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Autore: Shichan    05/10/2010    1 recensioni
Shoichi aveva imparato a riconoscerla quella sensazione.
L’accompagnava sempre un vago senso di confusione, e un nodo alla gola.
Perché non lo sapeva, però. Sapeva solo che c’era.
E che quando Byakuran-san gli sorrideva, sembrava sempre fare un po’ più male.
[Premio "Miglior trattazione del pairing" del contest "L'immagine di una coppia" indetto da Amy8923 e Fairy Tail14]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Byakuran, Shoichi Irie
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Shouichi aveva imparato a riconoscerla, quella sensazione

Titolo: Partita in Do minore
Genere: 
Introspettivo, Malinconico
Rating: 
Arancione

Prompt: 33. “Quando voglio incontrarti, in che modo dovrei chiamarti?” (Tabella)
Avvertimenti: 
Missing moment, oneshot
Note Autore:
la fanfiction si basa cronologicamente tra il periodo scolastico di Shoichi e Byakuran e il momento in cui a Shoichi torna la memoria come manovrato da Future!Shoichi.

-“Partita in Do minore” è una sonata di Bach (sia per piano che adattata a violino); qui ha doppia valenza musicale e come “partita” del Choice.

- Si ringrazia nacchan per aver betato <3

 

 

 

 

Shoichi aveva imparato a riconoscerla, quella sensazione; quella che non era propriamente un dejà-vu, che non aveva un nome preciso in verità.

Shoichi non sapeva mai capire di cosa si trattasse veramente: era fastidiosa, come quando c’è qualcosa lì, proprio nella tua testa.

Lo sai che c’è.

La prima volta che aveva pensato, e ripensato, con nostalgia l’aveva paragonata a qualcosa di musicale: come quando c’è una canzone che conosci, ma che non ascolti più da molto tempo. E poi succede che all’improvviso, le note suonano di nuovo, e insieme a loro le parole – anche se questo non valeva per la musica classica che aveva amato tanto.

Tu sei lì.

Le note si formano nella tua mente ancora prima che arrivino fisicamente all’orecchio; conosci già le parole, in realtà le labbra le stanno formando quando il tuo cervello non gli ha nemmeno dato l’input.

Le sai, le conosci. Sono lì.

Allora ti sforzi di ricordarne il titolo, perché se la ricordi a tal punto, quella melodia, allora vuol dire che l’hai certamente ascoltata così tanto da imprimerla nella mente in maniera tale da non dimenticarla, seppure inconsciamente.

Ma non ne hai memoria, non del tutto; le note sono ancora lì, le parole anche, quasi hai la sensazione della lingua impastata – come se cercasse di articolare quel qualcosa che non hai davvero dimenticato, ma in parte in realtà non è nemmeno più fra i tuoi ricordi.

E allora ti sfugge: fastidiosamente, in maniera subdola, prendendosi gioco di te; striscia via, lasciandoti la sensazione sgradevole di qualcosa da dire e che non abbandona il tuo corpo, ferma lì, a quel nodo in gola.

Shoichi aveva imparato a riconoscerla, quella sensazione.

L’accompagnava sempre un vago senso di confusione, e un nodo alla gola.

Il perché non lo sapeva, però. Sapeva solo che c’era.

E che quando Byakuran-san gli sorrideva, sembrava sempre fare un po’ più male.

 

 

«Sho-chan~» si sentì salutare in quel modo che ormai era diventato inconfondibile.

Una sola persona lo chiamava con quel diminutivo – e fin dalla prima volta, per giunta; si voltò quindi senza avere davvero necessità di farlo, abbozzando un sorriso quando gli occhi chiari incrociarono la figura di Byakuran.

«Buongiorno, Byakuran-san.» salutò di rimando, aspettando che l’altro lo affiancasse per poi avviarsi con lui lungo il corridoio che stava percorrendo già in precedenza.

Il via vai per l’edificio scolastico era sempre lo stesso, quasi monotono forse: ogni lunedì mattina sembrava quasi che nuove matricole si materializzassero dal nulla, aggiungendosi alle diverse paia di piedi che si alternavano in passi più o meno frettolosi.

Ogni lunedì mattina lui e Byakuran quasi si ritrovavano a fare un buffo slalom tra volti e corpi, diretti all’aula della prima lezione del mattino.

«Chimica. Le prime due ore di puro divertimento, ne Sho-chan?» lo interrogò Byakuran in quella che oramai era divenuta a tutti gli effetti una domanda retorica, per lui. Alla quale, come ogni lunedì, sorrideva leggermente annuendo e trovando sul viso dell’albino la soddisfazione tipica di quando gli veniva data la ragione.

Shoichi non aggiungeva mai nulla, e percorrevano in silenzio il resto del tragitto fino a varcare la soglia dell’aula E.

Lui, Shoichi, ammetteva di essere rimasto perplesso dai suoi primi scambi di parole con Byakuran-san, e d’altra parte non era un mistero quanto fosse abbastanza lontano dalla realtà definire l’altro “normale”. Tuttavia Shoichi in qualche modo si era convinto che la “non normalità” di Byakuran fosse da intendere in senso buono.

Anche se, certamente, la prima volta non era stato esattamente quello il tipo di pensiero che aveva fatto.

Tuttavia, nonostante la sicura eccentricità dell’altro, Shoichi non aveva mai avuto un valido motivo per pensare male di lui, e come logica conseguenza non ne aveva avuto uno nemmeno per mantenere un certo distacco dal compagno.

Era perciò stato un ovvio quanto naturale evolversi degli eventi, quello di diventare amici – anche se l’albino, come aveva sostenuto più volte, era dell’idea che Shoichi “applicasse troppo liberamente la parola amicizia” anche laddove non fosse necessario.

Ecco, quella era una delle uscite che lo avevano fatto rimanere basito più di una volta.

«Sho-chan» fu proprio la voce di Byakuran a riportarlo alla realtà – era un ruolo che gli si addiceva particolarmente: l’altro era sempre razionale, di una fredda cortesia, imperscrutabile e per questo apparentemente incapace di venire sorpreso. Lui, Shoichi, nonostante fosse un cosiddetto “cervellone” che si supponeva fosse con i piedi ben piantati per terra… beh, insomma.

Non era proprio paragonabile a Byakuran.

Portò lo sguardo su quest’ultimo, in un muto “sì?” in risposta al suo richiamo. Lo vide sorridere, una sfumatura di divertimento ad incurvargli le labbra: «Se non stai attento» gli indicò la lavagna «ti perderai un’interessante lezione sugli eteroatomi, sai?» concluse.

Shoichi accennò ad un ridacchiare leggero, spostando l’attenzione sulla lavagna e sul docente che aveva iniziato già a trascrivere quelli che certamente sarebbero stati una valanga di appunti.

 

Con il tempo avevano preso a non mangiare più ogni giorno nella mensa dell’istituto, sfruttando nelle giornate più calde gli spazi aperti. Tuttavia la prima volta Shoichi lo aveva incrociato proprio nel refettorio della scuola: era il primo giorno, e non sarebbe certo servito sottolineare che fosse solo e che non conoscesse nessuno.

Nonostante le svariate raccomandazioni di sua madre e sua sorella, non era certo facile per lui fare amicizia, aprirsi subito; era, per sua sfortuna probabilmente, di quelle persone timide e riservate, che pur involontariamente tendevano a stare sulle proprie.

Non per arroganza, ma per semplice impaccio dal quale per lui era molto più difficile uscire, rispetto agli altri.

Scegliere un tavolo vuoto verso il quale dirigersi con il proprio vassoio era stato a dir poco istintivo, meccanico; e non si era aspettato che qualcuno si unisse a lui, motivo per il quale quando aveva sentito: «Posso sedermi, è libero, vero?» rivolto a sé aveva lasciato senza quasi accorgersene il cucchiaio – ah, le posate occidentali! – a mezz’aria.

Aveva alzato lo sguardo verso il presunto interlocutore e per la prima volta era rientrata nel suo campo visivo la figura di Byakuran, ormai già sedutosi senza nemmeno aspettare la risposta. Con il senno di poi, Shoichi era consapevole dell’alta probabilità dell’averlo fissato con espressione ebete.

Ma all’epoca, era stata una sfumatura che si era naturalmente sostituita a quella pensierosa avuta fino a poco prima.

«Ah…» aveva tentato, senza sapere bene cosa dire, anticipato subito dall’altro: «Irie Shoichi, giusto?» aveva domandato, in maniera retorica chiaramente – col tempo Shoichi lo avrebbe imparato, che la maggior parte delle sue domande erano sempre di quella natura, poco importava a chi fossero rivolte o cosa trattassero.

Aveva annuito incerto, continuando a tenere gli occhi verdi su di lui, studiandolo forse involontariamente, forse volutamente.

«Byakuran.» aveva detto lui semplicemente, allungando una mano sopra il tavolo e porgendogliela rivolgendogli un sorriso che Shoichi non seppe definire allora – in realtà, non ci riusciva nemmeno adesso.

L’aveva stretta in maniera impacciata che era sembrata forse quasi frettolosa, sentendosi per un attimo tornato alle medie, quando per quel suo modo di fare non era raro essere preso in giro.

Non che fosse stato soggetto dei bulli della scuola più di altri, chiaro, ma per quanto intenzionalmente bonarie le derisioni c’erano state.

Si era sentito come se fosse stato di nuovo un quattordicenne, di fronte a Byakuran, aspettandosi una risata divertita al suo atteggiamento… ma non era mai arrivata.

L’altro aveva stretto la mano per poi ritirare la propria, mantenendo lo sguardo su di lui con quel sorriso ancora ad incurvargli le labbra, ma senza alcun accenno di quella derisione che si sarebbe aspettato Shoichi.

«Ho sentito che sei un piccolo genio, eh Sho-chan?» aveva invece detto.

Shoichi aveva assunto un’aria sorpresa, abbassando per qualche istante lo sguardo sul piatto che conteneva il suo riso al curry, imbarazzato.

Quando lo aveva poi occhieggiato di sottecchi, aveva notato che come se nulla fosse Byakuran aveva preso a mangiare il proprio pranzo e allora aveva abbozzato un sorrisetto leggero; era un tipo un po’ strano e con un modo di fare conoscenza tutto suo, ma non era male, in fondo.

 

Shoichi era una persona come se ne trovavano tante, in verità.

Certamente aveva un cervello niente male; d’altra parte, se così non fosse stato, non sarebbe di certo andato in un istituto come quello riuscendo a seguire i corsi con voti di tutto rispetto.

Tuttavia, se come eccezione si prendeva questo dato di una sua discreta intelligenza, Shoichi era certo che di sé non sarebbe rimasto granché degno di nota: era più che cosciente di essere un adolescente che non aveva esattamente fatto le stesse esperienze di molti suoi coetanei – e sì, era proprio di ragazze et similia che si parlava.

Non che fosse mai stato il centro dei suoi pensieri a dirla proprio tutta: alle elementari non ci pensi nemmeno a certe cose, anzi le bambine ti fanno anche un po’ schifo a dire il vero. Alle medie, certo, c’era quella sua compagna di classe che gli piaceva – Okazaki-san, ancora se la ricordava anche se adesso c’era il sorriso tipico di quando si ripensa ad un ricordo che non influisce più particolarmente sulla nostra vita – e alla quale non si era mai dichiarato.

Quanto alle scuole superiori… semplicemente aveva da impegnarsi per raggiungere risultati tali da potersi meritare quel scuola a cui aveva deciso di andare a tutti i costi.

Non era di quelle persone che, troppo prese dai libri, si estraniavano dal resto del mondo: era uscito in gruppo con alcuni amici, certo, e aveva interessi che condivideva con i compagni di classe, ovvio.

Però Shoichi era anche la persona timida, quella che spesso sembrava erroneamente snob o un po’ cupa, di quelle che si fanno i fatti propri e non hanno interesse per gli altri o per la maggior parte delle cose che dovrebbero piacere ai ragazzi della sua età.

Era gentile, non sapeva dire di no. E questo, più volte, gli aveva procurato qualche guaio – nulla di serio, comunque.

A volte era un po’ burbero, lo ammetteva, e si irritava più spesso che in passato quando era soggetto a nervosismo – e di conseguenza al terribile mal di stomaco che aveva sviluppato come reazione all’ansia in maniera del tutto involontaria.

Di Irie Shoichi potevi comunque dire, senza dubbio, che era “una brava persona”; ma lui sapeva che spesso era un modo cortese di dire che era noioso, o banale.

A lui dopotutto andava bene: forse non sarebbe mai stato quello che tutti andavano a cercare, ma non era poi di vitale importanza. Era sempre stato dell’idea che la notorietà per quanto minima portasse guai.

Oh beh, considerando i suoi primi tempi lì all’istituto anche la sua posizione gliene aveva procurato qualcuno.

Il classico periodo del “sono una matricola, e so che nel vostro linguaggio non è nulla di buono”.

In realtà non avrebbe saputo dire con precisione per quale motivo fosse finito in quella situazione quella volta, semplicemente perché non lo ricordava, o magari era una di quelle scene quasi ovvie in cui senza un motivo particolare vieni preso di mira – le solite cose: ti sei svegliato male, la giornata è andata storta, sei frustrato, cose così.

Ma nel caso di Shoichi era diverso, il suo non ricordare precisamente “come” e “perché” era dovuto solo al fatto che quando ci ripensava, quello che gli tornava in mente era altro: era quell’aspetto di Byakuran-san che non aveva mai visto. Né immaginato.

Né tantomeno sospettato.

E che a dire il vero, ancora oggi… non aveva capito.

 

«Non fare il sostenuto, Irie, non ti stiamo mica chiedendo la Luna!»

«Magari quella con due calcoli e qualche formula saprebbe pure darcela, il cervellone!» aveva sentito aggiungere ad uno dei due.

Shoichi si era detto semplicemente di tirare dritto, perché non aveva nessun motivo né alcuna intenzione di dargli corda e farsi trascinare in qualcosa che non era decisamente alla sua portata. Tanto più che non voleva guai quando non erano ancora passati neanche sei mesi pieni dal suo ingresso in quella scuola.

No, si sarebbe fatto gli affari suoi e quelli si sarebbero semplicemente stancati e avrebbero lasciato stare – l’unica cosa di cui era stato certo era che non sembravano intenzionati ad alzare le mani, il che per l’anti sport come era lui era certamente un bene.

«Irie, stiamo parlando con te!»

«Che diamine, non è carino ignorarci, sai?» si era sentito rimproverare, e l’attimo dopo una mano aveva raggiunto la sua spalla obbligandolo a dar loro l’attenzione che tanto avevano cercato.

«La mia risposta è no.» si era rifiutato categoricamente, e poi quale sano di mente avrebbe acconsentito a cercare di infiltrarsi nel database della scuola?

Nessuno, e lui voleva continuare a rientrare in quella categoria ancora per molto tempo.

«Ehi, ehi, tu la prendi troppo seriamente, lasciatelo dire. Che ti costa in fondo?»

«Ho già detto di no.» aveva bofonchiato, desiderando di potersene andare e soprattutto non trovando particolarmente stimolante avere la consapevolezza di essere quasi con le spalle al muro, letteralmente parlando.

«Sho-chan» si era sentito chiamare, e lo aveva inconsciamente cercato con lo sguardo ancora prima di accostare effettivamente la sua voce alla sua persona: «di cosa state parlando di bello?» era stata la domanda e sì, quello era stato uno dei tanti casi in cui era stato legittimo chiedersi fino a che punto Byakuran giocasse e da quale esattamente iniziasse ad essere serio.

Perché, parola sua, Shoichi non lo aveva capito in quel momento; e non lo avrebbe capito nemmeno dopo.

«Ma Byakuran-san…» aveva tentato, perché non poteva aver davvero pensato che stessero facendo una chiacchierata amichevole sul tempo atmosferico.

Ma Shoichi poi lo aveva notato: che Byakuran era una persona grottesca a volte; che faceva le cose che nessun altro osava fare, che pensava, pensava in continuazione senza mai fermarsi e che dava forma spesso alle cose più atroci con la massima innocenza, o che riusciva a rendere le cose piacevoli cose…

«Byakuran-san!»

…spaventose.

«B-Byakuran-san, sei impazzito?!» aveva esclamato, il panico nella voce mentre le braccia avevano cinto la vita dell’altro non in un abbraccio di due amici che non si vedono da tanto, ma in una stretta volta ad allontanarlo.

Shoichi ricordava di come fosse stato un movimento veloce e naturale, insospettabile, quello con cui l’albino aveva avvicinato entrambi. E di come avesse sorriso come sorrideva sempre, di come lui avesse infantilmente pensato che ora che era arrivato la questione si sarebbe risolta facilmente – perché Byakuran dava sempre la sensazione che tutto si sarebbe sistemato.

Quella stessa sensazione che Shoichi avrebbe imparato a distinguere, perché “tutto si sistemerà” e “tutto finirà bene”, non erano soltanto due sfumature quando si trattava di Byakuran.

L’altro si era fermato, il piede lasciato a mezz’aria, le mani in tasca mentre si voltava verso Shoichi con il sorriso divertito di un bambino che in quel momento però non riusciva a rallegrare o intenerire l’altro: «Cosa c’è, Sho-chan?» aveva chiesto con tutta la tranquillità del mondo.

E Shoichi probabilmente doveva averlo guardato in un modo particolare, che poteva essere stato confuso, spaventato, o magari tutti e due insieme. Perché Byakuran lo aveva osservato, accennando ad uno di quei due compagni sfortunati che ora era per terra a mugugnare dolorante: «Oh, per quello dici?» aveva domandato con la casualità nel tono di voce.

Come se non se ne fosse accorto.

Come se si fosse trattato di qualcosa di trascurabile, non degno di nota.

«Gli ho solo insegnato una lezione importante, Sho-chan.» aveva quindi ripreso, con il modo di esprimersi di chi pazientemente spiega ad un bambino: «Toccare le cose degli altri, non è corretto. Non pensi anche tu, Sho-chan~? Se ora non glielo insegna qualcuno, nel futuro potrebbe non esserci più nessuno disposto a farlo. E se non lo impara adesso, nel futuro potrebbe essere un problema per altre persone. Gli stiamo facendo un favore.» aveva assicurato, dando ad intendere di essere non solo perfettamente cosciente di cosa stesse facendo, ma anche assolutamente convinto di essere nel giusto.

L’unica cosa che a Shoichi era sembrato sensato dire, in quell’occasione, era stata: «Non puoi certo preoccuparti del futuro di tutti, Byakuran-san. Non sei di certo Dio.» cercando di farlo ragionare.

Aveva erroneamente ed ingenuamente pensato di esserci riuscito quando Byakuran gli aveva risposto: «Beh, per adesso ha imparato, quindi non ti toccherà più. Andiamo a mangiare, Sho-chan? Offro io~.»

Shoichi, nel seguirlo, aveva inconsapevolmente colto nel segno con un pensiero tanto semplice come quello che seguì quell’invito. Ma era stato veloce a sostituirlo con qualcosa che gli diceva: “ti sbagli”.

Byakuran sembrava ossessionato dal futuro.

Forse era normale, si disse, e non ci badò.

Lo avrebbe rimpianto, un po’ più in là nel tempo, nell’ossessione di Byakuran che era più reale e vicina di quanto Shoichi credesse.

 

Ciò che Shoichi era riuscito ad evincere, era l’ambiguità degli atteggiamenti di Byakuran, quei modi di fare che nemmeno ora che erano amici – o insomma, qualcosa del genere: non ne era proprio sicuro, visto che l’albino non l’aveva mai detto chiaramente, ma nemmeno aveva mai espresso fastidio in sua compagnia – non erano mai stati particolarmente coerenti.

Byakuran-san era infantile, era capriccioso: non amava essere contraddetto, e anche se te lo faceva capire con un sorriso, era quell’incurvarsi di labbra che ti dava la sensazione che dire di no non fosse affatto la soluzione migliore. Shoichi non avrebbe potuto parlare di vera e propria inquietudine, in realtà: era più soggezione.

Era come se Byakuran scrutasse qualcosa, come se tutte le ore e tutti i giorni osservasse qualcosa che vedeva solo lui ed era esattamente come se rivolgesse lo sguardo e i pensieri a quell’unica cosa invisibile a chiunque altro; per quello forse nulla lo interessava, e tutto lo annoiava.

Shoichi non aveva mai saputo dargli un nome preciso, perché non era mai riuscito a capire a cosa l’altro rivolgesse lo sguardo e tutto ciò di cui si era accorto spendendo altrettanto tempo ad osservare l’albino, era che ciò che l’altro guardava non gli piaceva affatto.

Irrazionalmente, senza un vero motivo.

E Byakuran la contemplava ancora, e ancora, e Shoichi aveva preso l’abitudine di rimanere in silenzio come se Byakuran non dovesse essere disturbato per nessun motivo; però ci rimuginava su, lui, come un pallino fisso nella tua mente che non se va e non se ne andrà finché non avrai almeno capito perché è lì.

Eppure, non era mai cambiato.

Erano passati prima dei giorni, poi delle settimane e poi degli interi mesi e lo sguardo di Byakuran si posava su di lui, ma non vedeva lui, e veniva rivolto al cielo, ma non vedeva lo stesso cielo che guardava lui.

Shoichi se ne era accorto.

E quando finalmente, mentre erano in biblioteca a studiare e si era accorto di essere studiato, aveva trovato il coraggio di alzare lo sguardo leggermente imbronciato e chiedere: «Cosa guardi, Byakuran-san?»

L’albino lo aveva guardato, la guancia poggiata al pugno e il gomito tenuto sul tavolo, e aveva sorriso: «Guardavo Sho-chan, no~?» aveva pronunciato come se fosse ovvio.

Shoichi aveva ostentato una leggera seccatura per la distrazione, ed era tornato a leggere – e allora l’aveva sentito per la prima volta, quel dolore un po’ più forte di quando Byakuran-san sorrideva a quel modo.

 

 

«Sho-chan?» si sentì richiamare e alzò lo sguardo un po’ perplesso, come se non si fosse nemmeno accorto di essersi perso in uno dei suoi soliti giri mentali che non si interrompevano mai davvero, ma rimanevano talvolta un rumore in sottofondo, presente ma non necessariamente fastidioso.

«Non ti avrò messo davvero tanto in crisi?» aggiunse canzonatorio, alludendo alla partita a Choice che stavano effettuando; Shoichi scosse la testa, abbozzando un sorrisetto che ormai l’altro sapeva interpretare – ma dopotutto aveva la sensazione che non ci fosse un’espressione, un movimento, qualcosa che Byakuran non sapesse analizzare.

Non si trattava solo di lui, non era quella conoscenza data dal tempo passato insieme o dall’attenzione che si rivolge alla persona amata o importante per naturale inclinazione, curiosità e affetto: era né più né meno il modo in cui l’albino guardava tutti.

Ti studiava, carpiva ogni tua debolezza e la sfruttava in maniera così sibillina, che persino accorgersi di essere usati diventava un’impresa sulla quale scommettere; ma era sempre meglio non azzardare sulla vittoria dello sfidante di Byakuran.

«Scusami, mi sono distratto.» ammise con un’inflessione divertita seppur leggera nel tono, tornando a concentrarsi sulla mossa da contrapporre a quella dell’altro.

«Ne, Sho-chan» si sentì interrompere, ma non alzò lo sguardo su di lui, replicando con un meccanico «Mh?» preso intanto dal proprio ragionamento; capitava che parlassero durante il Choice, e che altre volte invece non si scambiassero nemmeno una parola fino a fine partita, ma in ogni caso non c’era mai nulla di importante da dirsi.

«A che stai pensando?» domandò con quella curiosità infantile che, a differenza dei bambini, nel suo caso non era sempre e solo qualcosa di positivo. Tuttavia Shoichi abbozzò un sorrisetto leggero, divertito: «A quanto sei strano, Byakuran-san.» replicò, palesemente bonario.

Col tempo aveva imparato che c’erano momenti – individuarli era la parte più difficile, ma non era impossibile – in cui poteva azzardare, momenti in cui se anche si spingeva un po’ più in là Byakuran non se la prendeva e non reagiva male.

Lo sentì ridacchiare mentre faceva la propria mossa, e si chiese se fosse per la propria risposta o perché avesse già intuito come muoversi sul Choice.

«Che cattivo che sei, Sho-chan~» ribatté, lo sguardo che era su quel piccolo campo di battaglia che li intratteneva spesso. Il Choice era un gioco divertente – uccideva la noia di Byakuran, e Shoichi era così impegnato a pensare che quella pessima sensazione sembrava assopirsi un po’, e lasciarlo in pace.

«Sho-chan?» si sentì chiamare di nuovo ed alzò lo sguardo, grosso modo nello stesso momento in cui Byakuran rispondeva alla sua mossa: «Hai perso.» disse l’albino con quel sorrisetto enigmatico, quello che sembrava tante cose, e spesso non era nessuna di quelle nemmeno lontanamente.

Shoichi si lasciò andare contro la sedia, l’espressione un misto tra rassegnazione e un leggero broncio: «Cavolo.» borbottò.

Perché espressioni come “hai perso” suonavano così pesanti, se in fondo quello era solo un gioco? – sembrava come se Byakuran dovesse alzarsi, e andare via per non tornare, e al tempo stesso c’era nell’aria la tensione di qualcosa che ti è scivolata fra le mani e non porterà a nulla di buono.

E sarà solo colpa tua, se non fai attenzione e non la afferri subito – ma se quel qualcosa era Byakuran, afferrarla non era possibile.

«Sho-chan paga pegno~» lo sentì quasi canticchiarlo e non fu esattamente ciò che avrebbe definito “rassicurante”: «Cosa…?» gli sfuggì fra le labbra, stupito forse – magari non davvero – o preoccupato. Nessuno avrebbe potuto fargliene una colpa dopotutto, nemmeno se ci fosse stato qualcun altro oltre lui e Byakuran.

Ma quel qualcun altro non c’era.

 

 

Shoichi non avrebbe saputo spiegare con nessuna delle parole che conosceva cosa stessero scatenando i gesti di Byakuran; c’erano i brividi di sentire le labbra sulla pelle, così simili a quelli dovuti all’averlo sentito muoversi alle sue spalle quando lui si era alzato, scivolando silenzioso verso di lui senza una parola e lasciando che il braccio sinistro si muovesse meccanicamente come se quella di cingergli la vita fosse un’abitudine sviluppata in anni.

Quel gesto che lo aveva colto di sorpresa – cosa di Byakuran non lo faceva, dopotutto – anche se il sussulto c’era stato al respiro caldo che sfiorava il collo, e poi l’orecchio, mentre un sussurro leggero si insinuava in niente più che uno scherzoso pronunciare quel nomignolo che non aveva mai avuto poi molta importanza e che lui non si era mai nemmeno dato la pena di correggere.

Non era stato un modo di attirare l’attenzione dell’altro, nemmeno per avvisare di quanto aveva intenzione di fare: era solo un chiamare qualcuno l’attimo prima che accada qualcosa, in un divertimento intrinseco e contorto di prendersi gioco di qualcuno di cui si sa tanto, tutto. Al punto tale che puoi immaginarne senza difficoltà le risposte, le reazioni, nella loro più piccola gestualità.

C’era stato un bacio, un bacio, e un bacio ancora, ad ognuno dei quali c’era stato un diverso movimento – un sussulto prima, un stringersi delle spalle quasi cercando riparo ed infine un sospiro che sembrava sollievo, ed era invece nervosismo misto a confusione.

Così tipico di Shoichi, eppure Byakuran non era ancora riuscito ad annoiarsi completamente; ogni volta c’era quella differenza della stessa portata di un granello di polvere insignificante che per la sua unicità irrimediabilmente attirava la sua attenzione.

E ancora, ancora ridestava il suo interesse: la capacità delle cose banali, così se l’era spiegata Byakuran.

Quelle cose semplici che, come Sho-chan, erano sempre in movimento comunque e che inevitabilmente venivano intaccate da quello squarcio di realtà in cui trovavano un posto come le tante altre cose e persone uguali a loro.

Shoichi non aveva precisamente sentore di quando le labbra fossero state sostituite da veloci e precisi guizzi della lingua né quando, ancora, questa fosse stata quasi prepotentemente rimpiazzata dai morsi che si appropriavano della pelle umida e sensibile.

Non erano forti tanto da far male, come se Byakuran avesse fatto magistrale attenzione affinché significassero precisamente ciò che voleva arrivasse all’altro.

 

Resta immobile.

Continua ad essere sulle spine come ora.

Lascia che sia io ad occuparmene.

 

«B-Byakuran-san… dovresti smetterla.» aveva mormorato ad un certo punto.

Precisamente quando, appellandosi ad un minimo della lucidità che l’aveva sempre caratterizzato almeno un po’, si era accorto di quanto fosse sbagliato, e assurdo, e in qualche modo anche grottesco.

Che a Byakuran piacessero gli uomini, le donne, o entrambi non era il punto della questione: quello era l’averlo osservato da lontano e da vicino abbastanza da capire non tutto di lui, ma una cosa almeno.

Byakuran era come quell’esecuzione al violino di quel pezzo di tanti anni fa che lo aveva incantato ad uno dei pochi concerti dal vivo che aveva potuto vantare di ascoltare prima che la musica fosse qualcosa a cui rinunciare e poi da ricordare con affetto.

Quando era ancora qualcosa che riusciva a creare con le sue mani, dalle sue mani.

Quell’esecuzione era stata difficile quanto perfetta.

Qualcosa a cui avrebbe potuto aspirare dopo dieci, forse vent’anni, e non avere mai la certezza di poterla eseguire in maniera altrettanto perfetta in futuro.

Byakuran era così: un violinista che cercava la perfezione e non si accontentava affatto di qualcosa che vi si avvicinasse soltanto; era quel tipo di musicista pieno di talento e strade aperte nel futuro, innumerevoli quasi, ma che probabilmente lo avrebbero tutte visto riuscire a prescindere dalla strada scelta.

Una persona così, dei pezzi semplici non si accontenta.

Li suona riuscendovi fin dalla prima volta, vi si sofferma per affinarne la tecnica perché sia impossibile che qualcun altro possa suonarli in maniera altrettanto sublime.

E poi, se ne dimentica.

Shoichi non era sicuro di saper interpretare la parte dello spartito che viene irrimediabilmente accartocciato e buttato o tenuto con cura per nessun altro scopo se non essere chiuso nella cartelletta di quei pezzi suonati una volta e che ormai hanno fatto il loro tempo.

Aveva sentito la presa sulla sua vita stringersi in maniera infantilmente possessiva, la schiena aderire al corpo dell’albino e le sue labbra sfiorare il lobo giocosamente: «Hai già perso, Sho-chan. Non hai il diritto di lamentarti, no?» era stata l’unica risposta di cui lo aveva degnato mentre una mano si insinuava appena sotto la maglia nera, e l’altra sbottonava con estrema naturalezza i pantaloni.

Shoichi si era detto certo che in breve le gambe avrebbero iniziato a tremolare appena, mentre si era chiesto a cosa fosse dovuta la piacevole sensazione di brividi lungo la schiena mista alla stretta allo stomaco.

Se alle dita che sfioravano leggere l’addome intrufolandosi sotto la stoffa, se fosse colpa della bocca di Byakuran che era tornata ad appropriarsi del suo collo con tocchi lenti e letali, o se la mano che abbassando la zip sembrava minacciare di permettersi presto un contatto fin troppo intimo.

Poi quella stessa mano aveva sfiorato l’intimo, e quell’eccitazione che aveva fatto imporporare le guance di Irie. Lui che, per la prima volta da quando si era stabilito fra loro quel contatto “in più”, era grato di stare dando le spalle all’altro. Quel qualcosa di vergognoso, che si era insinuato nella sua testa chissà quando e chissà perché, portandolo in un fondo dei recessi della sua mente a desiderare un contatto del genere da parte di un altro uomo – o forse solo da Byakuran, che però era un uomo – voleva nascondergliela.

Almeno quell’unica debolezza.

Se fra tutte quelle che aveva era in suo potere sceglierne una sola da non mostrare e dare in pasto all’avido desiderio di controllo sulle persone e le cose che Byakuran aveva sempre avuto, allora era proprio quella che voleva rinchiudere da qualche parte e non mostrare mai.

A nessuno. Men che meno a lui.

Perché Shoichi lo sapeva, che una debolezza in mano a Byakuran si trasformava in un’arma e nel suo caso, l’albino non aveva bisogno di un’altra freccia al suo arco.

Aveva così tanto, da poterlo obbligare a trattenere il fiato per quanto tempo avesse desiderato, rischiando persino di farlo soffocare.

E mentre quella mano andava ancora oltre, si insinuava ulteriormente nell’ultimo strato di stoffa, e sfiorava quella fragile ultima difesa che nessuno prima aveva infranto, Shoichi capì anche che non si trattava più di pagare pegno, non si trattava più di un gioco: non era il Choice, né nient’altro del genere.

Era solo l’ennesima cosa che di Byakuran lui non riusciva a capire.

Era nuovamente quel qualcosa che gli sfuggiva via, gli lasciava addosso una frustrazione che in quel momento si stava sciogliendo in mugolii imbarazzanti e gemiti leggeri, mentre le carezze si facevano veloci e il silenzio della stanza veniva rotto quasi con prepotenza.

E mentre la mano di Byakuran lasciava carezze sempre più veloci e l’altra che aveva sfiorato la pelle sotto la maglia quasi lo tratteneva addosso a lui, lasciando che la schiena di Shoichi aderisse al proprio corpo, a Irie parve di sentirlo sorridere sulla propria pelle.

Non chiese perché, lasciando che Byakuran lambisse il lobo suggendolo leggermente per sussurrare piano quanto Shoichi fosse “carino” – senza l’affetto spesso insito nella parola, ma nemmeno la palese derisione che Byakuran rivolgeva solitamente e naturalmente alle persone – in quel momento.

E non fece altro se non stringere gli occhi e voltare il viso arrossato leggermente di lato quando con un mugolio basso e rocco avvertì chiaramente la mano di Byakuran ora molto più umida di prima.

 

 

Si richiuse la porta della propria stanza alle spalle, poggiandovi contro la schiena, inspirando profondamente.

Sentiva gli indumenti inferiori appiccicaticci contro la propria pelle e il bisogno impellente di farsi un bagno, mentre il respiro era ancora velocizzato per le fitte lancinanti che avevano quasi minacciato fino ad un attimo prima di dividergli la testa a metà.

Lo sguardo basso, nella stanza in penombra, non cercava di vedere niente – tutto quello che in un attimo aveva rivisto in quei ricordi riemersi all’improvviso e con violenza era più che abbastanza.

Era così ironicamente chiaro, ora.

Quel qualcosa che lo aveva quasi fatto impazzire, continuando a scivolargli fra le mani, quella stessa cosa che era sempre stato certo di sapere in qualche modo ma che non riusciva mai a ricordare con chiarezza.

Quello che quando Byakuran-san sorrideva, non importava come, finiva sempre per fare molto, molto più male di prima.

Tanti futuri possibili in cui finiva sempre, inesorabilmente nello stesso modo.

Le labbra si incurvarono in un sorriso senza emozione: troppo mesto per essere ironico, e troppo poco esultante per poter essere soddisfazione o qualcosa di lontanamente paragonabile alla felicità.

«Dannazione.» sibilò, mordendosi appena il labbro inferiore mentre un colpo secco si abbatteva frustrato contro la porta.

Uno sbuffo.

Avrebbe dovuto essere divertito, sì.

Perché andava tutto secondo i piani, no?

«Quindi è così… che andrà a finire.»

Avrebbe dovuto essere divertito, sì.

Ma non riusciva a ridere.

   
 
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