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Autore: CaskaLangley    20/10/2010    14 recensioni
La favola di un gatto che rinuncia a tutto (e ottiene quasi tutto) per amore. [HeidEd]
Genere: Drammatico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alphons Heiderich, Edward Elric
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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C’era una volta un gatto, un gatto come gli altri gatti, biondo tigrato e con la coda spelacchiata, gli occhi d’oro, che con indifferenza trascorreva le giornate passeggiando e le notti fredde nei giardini, dove scavava buche e mangiava avanzi, miagolando per le femmine in calore.

In tutta la vita il gatto non aveva avuto padroni – e quant’era grato, di questo!- nessun nome a cui rispondere o campanelli al collo, e con quanta compassione volgeva lo sguardo alle finestre e agli altri gatti che vi stavano rinchiusi dietro, mentre lui saltava tra le fronde odorose degli alberi e godeva della libertà e dei misteri delle strade.

Tuttavia quella città, che un tempo gli sembrava enorme, divenne agli occhi del gatto estremamente piccola, così noiosa, che iniziò ad azzuffarsi e fare piccoli dispetti, come rovesciare i bidoni dell’immondizia o graffiare le mani ai bambini, solo per divertirsi un po’.

Il gatto era piccolo, ma agile e forte, per questo si buttava con incoscienza in ogni tipo di lotta, anche con branchi di gatti che erano molto più grandi di lui, e ben presto sul corpo ebbe ferite cicatrizzate dove il pelo non cresceva più, risultato di quelle pazzie.

Un giorno, però, il gatto si mise in un guaio di troppo, e scappando dagli inseguitori fu vittima di un uomo senza cervello, che a bordo di uno di quei mostri chiamati “macchine” lo travolse e scappò senza neanche chiedersi se fosse vivo o morto.
Era riuscito a trascinarsi fino al ciglio della strada, e sapendo di stare morendo il gatto non si sentì triste, tutt’al più seccato, come sconfitto, e con un fastidioso senso d’impotenza chiuse gli occhi.

Se ci fosse qualcosa, ad aspettarli dopo la morte, questo il gatto non lo sapeva, così nel sentire il calore intenso di un fuoco non realizzò subito di essere in una casa, davanti un camino, dov’era stato lasciato un piattino di latte.

Inizialmente il gatto era scettico, mai si era umiliato ad accettare l’aiuto di un uomo, ma vedendo che nella stanza non c’era nessuno decise di compiere un piccolo atto di fede e lappare un po’ del latte, che era tiepido e gustoso.

Il padrone di casa tornò e gli sorrise, si disse felice di trovarlo in piedi, e versando in una tazza i croccantini che gli aveva comprato raccontò, come se il gatto potesse rispondergli, d’averlo portato dal veterinario e poi tenuto lì una notte intera.

Era un ragazzo solitario, dall’aspetto mansueto, la sua tana odorava di legno e di libri, e dalle sue parole – a volte un po’ troppo difficili, perché il gatto potesse capirle – il suo istinto carpì che poteva fidarsi, anche se ancora con qualche riserva, almeno finché il dolore alla zampa non fosse passato.

Forse la brutta avventura aveva davvero irretito il gatto, perché la strada non gli mancava, e seppur in modo un po’ scontroso - perché in fondo era in imbarazzo- fu lieto di accoccolarsi davanti al fuoco accanto al ragazzo, che gli grattava il collo e lo accarezzava – solo ogni tanto, però, non era mica una gatta…!

Il ragazzo, che si chiamava Alfons, non gli diede un nome, non lo voleva legare a sé; al collo non gli aveva stretto ridicoli nastrini, e la finestra nella sua stanza era sempre aperta, così che il gatto, se avesse voluto, sarebbe potuto andar via.

Alfons usciva raramente, non invitava mai a casa nessuno, e una sera, mentre gli leggeva ad alta voce un libro, gli disse grattandolo sotto il collo: “Sai, gatto, si può dire che al momento tu sia il mio migliore amico.”

Il gatto era orgoglioso, ma non era un ingrato, e ogni giorno cresceva in lui il desiderio di sdebitarsi con Alfons, ma sapeva che non sarebbe bastato portargli tutti i topi del mondo; restava appollaiato sul davanzale, cercando una buona idea, anche se quando vedeva altri gatti randagi sentiva una fitta di malinconia.

Alfons gli disse, un giorno, che la sua zampetta sembrava guarita; il gatto si sentì triste, perché capì di doversene andare, così uscì e catturò un topo, il più grosso che avesse trovato, glielo lasciò fieramente davanti alla porta e se ne andò in fretta, a riscoprire la notte.

La libertà era frizzante, così eccitante, ma il gatto temeva ancora le macchine, e se gli sfrecciavano accanto correva a nascondersi; in quei momenti pensava ad Alfons e si disse che, soltanto per fargli un favore, sarebbe andato a trovarlo un minuto.

Ci tornò un po’ più spesso, in realtà, e per ben più di un minuto; qualcosa nel gatto cambiava forma, cresceva, finché non diventò troppo grande per stare dentro al suo cuore piccino.

Un mattino si mise davanti alla scuola di Alfons, scaldandosi sotto il sole e al pensiero di come sarebbe stato contento, ma quando lui uscì gli sembrò di cadere in un buco; parlava con una ragazza che aveva lunghi capelli dorati, ridevano insieme, e quando lui si lasciò prendere a braccetto il gatto andò via mogio mogio senza farsi vedere.

“Se fossi un essere umano, allora potrei ringraziarlo davvero” pensava, aggirandosi sporco tra i vicoli, ma era un gattaccio spelacchiato, per niente carino, e nemmeno con un fiocchetto al collo sarebbe cambiato; il gatto pregava, senza saperlo, e drizzò le orecchie soltanto quando sentì sibilare un richiamo.

C’era una zingara lercia, nel vicolo, piena di veli e di croste, si rivolse a lui come fosse un ragazzo e gli disse “per una moneta, realizzerò per un giorno il tuo desiderio”; il gatto non sapeva cosa fossero, queste monete, così soffiò sulla difensiva, e l’anziana donna sorrise coi suoi denti marci: “Nel tuo caso, bel gattino, non ti chiedo tanto: solo la tua coda.”

Il gatto si trovò in un mondo doloroso, ogni sua terminazione urlava disperata, ma quando vide se stesso riflesso in una vetrina si sentì al settimo cielo: sui suoi occhi d’oro c’erano ciglia da sbattere, aveva capelli lunghi e labbra per sorridere; faticò ad alzarsi, poiché ogni sua cellula lo rifiutava, ma appena fu in piedi ridacchiò felice e incespicò fino casa di Alfons.

Quel secondo incontro, in verità, fu burrascoso, perché il gatto non aveva idea di non poter entrare dalla solita finestra, né pensò che gli servissero vestiti; Alfons provò a scacciarlo, gli urlò contro, ma alla fine, quando lo guardò negli occhi, vide anche la ferita sulla schiena –lì dove c’era la coda- e seppur con qualche dubbio gli diede degli abiti e lo medicò.

Alfons era molto più alto di lui, le sue spalle più larghe – il suo tocco gli diede la scossa, una sensazione di fame, un piacere più intenso di qualsiasi altro per cui avesse fatto le fusa.

Il gatto s’accorse subito di non saper parlare, le parole rimbalzavano confuse dentro la sua mente, così Alfons gli chiese se sapesse almeno scrivere, o se conoscesse i segni, ma lui non sapeva neanche che volesse dire; al ristorante una madre chiamò il figlio “Edward”, così quando Alfons gli chiese “Tu come ti chiami?” lui indicò in fretta il bambino, e si riempì di gioia nel vederlo sorridere.

Camminarono a lungo, quel giorno, finché non nacquero le prime stelle; Alfons gli fece tante domande, osservando con calma i suoi gesti, e quando il gatto riuscì a ripetere una parola lui gli donò un sorriso più bello del primo, più bello di qualsiasi altro sorriso, e il gatto, che ora si chiamava Edward, desiderò di parlare ancora e ancora, parlare finché la sua voce non fosse scomparsa, ma anche così pensava che non avrebbe potuto spiegargli ciò che provava.

Quando fu di nuovo sulle quattro zampe il gatto non volle nemmeno muoversi, restava in un angolo angosciato, celato da vecchie scatole, e quando all’imbrunire la zingara ricomparve avvolta nel suo drappo nero e gli chiese una zampa, lui non esitò a dargliela.

Strappò un filo d’erba e lo mise in bocca, così Alfon glielo tolse ridendo e poi disse: “Forse sei come una principessa, il bacio del vero amore ti ridarà la parola”; Edward non aveva idea di che cosa fossero i baci e le principesse, ma se quello che accadde dopo era grazie a loro, allora adorava sia i baci che le principesse.

La gioia di quel pomeriggio sfumò nella notte; perché devo tornare un gatto –si chiedeva- ogni volta è più difficile!, così, anche se il moncherino della zampa gli doleva, si mosse sulle altre tre e trovò la zingara, alla quale offrì l’orecchio in cambio di altre ventiquattro ore.

Alfons gli mostrò come scrivere, gli lesse un sacco di storie, e quando Edward riuscì a dire “bacio” lo disse spessissimo, insieme ad altre parole; la strada non era più il suo posto,

Alfons lo era, e non gli importò di farsi tagliare ancora un orecchio, e i baffi, e un’altra zampa, e nemmeno di farsi cavare gli occhi, perché quando diceva “bacio” Alfons era tutto suo, non doveva dividerlo con nessun altro, e quello che non stava nel suo corpicino piccolo s’ingigantiva e andava per il mondo.

Soltanto una cosa rimpiangeva, non essere interamente avvolto nel suo abbraccio, non sentirsi più minuscolo contro il suo petto; come Edward non poteva più accucciarsi sopra la sua pancia, né sfregarsi tra le sue caviglie, aveva solo un desiderio che cresceva – le sue braccia, e ogni cosa di lui, ci pensava sempre ma restava immobile, temendo di farlo ridere.

Un dì li sorprese la pioggia, Edward scuoteva la testa perché l’acqua uscisse dalle sue orecchie, e Alfons gli disse che somigliava a un gattino; gli asciugò i capelli, come gli aveva asciugato il pelo, e sentendosi invaso d’amore Edward fece l’unica cosa che sapesse fare, strofinò il muso contro il suo collo e poi lo leccò dolcemente.

Forse era stato uno sciocco, si vergognava ad alzare lo sguardo, ma Alfons gli accarezzò la schiena, e quando con un filo di voce gli chiese “vuoi fare l’amore con me?” Edward non volle sapere niente; rispose di sì, e si diedero i baci più lunghi, più caldi, più belli.

Si graffiarono, e morsero, e coccolarono, si fecero male e si accarezzarono, si rotolarono come sull’erba ed Edward provò il più grande dolore, il più grande piacere, pianse alla rivelazione che esistesse tanta gioia, alla rivelazione di tanta bellezza, pianse per la perfezione del lato animale di Alfons che giocava felice con il lato umano di Edward.

Rimasero allacciati come un fiocco, Alfons lo accarezzava e gli parlava, asciugava le sue lacrime che non capiva, disse che lo amava tanto, tanto, ed Edward sorrise e s’indicò il petto, dove batteva il cuore: “Anch’io”.

Si avvicinò il più possibile, timidamente gli leccò il mento, ma visto che niente accadeva gli domandò: “Ancora…?” ; Alfons scoppiò a ridere e rispose certo, tesoro, tutte le volte che vuoi, però aspetta un attimo, ed Edward non sapeva che cosa dovesse aspettare, forse era una cosa così bella che non si poteva farla sempre, ma Alfons lo baciò con amore per tutto il tempo, e quindi l’attesa fu molto piacevole.

“Mi sembra di conoscerti da sempre” disse Alfons passandogli le dita tra i capelli, mentre fuori continuava a piovere e loro erano infagottati sotto le coperte “Sei un furbetto, tu, come il mio gatto; quando inizierai a parlare mi darai filo da torcere, lo so.”

Il suo amore s’addormento ed Edward doveva andarsene, lo sapeva, ma ricordava le notti in cui s’era appisolato sotto la sua mano, davanti al camino, e in preda alla nostalgia, alla felicità che ottenebrava anche l’istinto, si rannicchiò contro la sua schiena e dormì tranquillo.

Fu un trauma, per Alfons, svegliarsi accanto al gatto mutilato e sfigurato, che tranquillo sonnecchiava in un ristagno del suo sangue; lo portò a farlo medicare e gli chiese chi gli avesse fatto quello, coccolandolo malgrado quel suo orrendo aspetto, e il gatto, a cui restava una zampa soltanto, si chiese se in fondo non andasse bene così, se non potesse vivere tra le sue braccia, nel ricordo dei baci che si erano dati.

Andò avanti per qualche giorno, il gatto non riusciva quasi ad alzare la testa, non avendo orecchie né vibrisse, e senza gli occhi ormai era cieco, ma lo stesso percepiva la malinconia di Alfons, la sua dolcezza quando gli parlava del suo amore silenzioso con una risata come mille campanelli; il suo amore era lì, ma era troppo lontano.

“Ti è rimasta solo una zampa” gli disse la zingara, dopo che il gatto si fu trascinato nella neve a cercarla, “Dopo di quella non vorrò più niente, neanche la tua vita, e sarai solo carne inerme, un gatto che non può più correre o saltare” , ma non gli importava, perché non sarebbe stato più un ragazzo, non avrebbe più baciato Alfons, né preso la sua mano, o sfregato il naso contro il suo, e quindi che gli importava di correre, o di saltare, poteva pure morire, ma non senza dirgli addio.

Fu così facile lasciarsi stringere dalle sue braccia, dimenticarsi che questo non era possibile, che il tempo stava scadendo, fu persino facile dirgli “facciamo l’amore” e fu ancora più facile sentirlo ridere, sentirgli dire “sei strano” sentirgli dire “ti amo” sentirgli dire “mi sei mancato” e “andiamo a casa”.

“L’avevo detto, sei come il mio gatto, nemmeno lui si decide a restare, anche se fuori non si fa altro che male” intrecciò le dita alle sue, baciandole dolcemente una a una “Però mi va bene, l’importante è che tu mi prometta di tornare.”

“Prometto” rispose Edward (perché anche i gatti sapevano delle promesse, solo che non ne facevano) e si sentì lui, si sentì la sua anima in braccio -un’anima fragile da coccolare- e voleva accudirla, dargli la sua, annodarle insieme prima che quella di Edward andasse in un corpo dove Alfons non l’avrebbe trovata.

C’era ancora una parola, lì sospesa, ed Edward aveva il terrore di non riuscire a dirla, perché se l’avesse fatto il tempo avrebbe cominciato a scorrere veloce; rimase abbracciato stretto a lui, dicendosi che almeno il suo odore l’avrebbe sempre sentito.

Alfons vide che era turbato, così prese il fiore che gli aveva colto e glielo girò attorno al dito, ridacchiando quando un petalo gli andò nel naso.

Alfons si addormentò ed Edward prese il libro con le lettere, quello che lui gli aveva regalato, e con enorme sforzo scrisse: “Ti amo. Ti penso sempre, e quando ti vedo mi sento felice. Ho dato tutto per te e lo rifarei. Grazie per aver fatto l’amore con me. Voglio farlo sempre, però non si può, devo andare. Grazie. Ti amo tanto tanto tanto.”

Sapeva che le sue lettere erano brutte, voleva riscriverle, ma lo sforzo era stato tale che chiuse gli occhi, credendo un pochino dentro di sé che qualcosa sarebbe successo, sarebbe rimasto lì, nel corpo che Alfons poteva amare, e con questo dolce pensiero si addormentò sul suo petto.

Sognò, quella notte, per la prima volta, sognò gli occhi azzurri di Alfons e di fare l’amore con lui, lo fecero sopra i tetti, sugli alberi, nei prati e sulla sabbia, sotto l’arcobaleno, poi

Edward tornò un gatto, e svelto su tutte le sue quattro zampe gli mostrò il mondo, incartato nel cielo.

Quandò aprì gli occhi il gatto non vide più niente, non si mosse più; sentiva solo le lacrime calde di Alfons, il suo odore, le mani che aveva stretto, e pensò che sì, si era fatto uccidere, ma aveva avuto tantissimi baci, un fiore e un bel libro, e non gli importava, né di vedere, né di camminare, non gli importava.

“Non puoi più andare da nessuna parte, non è così? Se ti va bene io sono solo, puoi restare qui. Posso darti un nome? Ti chiamerò Edward.” Ed Edward, muovendosi appena, miagolò.

Gli anni passarono, e siccome il gatto era cieco non vide Alfons invecchiare, né vide i ragazzi e le ragazze che baciava; visse in un lungo sogno, in cui lui gli accarezzava i capelli biondi e legava bei fiori attorno alle sue dita.

Ma accadde in un lungo inverno che Alfons – ormai vecchio e vicino alla morte- si ritrovasse a pensare sempre più spesso all’amore che in gioventù aveva perso e mai dimenticato; un giorno, mentre infreddolito passeggiava sulle sue ginocchia stanche, dall’ombra di un vicolo innevato una zingara gli offrì di realizzare il suo più grande desiderio in cambio di un dito.

Anche il gatto era vecchissimo, ormai, mangiava appena e stava immobile sul materasso, ma quando sentì l’odore di Alfons mosse un po’ le vibrisse, che erano ricresciute; subito un grande calore lo avvolse, e un altro gatto -dal pelo folto e chiarissimo, con gli occhi azzurri- prese a leccarlo con una dolcezza che subito riconobbe.

Non potevano parlarsi, ma dopo una vita insieme non serviva, e giacché Alfons non aveva dato un dito, bensì tutto il corpo, vissero i loro ultimi giorni felici e contenti a sfregarsi i musi, come i gatti domestici uno dell’altro.

 

*

Note incoerenti dell'autrice
No, ok, dovete sapere delle cose, su questa storia xDDD
Prima, le banalità: era da quando ho scritto Raperonzolo che volevo ritentare con la favola, anche se, mh, è una favola mia, quindi non vi stupirò dicendovi che si è effettivamente sviluppata dall'idea delle mutilazioni del gatto. Ma vabbé. Anche questa volta sono partita dalle 50 frasi, ma solo perché volevo provare una cosa, non per winnare la sfida (che comunque è sempre figa), infatti le frasi non sono cinquanta ma leggermente di più (52? 53?). Beh, anche chissene.
Le cose più interessanti sono due. La prima, è che l'ho scritta per colpa del tutto involontaria di Mika xD perché un giorno le stavo spiegando che in uno dei film di Sailor Moon c'è palesemente Heiderich (in quello della Principessa Neve di Luna, ve lo ricordate? Era il più bello ;w; ), e mi sono giustamente messa a sostenere la legittimità di un AU in cui Ed è un gatto che s'innamora di lui, anche perché, e che diavolo, un po' di angst gli ci vuole anche a lui, nella coppia, che è, nato a palazzo reale e_e?
La seconda cosa, che se mi permettete è la chicca XD riguarda il finale. Generalmente, mi frega davvero poco dei miei personaggi.
...no, ok, l'ho detta male xD
Diciamo che non ho una concezione distinta di quello che è brutto o bello o positivo o negativo. Vedo sempre una sorta di bellezza negli eventi, anche nei più meschini, quindi francamente ho sempre visto le mie come storie a lieto fine, per il semplice fatto che cerco di fare dei bei finali...XD" Beh, insomma, ho problemi, si sà. Andiamo avanti.
Insomma, sta storia finiva molto peggio di così. Poi ho chiuso il portatile e mi sono sentita malissimo XD" Non mi succede mai, e se mi succede faccio lo stesso questa faccia: \0/ Però, però...beh, però niente, non mi convinceva. Non sono convinta che un finale più sia tragico più sia bello, così (grazie anche a Mika che mi ha insultata come un cane :D*) ho immediatamente deciso di aggiungere qualcosa al finale. Ci tengo, però (ho una mia integrità u_u) a dirvi che se l'ho fatto è perché ho sentito che quello non era il finale, ma questo. Se avessi sentito che un altro era il finale giusto, probabilmente non mi sarei neanche sentita male. Quindi, insomma, ho dato un'altra possibilità ai micini, e mi piace pensare che si stiano spucciando da qualche parte, consapevoli di aver mancato per un pelo che la loro autrice commettesse un'ingiustizia, oltre che uno sbaglio narrativo xD
Spero che vi sia piaciuta :*


[edit]
Sto facendo un meme bellissimo su livejournal *-* Potete chiedermi drabbles o flashfics su pairings di vari fandom, anche su cui non ho mai scritto. L'unica cosa è che bisogna ricambiare...u_u xD O, almeno, darò la precedenza a chi può ricambiare. C'è ancora uno slot libero, accorrete è_é/

  
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