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Autore: Nat_Matryoshka    12/10/2010    5 recensioni
"La prima volta che l’aveva stretto, nudo, tra le braccia, gli era sembrato di sfiorare il tronco martoriato di un albero. La pelle sottile era tutto un intrico di cicatrici, alcune più nuove, altre meno, ma vederle sul ragazzo lo rese ancora più cosciente di quanto avesse potuto fare a tanti altri, come lui.
“Non pensarci. Dobbiamo guardare avanti, ricordi?”

[RuPruss || probabile OOC giustificato dal contesto || !linguaggio]
Genere: Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Prussia/Gilbert Beilschmidt, Russia/Ivan Braginski
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Fading to White.
Personaggi:
Ivan Braginsky (Russia), Gilbert Wellschmidt (Prussia). Accenni CanadaUkraine sullo sfondo.
Rating:
arancione.
Avvertimenti:
AU, Shonen-ai, One-shot, presenza di linguaggio colorito, OOC (?).
Disclaimer: Axis Powers Hetalia e i suoi personaggi appartengono a Hidekaz Himaruya, non a me, stesso dicasi per la canzone “Meltdown”.
Il video a cui parti della fic si ispirano è il seguente: http://www.youtube.com/watch?v=6py6OtNOE14&feature=related. Ho voluto semplicemente creare un omaggio a quello che è, a mio avviso, un MAD fantastico (l’autrice è Nico Nico), non plagiarlo, in alcun modo (anche perché il resto della storia è di mia invenzione).

Note dell’autrice:
l’ambientazione della fic è futuristica, come nel video di “Meltdown” di Rin Kagamine. Gli eventi storici, però, traggono spunto da questa frase, estrapolata dalla pagina di Wikipedia dedicata alla Prussia:
“Negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale la progressiva occupazione sovietica causò un primo drammatico esodo verso le regioni più occidentali della Germania. A guerra finita la Prussia venne divisa come spoglia di guerra tra Unione Sovietica e Polonia. La popolazione tedesca superstite venne costretta a lasciare per sempre la propria terra; centinaia di migliaia di anziani e bambini tedeschi morirono nelle marce forzate verso i nuovi confini imposti alla Germania.”

Perciò, chiunque detesti le “manipolazioni storiche” (non è il mio caso, ma ho sentito qualche anti-Hetalia dirlo davvero), nonché il linguaggio colorito e lo shonen-ai, è pregato di evitare di leggere quanto segue.

Detto questo, buona lettura!

 

 

 
Fading to White
 
 
 
The town is filled with brilliant light
the chill of anesthesic ether
2 AM, and I can't sleep
everything is changing so fast …
 
[La città è piena di luci brillanti,
il brivido dell’etere anestetico
le due del mattino, e non riesco a dormire
ogni cosa sta cambiando così velocemente …]

 

 

 

Notte. Notte ovunque, a perdita d’occhio.
Tra le strade di Kaliningrad, era notte. Tra i palazzi, i negozi, le sale-giochi rumorose e piene di ragazzi sbandati, gente che non ha voglia di tornare a casa, semplici tiratardi… nelle automobili che sfrecciano, e su, più su, in alto, tra i piani dei grattacieli e le antenne televisive, anche lì la notte domina. Quando scende, lo fa per tutti, senza alcuna distinzione.

Posso inoltrare la mia richiesta di esonero?

Ivan Braginsky, ventitré anni, era noto per le sue crisi croniche di insonnia. Quando la notte scendeva, abbassando un sipario blu sul mondo, non c’era tisana, o tecnica di respirazione, o pillola che tenesse: le palpebre gli rimanevano beatamente e implacabilmente alzate, nonostante tentasse con tutte le sue forze di rilassarsi. Rimpiangeva i bei tempi, quando era un ragazzino e crollava esausto dopo una giornata di divertimenti. Dov’era finita tutta quell’energia? Evidentemente doveva essersi distrutta, in barba alla legge della sua conservazione. Puff. Scomparsa.

Come tutto ciò che ci circonda.

Si grattò la testa, annoiato: l’ultima boccetta di sonnifero era finita, e rotolava poco distante, su un angolo del tappetino finto-persiano consunto. E, cazzo, l’accendino aveva appena esalato l’ultimo respiro, regalandogli una gocciolina malinconica di benzina e un odore ancor più malinconico di involucro vuoto e ormai inutilizzabile. Cosa poteva fare, per riempire quella nottata inutile?
Il suo sguardo si volse automaticamente verso una piccola testa bianca, affondata nel cuscino morbido poco lontano dal suo. Quell’idiota sta dormendo, alla fine …
Come accidenti poteva riuscire a dormire, con tutto quello che era successo fino a quel momento in testa?

 

The lighter's out of oil
the pit of my stomach is on fire.
If everything is such a lie
then it really would be better.
 
[Il mio accendino ha finito l’olio
la bocca del mio stomaco va a fuoco.
Se tutto quanto fosse una bugia,
potrebbe essere molto meglio.]

 

 

 

Восточная Пруссия  (Prussia Orientale), un anno prima.

“C’è un lavoretto per te, Braginsky. Sappiamo che ami cimentarti nelle imprese più difficili, e per questo il colonello Martov ha deciso di lasciarti l’incarico di sgombrare un commando di ribelli nel quartiere est”.
Erano giunti nel suo ufficio alle prime luci del mattino, incuranti del fatto che il giovane ufficiale biondo, dallo sguardo tanto dolce quanto ingannevole, aveva eletto quelle poche ore a suo momento di riflessione. Una riflessione amara perlopiù, ma necessaria: il giorno prima gli era arrivato un telegramma dalla sua sorellina Natalia, che gli annunciava di essere partita per gli Stati Uniti, e di aver ritrovato Katjusha, la loro sorella maggiore, incinta e in procinto di sposare il suo compagno. L’immagine della sua mama Katjusha, che era stata praticamente più una mamma che una sorella per lui dopo la morte della loro madre, aveva riempito la notte, tormentandolo e portandolo a covare un forte sentimento di astio nei confronti dell’uomo che aveva osato toccarla.
Era stato l’odio, a nutrirlo. Odio per la guerra, per la malattia che aveva portato via sua madre, per qualunque straniero armato gli passasse a fianco. Ma soprattutto, più forte di ogni altro sentimento, l’odio per quel sé stesso così infantile e testardo che non riusciva a liberarsi della rabbia che provava.

“Il teatro è diventato un covo di rivoltosi. Gran parte sono stati dispersi sotto la minaccia delle granate – i più cagasotto – ma qualche osso duro è rimasto. Ora come ora, mi hanno comunicato che a capo dell’ex gruppo per l’annessione di questa zona alla Germania c’è rimasto un moccioso di vent’anni, un certo Gilbert Weilschmidt. Mi hanno riferito che è figlio di un imprenditore facoltoso, ma è scappato di casa alle prime avvisaglie del servizio militare, e ora vive di espedienti.”
“E io cosa dovrei fare?” aveva chiesto Ivan, ironico, chiedendosi cosa avesse a che fare lui con quelle scaramucce tra esercito e civili.
“Semplicemente stanarlo da lì e costringerlo alla resa. Potrebbe richiedere del tempo (sappiamo che Weilschmidt possiede ancora delle armi), ma sia Martov che il maggiore ti hanno indicato come soldato attento e molto scrupoloso, quindi ci affidiamo a te. Ci dai il tuo consenso?”

Acconsentire. Era quella la parola d’ordine, che si trattasse di superiori o sottoposti. Dire di si, sottomettersi al volere altrui, ridurre la propria volontà ad un niente. Ecco cos’era diventato, da quando l’esercito l’aveva accolto tra le sue braccia.
“Al vostro servizio. Comunicatemi quando inizierà l’operazione”.

Come se gli fosse rimasta alternativa.

*****

Gilbert Weilschmidt era più magro e giovane di quanto si aspettasse. Non aveva nemmeno opposto resistenza all’ingresso del russo nella stanza, se non qualche imprecazione e un (vano) tentativo di bloccarlo con un fucile antidiluviano con cui credeva di proteggersi.

Tante storie per un ragazzino così patetico? E io che credevo che si trattasse di chissà chi!

“Sei in trappola, Weilschmidt. Ogni tuo tentativo di reagire o di attaccarci, da questo momento in poi, sarà inteso come una ribellione alle truppe dell’Unione Sovietica. Ora, di grazia, lascia quel giocattolo e vieni fuori, senza fare storie” l’aveva apostrofato Ivan, cercando di apparire più distaccato e meno turbato di quanto sembrasse. Non gli piaceva quel posto, che puzzava di morte e di miseria, né la missione che quegli smidollati dei suoi superiori gli avevano affidato… alla faccia della “missione problematica”! Lì l’unico, vero problema era la loro incapacità di organizzarsi contro qualsiasi membro della resistenza, che fossero ragazzini o veri soldati armati.
Gilbert si era fatto avanti, trascinandosi a stento su una gamba ferita. Gli occhi rosso cupo (un colore che Ivan non aveva mai visto negli occhi di un essere umano) l’avevano perforato, seguiti dalla voce dura, furibonda del prussiano.

“Non scendo a patti con un lurido porco, caro il mio russo”.

 

Nella sua carriera di soldato, Ivan aveva ricevuto migliaia di insulti, da avversari, civili, nemici… ma mai nessuno aveva osato sputargli in pieno viso con una tale espressione di dolorosa strafottenza. Si era ripulito il viso dalla saliva del ragazzo lentamente, quasi con dolcezza, per puntargli in viso i suoi occhi, di un blu violaceo così profondo da disorientare chiunque. E, lasciandosi possedere dall’insana rabbia violenta che lo aveva sempre caratterizzato, si era scagliato su di lui, afferrandolo per le braccia e bloccandolo con tutta la forza che aveva.
Da quel momento, Gilbert era finito nelle loro mani. Le voci concitate di tre uomini che erano appena entrati nella stanza e quella suadente del russo, che continuava a dialogare coi tre nella sua strana lingua, erano state le ultime parole che aveva sentito da sveglio. Poi, più nulla.

L’amara sorpresa per entrambi era arrivata la sera, quando il colonnello Martov e gli altri lo avevano avvisato che, a meno di variazioni nel piano originario, era compito suo accollarsi la custodia di Weilschmidt. Ciò significava che l’avrebbe dovuto ospitare, fargli da balia finché non fosse arrivato il momento di consegnarlo alla base, e decidere cosa ne sarebbe stato di lui. Non che a Ivan importasse particolarmente: tutto ciò che desiderava, in quel preciso momento, era di rompere una cassa intera di bottiglie di vodka sulla testa di quei tre deficienti che lo squadravano, pieni di compassione per il suo ingrato compito di baby-sitter.

 Una volta giunti a casa, quella sera, Gilbert aveva sfogato tutta la frustrazione sull’appartamento dove l’aveva portato Ivan: calci ai muri e ai mobili, urla furiose, tentativi di strappare a unghiate la carta da parati anni ’30 che ricopriva le pareti … senza contare, ovviamente, i graffi, i pugni e gli insulti lanciati all’indirizzo del suo carceriere, che rimaneva imperturbabile come un blocco di ghiaccio.

Non poteva far altro che aspettare che gli passasse.

Col passare dei giorni, però, quella tecnica sembrò non funzionare: per tutta la prima notte quel deficiente aveva fatto un gran casino, continuando a distruggere al meglio che poteva la stanza, e il mattino dopo era ancora là, accasciato tra le lenzuola rattoppate del letto, completamente esausto.
La sopportazione di Ivan Braginsky solitamente durava tre giorni, e fu così anche in quel caso. La terza mattina a partire dal suo odiato incarico, il ragazzino gli era sembrato più tranquillo, e quindi bendisposto ad accettare del cibo… fosse stato per lui, lo avrebbe tranquillamente lasciato morire di fame, ma doveva rispettare l’ordine dei suoi superiori di lasciarlo vivo e in buona salute.
Gilbert era accovacciato in un angolo, con un’espressione particolarmente corrucciata stampata in volto. Si era rifiutato di indossare gli abiti che Ivan gli aveva portato, ostinandosi a tenere addosso l’uniforme dell’esercito tedesco ormai consumata e sporca di sangue, e, ovviamente, non aveva toccato né la bottiglia d’acqua, né il pane e le aringhe che il russo aveva lasciato in un angolo a sua disposizione. Era così simile ad un cagnolino scontroso che Ivan non riuscì a trattenere un sorrisetto.

“Ehi, Weilschmidt, se desideri rimanere vivo ancora per un po’, ti conviene mangiare. In fondo conviene ad entrambi: tu puoi continuare a guardarmi in cagnesco e progettare tranquillamente come uccidermi, e io faccio bella figura coi miei superiori ed evito una punizione per averti lasciato crepare. Che ne dici?”

Il ragazzo non batté ciglio. Si limitò a fissarlo con quegli occhi rossi, inquietanti.

“Su, fai il bravo. Continuare con questa resistenza passiva non ti servirà a nulla… credi di aiutare i tuoi amichetti ribelli? Saranno sicuramente a marcire in qualche carcere in Germania, o lungo la strada per la loro nuova sistemazione. Questa città ora si chiama Kaliningrad, e rimarrà sotto il controllo della Grande Russia fino a che il mondo esisterà. Il tuo compito è di collaborare con noi, che ti piaccia o no.. e ora, avanti, vedi di mangiare qualcosa. Avrai l’onore di assaggiare del boršč preparato dal miglior cuoco dell’esercito!” concluse, in tono sornione.
Era compiaciuto di quanto sicura e gelida suonasse la sua voce. Costringere il prigioniero a cibarsi di un piatto tipico della cucina russa o morire di fame: quella si che era una tortura psicologica coi fiocchi. Non per niente, di solito il suo compito era quello di convincere i prigionieri a confessare quello che avevano da dire con le buone, piuttosto che con metodi decisamente più violenti.
Si avvicinò a Gilbert, attento a non rovesciare il piatto colmo di zuppa che portava con sé, e si sedette sulle sue gambe allungate, attento che non compisse movimenti bruschi per colpirlo. Ma non ce n’era bisogno: la stanchezza iniziava a farsi strada anche in quel ragazzino fiero, che sembrava pronto a combattere fino all’ultimo.

“Da bravo, fatti imboccare. Su che è buona…”

Gilbert Weilschmidt poteva anche essersi indebolito in quei quattro giorni di prigionia, ma la sua spavalderia e il brutto carattere che lo caratterizzavano, se possibile, si erano rafforzati. Vedersi imboccato da quell’individuo disgustoso, che credeva di avere a che fare con un tenero animaletto da compagnia, gli fece perdere il controllo. In un attimo, tirò un pugno alla scodella che il russo reggeva tra le mani, rovesciandone il contenuto sulla moquette lisa, così in fretta che il suo avversario non ebbe neppure il tempo di fermarlo. E riuscì a fare di peggio.
In un turbine di pugni e spinte, Ivan si vide all’improvviso proiettare a terra, per atterrare poco lontano, trascinato da uno sforzo disperato del prussiano. Gilbert si era sistemato a cavalcioni su di lui, tenendolo fermo con le gambe e stringendo le mani segnate dai graffi intorno al collo del suo nemico.
Scrollarselo di dosso, però, non rientrava nei progetti immediati di Ivan.

Due occhi rossi come il sangue, come il fuoco, come la morte che vedeva ovunque, che aveva seminato ovunque. Perché se anche la morte avesse un colore, chi ha detto che dovrebbe essere il nero? I quartieri distrutti, i profughi costretti a marciare, le raffiche di mitragliatrici, gli incendi, non erano solo neri: il rosso del sangue, il bianco della neve implacabile, il nero delle armi e delle divise, il viola. Il viola dei suoi occhi che traeva in inganno chiunque li guardasse, dolci come quelli di un bambino che cerca protezione, ma pieni della stessa rabbia capricciosa, dell’egoismo che un bambino viziato mostra verso chi lo trascura. Ed ora tentava di fonderlo in quei pozzi rossi, cercando nella mente di un ragazzino ribelle, furioso ed affamato la ragione per mandare avanti la sua esistenza scombinata.

 

Non sei altro che un ordine da eseguire, per me.

“Avanti, Weilschmidt, fallo. Stringi di più… uccidimi. Non è quello che vorresti?”

Nessuna risposta. L’albino deglutì appena, e il suono sembrò assordarli entrambi.

“Ti libereresti di me. Un nemico in meno, un russo in meno… diventa un eroe agli occhi dei tuoi amichetti ribelli, toglimi la vita. Dovrai pagarne le conseguenze, quando e se ti troveranno mai… ma, in fondo, avresti in mano il tuo destino. Forza…”
Allungò una mano verso il suo viso.

Quante volte aveva desiderato morire? Da quando si era ritrovato da solo, senza più amici (ammesso che ne avesse mai avuti davvero), parenti e conoscenti, la vita gli era sembrata una distesa infinita di giorni, di azioni continue e incolori. Obbediva a quanto i superiori gli chiedevano solo per evitare che una punizione incrinasse quel cristallo dove camminava, sempre freddo e immutabile. Morire, in fondo, che sarebbe stato?
Aveva fatto del male e, quel che era peggio, lo aveva fatto a cuor leggero: forse trovarsi davanti quel Gilbert era frutto di uno degli strani ed imprevedibili disegni del caso, ed incontrarlo, tenerlo in custodia ed infine essere ucciso da lui facevano parte di un progetto bizzarro, ma ben orchestrato.
Tanto valeva sbrigarsi.

Non era assolutamente preparato a quell’espressione, da parte del prigioniero.

“Non ti ucciderò. Non sono un fottuto assassino come te, Braginsky… e non intendo diventarlo. Per niente al mondo”.

Le lacrime rabbiose del ragazzo erano un altro spettacolo al quale non avrebbe mai creduto di poter assistere. Senza dire altro, si alzò, liberando Ivan dalla prigione che le sue gambe magre gli avevano fornito fino a quel momento, e lasciò la stanza, diretto chissà dove. In bagno o sul terrazzo, che importa, pensò Ivan, stordito, rialzandosi dalla sua scomoda posizione e guardandolo allontanarsi, le spalle che si muovevano sotto la giacca blu rattoppata.


I dreamed of wrapping my hands 'round your neck
On an early afternoon, overflowing with light
I dreamed, with eyes full of tears
of cinching your narrow throat.
 [Ho sognato di stringerti le braccia intorno al collo.
Nel primo pomeriggio, colmo di luce
ho sognato, con occhi pieni di lacrime
di stringere la tua gola.]

 
****

Le cose erano cambiate. Come succede spesso, senza che nessuno se ne accorga, cambiano la nostra vita in maniera profonda, ed è pressoché impossibile far tornare tutto come prima.

Così era stato anche nel loro caso.
La guerra era finita, la Prussia era stata divisa tra i due stati vicini, ma a Gilbert non importava più nulla. Sapeva che i suoi amici stavano bene, chi più e chi meno, e che era inutile raggiungerli. Ora doveva pensare solo a sé stesso.
Ivan era per lui una sorpresa continua; da quel giorno in cui aveva tentato di ucciderlo (ormai mesi prima) gli era sembrato più aperto, addirittura quasi gentile… ne aveva avuto la certezza quasi totale in un pomeriggio di pioggia, quando si erano trovati a dividere la stessa stanza per qualche ora.
Gilbert guardava fuori dalla finestra, senza vedere realmente ciò che gli passava davanti: il vento scuoteva rabbioso le fronde dei pochi alberi visibili da quel ventesimo piano e le luci, laggiù, si accendevano, una dopo l’altra. Sempre il solito spettacolo, lo stesso del giorno prima, di due settimane prima, di ogni giorno invernale che lo aveva preceduto… e sarebbe rimasto uguale, con solo alcune piccole variazioni, nelle stagioni seguenti, ne era sicuro.
Da una delle tasche della giacca aveva estratto una scatolina da sigarette di latta appena macchiata di ruggine, ma che, invece di rotoli di carta e tabacco scadente, conteneva alcune fotografie in bianco e nero. Le svolse con cura dal fazzoletto in cui le aveva avvolte e si perse nei ricordi, per la prima volta dopo tanto tempo.

I capelli di Elizavetha erano sempre meravigliosi, sia in foto che dal vivo. Il suo sorriso, però, nessuna macchina fotografica avrebbe potuto coglierlo bene quanto uno sguardo.. anche se ce la metteva tutta: il giorno del suo matrimonio era raggiante, tanto da trasmettere un po’ di quella luminosità anche al cartoncino che tentava di “catturarla”. E Roderich, al suo fianco, era uno sposo perfetto: dritto e impettito nella sua divisa militare, le cingeva amorevolmente un fianco, mostrando di tenere molto a quella piccola moglie così allegra, così dolce e premurosa anche nei confronti di quel Gilbert, l’amico d’infanzia che aveva deciso di mollare tutto e andarsene a lottare per il suo paese. Tanto ormai Elizavetha la sua scelta l’aveva fatta.
E poi c’erano i suoi familiari. Altra foto, altri momenti trascorsi con persone che non avrebbe mai più rivisto: sua madre, alta ed elegante, il padre, biondo e sorridente, Maria che gli teneva la mano come a voler rimarcare il loro rapporto di fratelli-complici, e Ludwig, che all’epoca era ancora un mocciosetto dai capelli tirati indietro e il faccino tondo, attaccato alla gonna della madre. Doveva essere stata scattata sei, sette anni prima, quando ancora la guerra non faceva parte delle loro vite.
Chissà dov’erano in quel momento. Al telegiornale di qualche giorno prima, aveva sentito una voce stranamente familiare, per scoprire un attimo dopo che si trattava di suo fratello Ludwig, in giacca e cravatta, invitato per chissà quale motivo in quello studio distante chilometri e chilometri. Istintivamente, si era avvicinato di poco allo schermo per toccare il punto in cui doveva trovarsi la testa del fratello minore, ma dei passi in corridoio gli avevano fatto ritirare la mano in fretta: era Ivan.

“Qualcuno che conosci?” gli aveva chiesto, indicando la trasmissione.
“No. Non l’ho mai visto prima d’ora”.

Maria si era sposata? Era felice, nella sua nuova casa? E sua madre? E la fabbrica?
L’idea che i suoi parenti potessero riposare tutti quanti (Lud escluso) in un cimitero imprecisato lo tormentava spesso, ma quel pensiero angosciante svaniva una volta aperta la sua finestra personale sui ricordi. Lì dentro ci sarebbero stati sempre.
Prima che potesse nascondere il suo tesoro, il suo ex-carceriere spuntò da dietro le sue spalle, osservandolo curioso. Aveva visto le fotografie…
“Sono i tuoi familiari?”

In quel frangente, mentire sarebbe stato da idioti.

“Si. I miei genitori, August e Whilelmina, la mia sorella gemella Maria e mio fratello minore Ludwig” spiegò, come se stesse facendo le presentazioni durante una cena di gala. “Non li vedo più da quando scapparono, un anno fa. Non so dove siano, a volte dubito anche che siano ancora vivi” terminò, con voce incolore.
Sulle labbra carnose del russo si aprì un piccolo sorriso enigmatico. Mi sta prendendo in giro, pensò per un attimo il ragazzo, e stava per ribattere, quando Ivan si alzò e raggiunse un mobile sbilenco nell’angolo della stanza. Dal primo cassetto estrasse una scatola tonda da biscotti, che si rivelò anche essa piena di fotografie.
“Le mie sorelle. Quella coi capelli corti è Katjusha, la maggiore, ha due anni più di me. La piccolina coi capelli lunghi è Natalia, e ne ha venti. Sono entrambe negli Stati Uniti, ogni tanto ricevo loro notizie tramite la caserma: Katjusha si è trovata un canadese che l’ha sposata, presto avranno un figlio, Natalia studia lì da un anno ormai. Mia madre” e gli porse una fotografia più vecchia delle altre “è morta quando Natalia aveva pochi mesi. Si è ammalata e nessuno ha potuto fare più nulla per lei. Mio padre ne è rimasto segnato a vita, e forse anche per questo ha deciso di tornare alle armi il prima possibile… probabilmente, tre figli non erano un motivo abbastanza valido per continuare a vivere. Fatto sta che è stata Katjusha a farci da madre, e tra poco lo diventerà veramente. Di entrambe non so che questo”.
Gilbert strinse quei due rettangolini di cartone con lo stessa attenzione, quasi religiosa, con cui aveva maneggiato le foto dei suoi cari. Di nuovo due volti di ragazza, uno più dolce, l’altro più severo. Di nuovo due persone di cui non avrebbe mai scoperto nulla, due incognite destinate a rimanere per sempre figure di carta e inchiostro.. anche Ivan doveva essere arrivato alla sua stessa conclusione: era venuto il momento di camminare con le proprie gambe, staccandosi dalle certezze che li avevano accompagnati fino a quel momento.

 

In realtà… siamo davvero simili, io e te.

Li dividevano nazionalità, condizione sociale, età, perfino l’aspetto fisico. Ma la somiglianza tra le loro vite era così forte da rappresentare un vincolo difficile da sciogliere. Non ora, che finalmente avevano trovato un appoggio l’uno nell’altro.
Quella notte, Ivan non si stupì di trovare il corpo raggomitolato dell’amico accanto a sé, in uno dei suoi consueti attacchi d’insonnia. Sorrise e, temendo di disturbarlo, si spostò verso l’altro lato del letto: l’Ivan di solo quattro mesi prima lo avrebbe scansato, forse anche frustato o comunque punito in qualche modo per la sfacciataggine di quel gesto. Erano bastati quattro mesi a cambiarlo totalmente.

****

Era passato un anno.

Muovendosi con cautela all’interno della stanza, osservò la figura addormentata di Gilbert mormorare qualcosa nel sonno. Doveva avergli attaccato l’insonnia: ci aveva messo tantissimo ad addormentarsi quella sera, nonostante fossero stati impegnati per un bel po’. Il suo corpo si era rinforzato, in quell’anno, ma era rimasto il ragazzino smilzo e scontroso che aveva conosciuto quella sera nel teatro, con una punta di dolcezza inaspettata: era sempre lui a cominciare, ma amava farsi abbracciare, anche se non per moltissimo. Aveva anche lui un orgoglio, diamine!
La prima volta che l’aveva stretto, nudo, tra le braccia, gli era sembrato di sfiorare il tronco martoriato di un albero. La pelle sottile era tutto un intrico di cicatrici, alcune più nuove, altre meno, ma vederle sul ragazzo lo rese ancora più cosciente di quanto avesse potuto fare a tanti altri, come lui.
“Non pensarci. Dobbiamo guardare avanti, ricordi?”
Solo la voce arrochita del suo amante (ancora non riusciva a credere che lo fossero diventati davvero) riusciva a scuoterlo dalle fitte di rimorso che ogni tanto lo pungevano. E lo amava, come avrebbe sempre desiderato fare, donandogli il poco che aveva, ricevendo la solitudine che Gilbert aveva da offrirgli, facendo l’amore con un corpo che, dietro le cicatrici e i graffi, era ancora pieno di vita. Convertendo in attaccamento verso un’altra persona tutto il dolore che si era portato dietro, e che aveva portato con sé da sempre.

 

Fondendosi nel bianco dei ricordi, la sua figura prendeva vita poco a poco. Il ragazzino che era, l’uomo che era diventato, le sue sorelle e la loro partenza, la guerra, Gilbert…

La matassa si districa.

Si ritrovò a immaginare quanto la vita scorresse lentamente in realtà, là sotto, in tutto il paese, nel mondo intero. Se un nemico era diventato una parte importante della sua esistenza, la guerra, ogni guerra, sarebbe potuta finire presto. O no?
Senza quasi accorgersene, posò la mano sulla testa di Gilbert, percorrendo i capelli quasi bianchi con l’accenno un po’ goffo di una carezza. Si sentiva un bambino che cercava di farsi strada nel mondo degli adulti… un bambino di ventitré anni, che ancora conservava negli occhi viola una luce capricciosa e un po’ egoista. Crescerò.

Tutti cresciamo, prima o poi.

 

Sul tavolino del salotto, una busta aperta mostrava il suo contenuto: una lettera e la fotografia di un uomo e una donna bionda, entrambi sorridenti e con un fagottino tra le braccia. La risposta, che sarebbe stata inviata presto, era già pronta: una busta gialla (che già dal colore emanava vitalità), una lettera, la fotografia di due ragazzi, così diversi da sembrare usciti dal nulla.
La città continuava la sua corsa nel gioco delle ore. L’alba sarebbe arrivata tra poco, e già qualche nottambulo si avviava a casa, qualche insonne usciva per un caffè.

Ivan Braginsky sorrise, rivolgendo lo sguardo alla grande finestra e, subito dopo, al ragazzo disteso accanto a sé. La sua lunga notte era già stata colmata; era lui a non accorgersene.

 

 

 

That sort of world, definitely  
 [Senza dubbio, quel tipo di mondo …]
 
 

Spazio dell’Autrice
 
Salve, cari lettori! Sono di nuovo tra voi, ad inquinare il fandom! XD
Questa volta, la mia vittima è stata la RuPruss, una coppia che mi sono trovata ad amare causa un video meraviglioso (quello del link), appunto la versione Hetalia di Meltdown, 
cantata da Rin Kagamine, che ho trascritto però solo in inglese.
Per ragioni di trama, sia Ivan che Gilbert potrebbero apparire leggermente OOC, spero non in modo fastidioso.
Come coppia, ispirano moltissima angst… ma per una volta tanto ho provato a dar loro un finale un po’ meno drammatico, cercando di attenermi alla direzione presa dalla storia,
anche se, magari, il loro cambiamento potrebbe risultare troppo repentino…
diciamo che il tutto ha preso una piega più rapida del previsto. Le note in cima precisano il lavoro di “rielaborazione e ricerca” che ho svolto.
Il
boršč è un piatto tipico russo, una zuppa di rape e carne.
È anche la prima volta che accenno esplicitamente a del sesso yaoi tra i protagonisti… spero di non aver prodotto una totale schifezza!
Per chi non l’avesse capito, il marito di Ucraina (Katjusha) è Matthew (Canada). Non ho resistito alla tentazione di infilarci dentro la coppia XD 
invece Maria, che poi sarebbe la versione genderbender di Gilbert, qui è diventata la sua gemella. I genitori sono tutti quanti miei OC.
Piccola dedica a TsunadeSenju, che l’ha letta mentre ancora era “in fase di scrittura” e ha tifato per la coppia col mio stesso entusiasmo.
Ti voglio tanto bene! :3
Un grande grazie anche a TsunadeHime, clod88 ed Emi_Iino per la recensione alla mia fanfiction precedente, una Angary *-*
 
Insomma, come sempre.. spero che la mia schifezzuola vi sia piaciuta! :)
Consigli, critiche e (molto eventuali) complimenti sono sempre accettatissimi.
Ino
 
 
 
 
 
 


   
 
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