
all’avido desiderio di controllo sulle persone e le cose che Byakuran
aveva sempre avuto, allora era proprio quella che voleva rinchiudere da qualche
parte e non mostrare mai.
A nessuno. Men che meno a lui.
Perché Shoichi lo sapeva, che una debolezza in
mano a Byakuran si trasformava in un’arma e nel suo caso, l’albino
non aveva bisogno di un’altra freccia al suo arco.
Aveva così tanto, da
poterlo obbligare a trattenere il fiato per quanto tempo avesse desiderato,
rischiando persino di farlo soffocare.
E mentre quella mano andava ancora oltre, si insinuava ulteriormente nell’ultimo strato di stoffa,
e sfiorava quella fragile ultima difesa che nessuno prima aveva infranto,
Shoichi capì anche che non si trattava più di pagare pegno, non
si trattava più di un gioco: non era il Choice, né
nient’altro del genere.
Era solo l’ennesima cosa che di Byakuran lui non
riusciva a capire.
Era nuovamente quel qualcosa che gli sfuggiva via, gli
lasciava addosso una frustrazione che in quel momento
si stava sciogliendo in mugolii imbarazzanti e gemiti leggeri, mentre le
carezze si facevano veloci e il silenzio della stanza veniva rotto quasi con
prepotenza.
E mentre la mano di Byakuran lasciava carezze sempre
più veloci e l’altra che aveva sfiorato la pelle sotto la maglia
quasi lo tratteneva addosso a lui, lasciando che la schiena di Shoichi aderisse
al proprio corpo, a Irie parve di sentirlo sorridere sulla propria pelle.
Non chiese perché, lasciando che Byakuran
lambisse il lobo suggendolo leggermente per sussurrare piano quanto Shoichi
fosse “carino” – senza l’affetto spesso insito nella
parola, ma nemmeno la palese derisione che Byakuran rivolgeva solitamente e
naturalmente alle persone – in quel momento.
E non fece altro se non stringere gli occhi e voltare
il viso arrossato leggermente di lato quando con un mugolio basso e rocco
avvertì chiaramente la mano di Byakuran ora molto più umida di
prima.
Si richiuse la porta della propria stanza alle
spalle, poggiandovi contro la schiena, inspirando profondamente.
Sentiva gli indumenti inferiori appiccicaticci contro
la propria pelle e il bisogno impellente di farsi un bagno, mentre il respiro
era ancora velocizzato per le fitte lancinanti che avevano quasi minacciato
fino ad un attimo prima di dividergli la testa a
metà.
Lo sguardo basso, nella stanza in penombra, non
cercava di vedere niente – tutto quello che in un attimo aveva rivisto in
quei ricordi riemersi all’improvviso e con violenza era più che
abbastanza.
Era così ironicamente chiaro, ora.
Quel qualcosa che lo aveva quasi fatto impazzire,
continuando a scivolargli fra le mani, quella stessa cosa che era sempre stato certo di sapere in qualche modo ma che non riusciva
mai a ricordare con chiarezza.
Quello che quando Byakuran-san sorrideva, non
importava come, finiva sempre per fare molto, molto più male di prima.
Tanti futuri possibili in cui finiva sempre, inesorabilmente
nello stesso modo.
Le labbra si incurvarono in
un sorriso senza emozione: troppo mesto per essere ironico, e troppo poco
esultante per poter essere soddisfazione o qualcosa di lontanamente
paragonabile alla felicità.
«Dannazione.» sibilò, mordendosi
appena il labbro inferiore mentre un colpo secco si abbatteva frustrato contro
la porta.
Uno sbuffo.
Avrebbe dovuto essere divertito, sì.
Perché andava tutto secondo i piani, no?
«Quindi è
così… che andrà a finire.»
Avrebbe dovuto essere divertito, sì.
Ma non riusciva a ridere.