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Autore: j3nnif3r    11/10/2010    8 recensioni
Cloud, sostanzialmente.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cloud Strife
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII
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Il verde pulsa, e gli viene in mente che non ne sapeva nulla. Gli occhi sono pesanti, e non c’è alcuna scusa per non continuare a dormire. Attende il sonno liberatorio, quello che fa dimenticare tutto, anche se da anni non arriva. Ma lui non ricorda. Le ciglia fanno fatica a schiudersi, gli occhi non vedono altro che luce, e verde.
E’, in fondo, piuttosto vicino a quel che desiderava.
Se il suo cervello fosse ancora in grado di formulare un pensiero lucido, Cloud scoppierebbe a ridere. E’ così vicino, diamine. Se l’avesse saputo, non avrebbe sprecato tutta quell’energia. Si sarebbe solo chiuso in un tubo pieno di luce.
Chiude gli occhi ancora una volta, il suo corpo è solo una percezione vaga, dolorante, come se da infinite ore si stesse svegliando.

Il rumore dell’arrivo del cibo è tremendo. La sua mente è abituata ormai soltanto al battito costante. Non sa se si tratti del suo cuore. Probabilmente lo è, perché cosa potrebbe essere altrimenti? Qualcuno forza il suo corpo a nutrirsi, e lui ingoia. Solo in quei momenti, tutto l’organismo urla. Come un coro di gioia. Il suo corpo è ancora in vita, e quel pulsare glielo ricorda. Cloud non è sicuro di essere mai stato vivo sul serio. E’ mai esistito, fuori di lì? Mentre l’uomo violenta la sua gola, mormorando parole che lui non afferra, Cloud recupera per pochi attimi la capacità di pensare.
“Dov’è... lui?” mormora un giorno, ma subito dopo la luce lo afferra di nuovo.

Quante ore sono passate?
E’ mostruoso, pensarla in termini di ore. Di minuti, secondi. In quanti pezzetti è possibile dividere il tempo? Per quanti secondi ha respirato qualcosa che non fosse luce? Dopo cinque anni, non è più sicuro che sia mai successo.
Ma oggi percepisce che dev’essere passata almeno qualche ora. Inizia a sentirsi stanco. Almeno due ore, di certo. Muove una mano, spaventato la ritrae, la stira, osserva ad occhi spalancati le dita, le unghie. I suoi occhi ingoiano quella roba viscida, che scorre fino ai polmoni, che ha reso lucida e liscia la pelle. La sua mano sembra luminosa. E’ totalmente immerso in quell’immagine, la sua mano. Aveva dimenticato di averne una. E’ possibile, dimenticarlo in due ore? E’ possibile, poi, dimenticarlo?
Forse... Forse ne sono passate tre o quattro.
Ed è allora che, per la prima volta in cinque anni, l’aria lo investe.
L’immagine della sua mano rimane incastrata fra il cervello e gli occhi. Cloud capisce che sta crollando, che le sue gambe (oh, caspiterina, abbiamo anche delle gambe! Che sorpresa!) non possono reggerlo, che l’aria è pesante.
L’odore di Zack è l’unico indizio che il suo cervello interpreta. Poi, luce.

Midgar.
Quanti sogni, in una parola? Le lingue sbattevano sui denti nel dirla. Tutte quelle lingue, e quei denti. Midgar, dicevano i bambini, e il loro sguardo si accendeva.
Rimaneva ore a fissare quella pagina dell’atlante. Accarezzava il profilo di quella città, con la punta delle dita. Midgar, diceva Cloud, sussurrandolo a se stesso.
Midgar era dove i sogni iniziavano a bruciare, a diventare reali. Lì, erano solo una candela spenta. Ma la sua lingua poteva flettersi e sbattere sulla d, il suono della voce dava sostanza a quello che sembrava un miraggio. Esisteva, quel posto pieno di luci. Era possibile, andarci. Midgar, dicevano in televisione, e Cloud abbracciava le ginocchia al petto, serio.

La luce era diventata polvere, e lui non capiva.
Confuso aveva masticato erba, aveva tossito perché respirare era incredibile, era difficile, e non ricordava come fare. Poi l’aria era entrata in lui ed aveva funzionato, soltanto, quel canto di gioia che era il suo corpo. Certo. Giusto. Serve aria, è vero. Aveva sollevato il viso, e Zack era morto.
Era un pensiero semplice, eppure non era riuscito a capirlo.

Quando Aeris era morta, ci aveva ripensato. Era stato tutto così improvviso, che pensare non aveva avuto senso. Ed ora ecco un altro cadavere. Ed era Aeris. Troppo difficile da capire. L’aria era dannatamente difficile da ingoiare. Aeris aveva delle belle mani, lo aveva sempre creduto. Una cosa stupida da pensare mentre gli altri la salutavano per l’ultima volta, una delle cose più idiote che si potessero pensare in un momento come quello. Cloud aveva abbassato gli occhi sulle sue mani. Le aveva ancora. Oh, cazzo. Era tutto difficile, era tutto confuso.

Che cosa voleva ottenere?
Gli occhi si posavano su altri bambini, vagavano fino ai loro visi, così sicuri, così stupidi.
Che cosa voleva ottenere, in fondo?

La notte, quando aveva scoperto quanto Tifa fosse morbida, quanto fosse accogliente, aveva creduto che nient’altro avesse importanza. Solo il corpo ed il respiro di una donna, ecco quanto poteva essere piccolo il suo mondo. Solo l’odore di Tifa e il suo, e il buio, e l’aria che lo nutriva.
Quando era finito, il battito accellerato era inquietante. Batteva così forte. E quella soddisfazione, quella completezza, era svanita nel nulla solo in pochi secondi. Ne voleva ancora. Ma la pelle di Tifa era tiepida e dolce, e Cloud non sapeva cosa fosse giusto. Così si era limitato a guardarla, per ore, chiedendosi se fosse sempre così.
Come avvicinarsi tanto, ma non raggiungere mai del tutto. E continuare a correre.

Zack era morto, ma lui non poteva capire. Con occhi spenti aveva impugnato la spada.
Che cosa voleva, adesso? Cosa poteva pensare?
Se la sua mente ne fosse stata capace, Cloud avrebbe riso. Se avesse saputo, se avesse potuto prevedere, avrebbe riso.
La lingua che batte sui denti, una parola familiare. L’unica cosa che gli rimane.

“Sei stanco?” gli domanda Tifa, e la sua voce è calda. Lei non sa nulla, e per qualche istante è come tornare bambini.
   
 
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