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Autore: Mikaeru    21/10/2010    5 recensioni
Riuscì a prendere sonno solo domenica mattina, alle quattro, quando era sicuro che Ed sarebbe arrivato da lì a poco, si sarebbe messo sotto le coperte, piano piano per non svegliarlo, e lo avrebbe abbracciato stretto, riscaldandolo. Riuscì a dormire, però, solo un paio d’ore; non c’era verso di prendere sonno di nuovo, lo realizzò pienamente appena aprì gli occhi, irritato. Decise di alzarsi e preparare il caffè per sé e, verso le otto e mezza, preparare quello per Ed. Adorava le vacanze remunerate.
Quando gli aprì la porta, alle otto e tre quarti, Edward doveva aver pianto moltissimo. È bagnato come un pulcino.
“Dobbiamo” singhiozzò “dobbiamo parlare, Alfons.”
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alphons Heiderich, Edward Elric
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Gli scatoloni sono ammucchiati sotto il letto, dietro l’armadio non ancora costruito. Non è neppure sdraiato su un vero letto, ma è solo un materasso appoggiato sulla rete. Non c’è il lenzuolo, non c’è il cuscino – non cerca un sonno ristoratore, comodo, cerca solo di cadere addormentato, di svenire. È solo pomeriggio e non ha la forza di arrivare neppure alle nove di sera. Sta fissando il soffitto che è di un bianco irreale, talmente forte da accecarlo; si costringe a non distogliere lo sguardo, vuole le palpebre piene di luce bianca fastidiosissima. Gli scatoloni sono ancora avvolti nello scotch; chissà, magari se rimane tutto fermo e tutto congelato, anche il tempo lo farà, e non sarà mai successo niente. La verità è lì, dentro il cartone, pronta ad uscire appena si apre; si comporterà come una Pandora molto più assennata, lascerà il coperchio dov’è.
È tornato il mal di testa; gli scappa da ridere, ormai è l’unico punto fermo e costante delle sue giornate. Sospira sdraiandosi e sente per la prima volta il vuoto vero attirarlo verso di sé.

Ed aveva un vizio che lui odiava profondamente; spingergli la testa durante un pompino. Non lo sopportava, glielo ripeteva sempre, gli chiedeva di stringerli semplicemente i capelli, se proprio doveva, ma lui continuava. Alfons si era limitato ad imparare a sbuffare, quando lo faceva. Ogni volta si giustificava semplicemente dicendo che gli piaceva tanto, e sorrideva – lo faceva apposta, lo faceva con cognizione di causa, perché sapeva benissimo che Alfons era debolissimo ai suoi sorrisi.
Mentre cucinava in ritardo, un pomeriggio di un grigio che entrava nelle ossa, Heiderich lo prese per la vita, gli mordicchiò il collo e lo buttò sul loro letto.
“Aspetta, cosa—”
“Dici sempre che sono prevedibile e noioso.”
Leccò e succhiò l’incavo della spalla, tratteggiò il profilo delle clavicole quando gli tolse del tutto la maglietta, gli slacciò i pantaloni con la sua solita imbranataggine che gli impediva di riuscirci immediatamente; Ed lo aiutò, e ad Alfons sembrò strano perché non lo faceva mai, preferiva godersi la sua umiliazione mentre lo stuzzicava.
Con le sue cosce vicino alle orecchie, dove sentiva il sangue scorrere veloce, si mise ad adorare il suo corpo baciandolo in ogni punto, ogni centimetro che diventava sempre più bollente; baciò le pieghe della fronte corrucciata e si insinuò tra i denti che mordevano le labbra. Pomo d’Adamo, petto, pancia, ombelico – il percorso e la tortura fino al membro caldo, al respiro rotto. Lo baciò e lo leccò piano, quando lo prese in bocca Edward ebbe una scossa elettrica. Alfons aspettò la mano per interi minuti, ma tutto quello che gli arrivò fu un “Heide, amore, sento odore di bruciato…”

Anche quando stai male fai di tutto per evitare di concepirlo. Il dolore se ne sta lì, in agguato, pronto a colpire. Ma se lui non si fosse mai voltato, se fosse riuscito ad evitare per sempre di guardarlo negli occhi, non sarebbe successo niente. Gli ignoranti stanno bene, gli ignoranti sono felici perché non fanno mai la fatica di guardarsi dentro e intorno, ma fissano solo davanti a sé, senza neppure focalizzare un punto preciso, ma semplicemente andando avanti con la testa alta. Peccato che lui fosse tutto fuorché stupido.
Ha un improvviso bisogno di respirare. Apre la finestra, guarda giù e non vede più Pret, non è più in Ludgate Hill, niente più St. Paul all’ora di pranzo, niente più ufficio a trenta secondi da casa, niente più fughe in camera da letto mentre nessuno guarda. Da Great Ormond sono ventiquattro minuti a piedi, secondo Google Maps, oppure deve camminare fino a Chancery Lane, prendere la metro ed arrivare alla fermata di St. Paul. In questo modo ha finalmente modo di usare a dovere l’Ipod che gli ha regalato Ed lo scorso Natale – sono già passati nove mesi? Si sta avvicinando il prossimo, sarà una buona occasione per passarlo in famiglia, forse è ancora divertente come quando era bambino. L’Ipod ce l’ha in tasca; lo tira fuori, è praticamente nuovo, difatti non ha ancora un nome ed è strano, Ed adora dare nomi agli oggetti, ma forse solo a quelli che usa, ecco perché non gli ha ancora dato un nome, lui li da anche agli oggetti degli altri perché è un cretino. È nuovo perché non gli piace ascoltare la musica mentre cammina, preferisce sentire la voce di Ed e quelle degli inglesi, degli americani, degli italiani e dei francesi, dei tedeschi, dei russi; gli piace sentire i diversi accenti, i diversi tentativi di parlare un inglese impeccabile con una forzata imitazione dell’accento britannico, gli piace sentire le felicità e i dolori in ogni lingua che, per quanto non comprenda, riesce ad interpretare dal tono, da una particolare cadenza su alcune parole. Sa come dire sono felice e voglio morire in sette lingue diverse e sa imitare anche i diversi accenti. Non ha mai avuto bisogno di isolarsi dal mondo; quando usciva c’era Ed e, anche se non parlavano di niente, gli bastava stringergli la mano e ascoltare il proprio amore fluire verso di lui, e se non c’era Ed aveva comunque qualcuno di fianco; non gli piace uscire da solo, gli piace essere immerso nei suoni e nei rumori e tutto quello che compone quell’enorme melodia vitale che ama – non gli piace la solitudine.

“Tesoro, mi fai caldo.”
“Non fa caldo, è inverno.”
“In questa casa c’è caldo, e tu me ne fai ancora di più.”
“Sì, lo so, ma ho bisogno di affetto…”
Ed cercava di leggere il giornale, ma Alfons non sembrava volerglielo lasciar fare. Lo stringeva per la vita, con la testa sulla schiena. Curvo com’era, le costole premevano contro la pelle, invitando Al a baciarle. Adorava il fatto che Ed non si mettesse mai la maglietta, quando girava per casa.
“Perché? Cos’è successo oggi?”
“Niente di che, non posso voler dell’affetto dal mio uomo che mi ignora preferendo i morti in Afghanistan?”
“Ehi, guarda che è una cosa importante!”
“Anche Alfons che vuole affetto è una cosa importante.”
Gli mise il broncio, staccandosi. Si girò e incrociò le braccia al petto, sbuffando sonoramente. Edward sbuffò a sua volta, buttò il giornale in un angolo del salotto, poi tirò il braccio al suo ragazzo, obbligandolo a sdraiarsi sopra di lui.
“Sai che sei un grossissimo rompipalle?”
“Sì, quindi?”
Pausa, sospiro. “Quindi cazzi miei che sto con te, immagino.”
“Ma che bravo.”

Cerca il Sole, ma il cielo è il solito luogo comune grigio piombo. Non vorrebbe piangere, ma sono giorni che ha impressione che la sua volontà non conti nulla.

 

“Non hai venticinque pound da sprecare.”
“Non siamo neppure cristiani, s’è per questo, ma ti piace tanto e ora ci andiamo.”
“Al, dobbiamo tornare al lavoro tra mezz’ora, come facciamo?”
“Chi ha posseduto questo corpo? Sei lo stesso Edward Elric con cui vivo?”
“Certo che sono io, e io come te ho già preso troppi richiami per il ritardo.”
“Aah, ci manca mezz’ora, ce la facciamo benissimo!”
Lo prese per mano e lo trascinò mentre Ed s’ingozzava con il suo panino, buttandolo giù a bocconi enormi. “Al, Alfons, non correre!”
A giugno c’era ancora fresco e quel fresco gli graffiava le guance e lui amava terribilmente quella sensazione, amava schivare folle di turisti che non riuscivano a dire mezza parola d’inglese e al contempo mischiarsi fra loro, sentirsi scusato a correre come un matto in una città enorme come Londra perché lui mica ci abitava lì, era solo un turista tedesco, così avrebbero pensato i suoi concittadini.
Pagò i biglietti per entrambi, entrarono con il fiatone, sempre mano nella mano. Nonostante la reticenza iniziale, Edward si comportò come sempre. Al adorava la sua espressione quando entrava nelle chiese; non credeva in nulla se non in se stesso, l’arte in generale non gli piaceva per nulla, ma gli edifici così grandi, solenni, immensi gli facevano risplendere gli occhi.
Alfons si aggrappava disperatamente a quelle scintille.
“Al, Al” pigolava come un cucciolo bisognoso, tirandogli la manica della maglietta, “guarda, guardati attorno! Guarda che bello, è splendida…”
Ripeteva le stesse cose ogni volta, come i bambini che riguardavano sempre la stessa videocassetta trovando ogni volta un particolare nuovo ed eccitante. “Non ti… non ti riempie la sensazione di essere… sì, di essere un minuscolo punto nell’universo?”
“Anche se fosse, non è una bella cosa, Ed.”
“Come no? Se siamo così piccoli e insignificanti, anche se esiste un Dio, lassù, mica ci vede, siamo troppo piccoli, così possiamo fare tutto quello che vogliamo!”
Gli si inginocchiò davanti, gli baciò la fede – un anello di plastica blu da mezzo pound, sottile e stupido – e gli promise un matrimonio e amore eterno, andando a finire dentro la micro SD del cellulare giapponese di turisti più furbi del solito e fuori dalla chiesa a pedate.
“Eri serio o eri ubriaco?”
“Aah, sono ubriaco di amore per te, mio meraviglioso Al!”
“Non mi conquisti mica con queste banalità, scemo.”
“Ma ti conquisto in altro modo.”
Lo strinse per la vita e si misero a ballare sul sagrato della chiesa e, dopo avergli fatto fare il casché, raccolsero per terra trenta pound e qualche spicciolo e si inchinarono davanti alla folla, salutandoli come la regina Elisabetta.

 

Si è abituato a dormire con il corpo caldissimo di Edward vicino. Ogni parte di Ed è sempre calda, a volte quasi ustionante. Non ha dormito per nulla, fa troppo freddo – anche con le coperte che per forza di cose ha dovuto prendere dal borsone e la finestra chiusa. Ha creduto più volte di riuscire ad addormentarsi, ha chiuso gli occhi dieci volte e tutte e dieci le volte ha immaginato di stringere Ed e di lasciarsi scivolare addosso il suo tepore da cucciolo di cane. Qualche notte, per rilassarsi, gli grattava le orecchie e quello rideva, abbaiando piano. Quando iniziava a fare le fusa, salendogli sopra e leccandogli il naso, Alfons gli chiedeva che strana mutazione genetica fosse.
Non ha voglia di alzarsi, non ha voglia di uscire nel mondo ed affrontarlo da solo. È troppo presto, se lo dice da solo, vorrebbe potersi abbracciare e assicurarsi che è del tutto giustificato. Si annaffia abbondantemente con le scuse più banali. Non ha assolutamente voglia. Le vedove in lutto in periodo vittoriano si vestivano di nero per due anni e la stessa regina Vittoria si è vestita di nero per quarant’anni. Se salterà il lavoro per un giorno non succederà niente. Quando chiama per fingersi malato dall’altra parte del telefono ci credono davvero; con la voce rauca che ha il suo capo si preoccupa sempre per lui. “Stai a letto e copriti bene, capito? Stai a casa anche due, tre giorni, torna quando starai perfettamente bene, e stasera dimmi come va, capito?” “Sì, Adrianne, ti mando un messaggio stasera…”. Quando chiude si sente vagamente in colpa, ma mette la vocina a tacere.
Da una parte si ripete che non è il primo e non sarà l’ultimo che viene mollato dal proprio ragazzo, dall’altra ha la presunzione di credere che nessuno mai potrà stare male come sta lui in questo momento. Butta giù bugie come caramelle di zucchero colorato.
Vorrebbe farsi un caffè,ma questo significherebbe aprire le scatole. Potrebbe andarlo a comprare, ma questo  significherebbe uscire di casa.
Si lascia cadere sulle coperte sfatte a peso morto, e quando il suo cellulare squilla gli sembra siano passati venti secondi e nello stesso momento gli sembra di aver dormito una vita. Quando controlla l’ora sull’orologio da polso, sono effettivamente passati due minuti. “Pronto?”
“Pronto, Al? Ma hai attaccato la febbre anche a Ed?”
“Cosa?”
“Mi ha mandato un messaggio, oggi non viene e ha scritto che non ha neppure la voce per parlare, vi siete ammalati assieme, eh?”
“Sì, okay, ora devo andare.”

Fanculo a Google Maps, lui ci ha messo un quarto d’ora ad arrivare a casa  - rischiando anche di fratturarsi l’osso del collo un paio di volte, ma questo non è importante. Fa cadere le chiavi per terra perché le mani gli tremano; sta davvero così male, Edward?

“Amore, ti ho detto che sto bene…”
“Cazzate!”
“Ma mi fa schifo il brodino…”
“Non mi sembri in condizione di fare i capricci.”
“Ma poi perché me lo fai bere al mattino?”
“È un vecchio rimedio della nonna.”
“Tua nonna era una dottoressa, non aveva tempo di progettare vecchi rimedi della nonna…”
“Stai zitto e bevi.”
“Ma sto bene ti dico…”
“Con il febbrone da cavallo che ti ritrovi stai bene? No. Ora stai buono e apri la bocca.”
Si ritrovò costretto ad ubbidire quando Al lo minacciò di versarglielo addosso. Si fece imboccare come un bambino senza smettere mai di brontolare, il che lo qualificava come  vecchio. “Sei un vecchio moccioso, non sai mai stare da una parte sola della linea, eh?”
I capelli di Edward erano ovunque tranne che al loro posto, spettinati come Alfons non aveva mai visto. Questo si sentiva osservato dal suo ragazzo che cercava di guardarlo il peggio possibile ma non gli riusciva assolutamente, un po’ per la sua incapacità cronica di poter guardare male, seriamente, Heide, un po’ perché la malattia lo rincoglioniva a livelli non umani.
“Vai a lavorare, dai, so badare a me stesso, cosa credi…”, riuscì a dire nonostante la tosse mentre il suo ragazzo si alzava per portare il piatto in cucina, nel lavello.
“Ho già chiamato, per un giorno di vacanza che mi prendo nessuno dirà niente.”
Edward sospirò, alzando gli occhi al cielo. Sbuffò, anche.
“Che c’è amore?”
“No, niente…”
Alfons si sedette accanto a lui, sul letto, e gli baciò piano la fronte. “Dai, cosa c’è? Stai scomodo? Vuoi che ti prenda altri cuscini?”
“No, no, sto bene…”, ma sospirò di nuovo.
Gli accarezzò piano la guancia, “Ed, tesoro, cosa c’è?”, ma lui gliela fece togliere in malo modo.
“Al, non ho niente, non soffocarmi.”
Alfons deglutì ma gli sorrise. “Sì, scusa. Vado a comprarti le medicine, torno subito”, gli disse troppo allegro, baciandogli la fronte. Non lo vide girarsi e rannicchiarsi.

Quando entra in casa, sa bene che le grida e i bisbigli sono incastrati negli angoli polverosi, pronti e scattanti per esplodere, ma non lo fanno mai. In casa non c’è mezzo sospiro, sembra quasi disabitata. Se non avesse abitato così tanto in quella casa, direbbe che il disordine (tipico di Edward) sia il chiaro segno di un furto, o di un appartamento abbandonato a se stesso.
Si fa prendere da una nuova ondata d’ansia e cerca i suoi capelli, i suoi occhi liquidi di febbre e mezzo morto per l’emicrania, e invece lo trova a giocare alla Playstation in camera.
“Mi avevano detto che avevi la febbre.”
Ed lancia un urlo e si volta di scatto, cadendo dalla sedia. “Dio mio Cristo, annunciati la prossima volta!!”
Heiderich si sente ferito per l’ennesima volta nel vederlo così allegro. Come fa ad avere la forza di giocare, di fare così? La loro storia è contata così poco da essere già in grado di riprendere una vita normale dopo solo un giorno che lui se n’è andato?

“Sono io che me ne vado, no?”
Pioveva, e se lui fosse stato il regista di qualche film strappalacrime sarebbe uscito per trovare la location perfetta per la scena in cui il belloccio di turno ritrova finalmente la sua amata; peccato che per lui non fosse altro che fottutissima pioggia di merda utile solo a dargli fastidio.
Chiuse la cerniera della valigia; era stato facile, non si stava trasferendo del tutto. Il borsone era fuori dallo sgabuzzino, lo avevano usato per l’ultima gita fuori porta e non l’avevano più messo via; ma con quello in mano gli sembrava di essere stato cacciato fuori casa, invece con la valigia dietro gli sarebbe sembrato tutto più breve, più transitorio.
Non se ne stava andando davvero, cazzo…
“Dio, Al, non farmelo dire, questa casa era di mia madre, lo sai…”
“Sì, scusa, sono sempre sbagliato.”
“Non cominciare.”
Edward sbuffò, grattandosi dietro la nuca. Nessuno dei due riusciva a guardare l’altro negli occhi.
“Senti, non c’è bisogno che te ne vai subito, ti aiuto a trovare un appartamento e… e poi intanto c’è il divano, se vuoi…”
Gli esplose un nervo.
“Il divano?! Senti, piuttosto che stare sul divano, cazzo, me ne vado a dormire sotto un ponte! Ce l’ho anche io qualche amico, anche se a te suonerà strano, mi farò ospitare per un paio di notte e l’appartamento me lo cerco da solo, cazzo…”
“Heide non fare così…”
Si sentì esplodere dall’interno.
Quando guardò Ed, lui fu sicuro di non aver mai visto niente di più spaventoso. Forse perché non lo aveva mai visto così furioso, forse perché gli faceva male essere la causa di questa furia e delle sue viscere ribollenti.
“Heide NON. FARE. COSI’?! Sei completamente fuori di testa, cazzo, prima mi molli senza una spiegazione plausibile poi mi dici di dormire sul divano come uno stracazzo di cane, come se fossi un cazzo di ospite di merda, e mi vieni anche a dire Heide non fare così?! Sei davvero un cazzo di infame, uno stronzo, mi fai venire da vomitare!”
La porta sbatté così forte da far vibrare le ossa; Alfons si ritrovò a piangere sul pianerottolo, Edward dietro la porta, entrambi scossi, seduti, con la testa fra le mani, entrambi cercando di fare meno rumore possibile e di zittire tutte le voci nella testa.

“Sì, scusa, hai ragione.”
Edward mette Castlevania in pausa (è il regalo di Natale che gli ha fatto, e non sa spiegarsi come il fatto che lo stia usando lo infastidisca) e si alza, passandosi una mano fra i capelli, quella stessa mano con cui poi si gratta il braccio. È un misto di fastidio, disagio, imbarazzo e – oddio, non lo sa. Vorrebbe pensare che sia felice di vederlo, ma non vuole azzardare e scottarsi.
“Non chiedermi scusa.”
“Ma stavo per farti avere un infarto.”
“Di qualcosa si deve pur morire.”
“Magari non così giovane, che dici?”
“Eh, già, sarebbe un gran spreco.”
Perché stanno parlando così? Se tutto andava così bene, perché non sono rimasti insieme?
C’è un silenzio che gli sembra lunghissimo, ma ha paura che non sia lo stesso per Ed.
“Cosa ci fai qui?”
“Adrianne mi ha detto che stavi male.”
“Ah, sì, me l’hai detto prima.”
Sta sorridendo. Gli piacerebbe pensarlo contento che, nonostante tutto, lui sia corso a casa per sapere come sta. Ma, di nuovo, non vuole sapere la verità. È meglio una mezza bugia agrodolce.
“Beh, era una bugia. Per un giorno di vacanza che mi prendo nessuno dirà niente.”
Gli viene quasi la nausea. Come fa, come cazzo fa? Lo fa apposta? Eppure neppure lui vuole che si trasformino in due amanti che si odiano, come si vede nei film, non vuole invecchiare nel proprio brodo rabbioso, inacidirsi con le critiche continue che gli rivolgerà senza che lui possa mai sentirle, vuole conservare un bel ricordo di loro, non vuole che tutte le belle memorie che ha incastonate nella mente vengano distrutte, spazzate via come cocci vecchi da una colossale litigata proprio adesso – perché se Ed non fosse Ed, e se non fosse ancora disgustosamente innamorato di lui proprio perché Ed, finirebbero a lanciarsi piatti addosso e accuse taglienti. Non vuole che succeda questo. Eppure, nello stesso intenso modo, si chiede come Edward riesca a sorridergli.
Vorrebbe fuggire e gridare.
“Heide, non mi stai guardando negli occhi –”
“Non mi chiamare Heide, per favore.”

Il letto rifatto, le lenzuola fresche appena cambiate – non avevano fatto in tempo a fare l’ultimo risvolto che già ci si erano buttati sopra, Edward sopra Alfons, con il mento sul petto.
“Ed, è ridicolo, sembra Heidi.”
“Ma cosa dici, Heide è bellissimo! E poi ti ci chiamerò solo io.”
“Come?”
“Sì, ti ci chiamerò solo io, quando lo farà qualcun altro gli dirò che non ti piace, che odi essere chiamato così. Io non ti chiamerò mai così in pubblico.”
Edward aveva il misterioso potere di far sembrare le peggiori stronzate le cose migliori del mondo, tanto da farlo sempre capitolare davanti a quello che decideva lui.
“D’accordo, vada per Heide. Ora però tocca a me trovare un soprannome altrettanto ridicolo.”
“So benissimo che, anche se lo trovassi, non lo useresti mai. Per questo sei il mio Heide.”

“Okay, scusami.”
Alfons alza lo sguardo e sbuffa, perché non è stato ancora cacciato, perché è ancora lì?
“Non chiedermi scusa, non hai fatto niente.”
“Con tutte le volte che mi hai chiesto scusa tu per idiozie…”
Perché lo ha dovuto dire? Lo fa apposta? Sta cercando di sbriciolare ogni minima speranza?
Alfons inspira profondamente e chiude gli occhi.
“… Ed…”, vorrebbe dirgli un miliardo di cose ma decide che non vuole essere al suo stesso livello, non vuole sforzarsi anche lui di rovinare tutto, “…no, lasciamo stare.”
“Sì, sì, lasciamo stare. Come al solito.”
“Sì, esattamente.”
L’aria si fa elettrica e pesante, potrebbe morderla e rimanere fulminato.

“Al, puoi guardarmi negli occhi?”
Edward odiava quando Alfons si chiudeva a riccio dentro di sé, quando litigavano e lui si rifiutava di parlare, odiava quel suo mostrarsi infantile e debole davanti alle prime grida. Non che ci fosse tanto bisogno di intuirlo, considerando il fatto che Ed era tutto fuorché tipo da tenere qualcosa dentro.
Alfons, seduto in cucina, teneva la testa nascosta tra le braccia incrociate, mentre Edward non riusciva a stare fermo. Sembrava che camminasse sul ponte di una nave, continuando a correre per farsi venire la nausea.
“Non mi va, non può non andarmi?”
“Non mentre litighiamo, cazzo!”
“Mi sembra di avere a che fare con un bambino! Sei insopportabile quando fai così, Cristo!”
Era la quarta volta che litigavano nel giro di dieci giorni.
“Allora lasciami, se ti do così fastidio.”
“Ma devi sempre rispondermi così?! Non si riesce a discutere normalmente con te, mai?! Al, sei un adulto, non fare cos—”
Si era alzato e lo aveva baciato forte, quasi prepotente, per zittirlo.
“Lasciamo stare, okay? Non ho voglia, non ho davvero voglia di litigare… andiamo fuori a cena? Offro io…”
Ed sospirò, lasciandosi abbracciare. Al teneva il mento sulla sua spalla; aveva gli occhi rossi e gonfi.
“Sì, sì, lasciamo stare, come sempre… però mangiamo giapponese.”

“Come mai sei rimasto a casa da lavorare?” gli chiede dopo un altro silenzio lunghissimo. A Ed parte un singhiozzo.
“Ieri sera ho bevuto troppo e il risveglio di stamattina è stato un po’ schifoso…”
“Hai bevuto? Ed, sei sicuro di stare bene? Quanto hai bevuto?”
“Abbastanza per vomitare ma troppo poco per buttarmi nel fiume.”
“Che battuta del cazzo, Ed…”
“Comunque neppure tu hai una bella cera, sei sicuro di stare bene?”
“Sì, sì, solo che non sono riuscito a dormire…”
“Hai cercato di prendere qualcosa? Hai sempre avuto il sonno agitato…”
Alfons sente un Quando non ci sono io che rimane nell’aria e che Ed ha la decenza di non pronunciare.

Alfons lo guardava seduto sul letto, imbronciato, deciso a tenergli il muso per tutto il tempo – o, almeno, riuscire a tenerlo fino al momento dei saluti.
Era una settimana che non litigavano.
 “Sei un mostro orrendo e crudele.”
“Solo perché ti lascio da solo un weekend?! Non hai amici?”
“Sì che ce li ho, non essere sempre così scortese. Sei davvero orrendo.”
“Perché invece di blaterare non mi aiuti a piegare i pantaloni?”
“No.”
Ovviamente si alzò e gli prese i pantaloni di mano, li piegò e li mise nel borsone.
“Amore, dai, sto via solo un weekend, Winry non è mai da queste parti, per una volta che c’è voglio passare un po’ di tempo con lei…”
“Sì, sì, d’accordo.”
Heide sbuffò mentre iniziava a piegare le due magliette che Ed aveva deciso di portarsi. Guardò tutto quello che c’era nella borsa; lo stretto e minimo indispensabile, come al solito.
“… sei veramente arrabbiato?”
“Sì. Avevi detto che questo weekend saremmo andati in montagna, da soli, io e te, noi due –”
“Al, basta sinonimi per farmi sentire più in colpa possibile, lo so, ho capito, stai buono. Mi dispiace, ma Win me lo ha fatto sapere ieri, che sarebbe venuta! Non fare il bambino, ci andiamo il prossimo weekend, la montagna non si muove e io non muoio domani.”
“E che ne sappiamo? Se ti viene un attacco di cuore, o ti investe un autobus, o se Winry che è ancora innamorata di te ti mette del veleno insapore incolore e inodore nell’acqua?”
“E se mi rapiscono gli alieni no?”
“No, non credo negli alieni. E comunque non prendermi per il culo, ti odio.”
Edward sbuffò, chiudendo il borsone. Non sospirò, fu proprio lo sbuffo di un treno. “Dai, ho il treno tra mezz’ora, è meglio se mi muovo, okay?”
“Okay, okay…”
“Heide sei arrabbiato davvero?”
“… no che non lo sono, scemo…”
Anche se lo era davvero (un po’, solo un po’) non lo avrebbe mai lasciato andare senza baciarlo e dirgli che lo amava, non voleva farlo andare via col broncio di entrambi.
“Ci vediamo lunedì.”, si dissero all’unisono, salutandosi sull’uscio.
Alfons si fece un’enorme cultura dei programmi notturni inglesi per due notti consecutive, rendendosi finalmente conto cosa spingeva le casalinghe sole e disperate a continuare a guardare certe robacce: l’effetto drogante che il trash televisivo dava. Lui e Edward si sentirono solo per sms, uno della buonanotte e uno del buongiorno, e Al si segnò tutte le schifezze che aveva visto, scrivendo anche un enorme post-it che si attaccò sul suo comodino – “Obbligare Ed a fare una notte in bianco con me davanti alla tv.”
Riuscì a prendere sonno solo domenica mattina, alle quattro, quando era sicuro che Ed sarebbe arrivato da lì a poco, si sarebbe messo sotto le coperte, piano piano per non svegliarlo, e lo avrebbe abbracciato stretto, riscaldandolo. Riuscì a dormire, però, solo un paio d’ore; non c’era verso di prendere sonno di nuovo, lo realizzò pienamente appena aprì gli occhi, irritato. Decise di alzarsi e preparare il caffè per sé e, verso le otto e mezza, preparare quello per Ed. Adorava le vacanze remunerate.
Quando gli aprì la porta, alle otto e tre quarti, Edward doveva aver pianto moltissimo. È bagnato come un pulcino.
“Dobbiamo” singhiozzò “dobbiamo parlare, Alfons.”

“Non ho comprato nessuna medicina ancora, poi comunque non mi sarebbe andato di prenderle…”
“Dovresti prenderle se non dormi – okay, okay, la pianto qua, non sono tua madre e tu sei un adulto e tutto questo sta prendendo una piega che mi fa schifo.”
Vorrebbe piangere fortissimo fino a scoppiare.
“Mi fai un caffè prima che vada via? Ho corso e sono senza forze…”
Edward annuisce, spegne la Playstation – “Ma hai salvato?” “Sì, forse, boh, chi se ne importa…” – e va in cucina. Heiderich si siede al (loro)  tavolo, e spera che il caffè sia davvero bollente, ha le mani gelate.
Vorrebbe scappare ma non ne ha la forza. Si guarda attorno nervosamente e, nel momento stesso in cui pensa che vorrebbe distruggere tutto, pensa che vorrebbe stringere Ed e fare l’amore piegandolo sulla cucina – la schiena che ha baciato per così tanto, i capelli che ha intrecciato con le dita, le spalle larghe e le gambe tese. Continua ad amare lui e il suo corpo come il primo giorno.
Il caffè gorgoglia e diffonde il suo profumo densissimo, cerca quasi di soffocarli.

“Amore, che succede? Cos’è successo?”
Ed si strofinò il naso con la manica del giaccone come un bambino, talmente forte che Al ebbe paura che se lo spaccasse. Non riusciva a smettere di piangere. “D… dobbiamo parlare, siediti per favore dobbiamo… dobbiamo parlare…”
Alfons lo aiutò a togliersi la giacca, prese il borsone mettendolo affianco all’attaccapanni, lo seguì in salotto.
“Amore prima di tutto calmati, spiegami che –”
“Dobbiamo lasciarci...”
Edward scoppiò a piangere e Alfons lo guardava in viso, pietrificato. Non gli era mai successo, ma suppose che avesse appena provato lo stesso effetto di fare un incidente in macchina senza airbag e precipitare dall’altra parte della strada spaccando il vetro.
“Cosa?”
“I- io non ti amo più, mi dispiace davvero mi dispiace…”
“… dobbiamo…?”
“Ti-ti ho mentito, Winry l’ho chiamata io, avevo assolutamente bisogno di parlare con qualcuno che non ci conoscesse bene e-e Dio Al è così difficile…”
Non riusciva a capire cosa stesse dicendo; si sentì un turista giapponese in un paesino sperduto dell’Inghilterra, dove qualsiasi tentativo di comunicare era ridicolo e destinato a fallire.
“Mi dispiace, io-io ti voglio bene, davvero, ma non ti amo più, non voglio portare avanti qualcosa che non c’è…”
“Ed, tesoro, ti prego, calmati, sei sconvolto, cos’è successo? Cos’è successo da un giorno all’altro?”
“Non è da un giorno all’altro, non…”
Ed smise di parlare, piangeva troppo e le lettere gli si mescolavano in bocca.
Il caffè strabordò e sporcò il tavolo.

“Com’è la casa?”, gli chiede, servendogli il caffè. Al prima pensa di buttarlo giù in un sorso solo per poter scappare, ma non vuole bruciarsi la gola. Soffia sopra la tazzina, scacciando il fumo.
“Carina…”
“Posso venire a vederla, una volta?”
Ma non è lui quello che ha detto che quantificava l’orrore di una conversazione di quello stampo, muffita e terribile?
“Sì, puoi.”
Ingolla il caffè rimasto e si alza, non resiste più.
“Vado, è meglio…”
Alfons tossicchia e si alza, in corridoio recupera la giacca dall’attaccapanni, vuole scappare e non tornare mai più – e nello stesso modo vuole inginocchiarsi e baciare tutto ciò che ha toccato per anni, tutto ciò che gli manca così fortemente. Vorrebbe cancellare tutto e ricominciare.
“Allora… ci vediamo?”
“Ci toccherà, al lavoro.”
“È vero, che stupido… cerca di dormire, eh?”
Alfons tira su col naso e lo guarda, sull’uscio.
Non ha voglia di litigare, non ha rabbia dentro, non vuole fare altro che guardare i suoi piedi che se ne vanno. Nel momento in cui comincia ad urlare, è come se cominciasse a guardarsi dall’esterno.
“C’è un altro?”
Edward ha una scossa elettrica.
“No che non c’è un altro, Al, te l’ho già detto un miliardo di volte!”
“E allora che succede? Cos’è successo? Cosa ti è successo?”
“Vedi come fai?! Lo vedi come fai, Al?! È per forza colpa mia, vero?! Non consideri neppure il fatto che può essere colpa tua, o che non sia successo proprio un cazzo e che semplicemente io non ti ami più, vero? Sei così… Cristo, sei così pateticamente dipendente da me!”
“Non è colpa mia, cazzo, io ti amo ancora, ti amo come il primo giorno, e tu all’improvviso dici che non mi ami più!”
“Alfons, smettila! Credi che io non ci stia male, forse?”
“No, non mi sembra proprio da come ti comporti!”
“Ah perché secondo te la tristezza vuol dire solo mettersi sotto le coperte a piangere, vero?! Non hai pensato che magari cerco di distrarmi perché siamo stati assieme sette anni e ora sto da cani?! No, certo, siamo tutti tristi come lo sei tu…”
Ad Alfons fa malissimo il cuore, e per la prima volta in vita sua è sicuro che non sia niente di fisico, di medico.
Sta tutto andando in pezzi.

La prima volta che si videro, Edward era ubriaco. Fortunatamente non era uno di quegli ubriachi particolarmente molesti, era solo decisamente allegro. Gli si avvicinò con andatura vagamente barcollante – aveva diciannove anni e ne dimostrava sedici, per lui era così piccolo che sarebbe riuscito a sollevarlo sulla sua testa per fargli vedere il mondo da trenta centimetri di altezza in più.
“Sai che sei veramente bello? Ma guarda che occhi hai, e che labbra, e che culo, e quanto sei alto…”
Lo fece arrossire come mai in vita sua e lo abbracciò stretto, obbligandolo ad abbassarsi.
“Sai, penso proprio di essermi innamorato. Tu ci credi all’amore a prima vista? Io no, ma mi sa che mi devo ricredere…”
Lo baciò a fior di labbra.
“Sai, sai, quando sarò sobrio forse mi sarò scordato di un sacco di cose, ma sono sicuro che mi ricorderò di te, e sai tu devi esserci quando sarò sobrio, cioè devi esserci anche quando sto vomitando, perché si sta insieme in ricchezza e in povertà in salute e in malattia e in ubriachezza e sobrietà, no?”
Lo baciò di nuovo.
“Mi devi promettere un’altra cosa: abbracciami sempre. Quando mi saluti, quando mi vedi, anche quando ci lasceremo, sempre sempre, abbracciami sempre per dirmi quanto mi ami… perché io ti amo, sai?”

“D’accordo, d-d’accordo,” balbetta, cerca la sua mano per stringerla, “piantiamola qua. Okay? Qua. Smettiamola.”
Vorrebbe dire un miliardo di cose, ma preferisce agire come al solito.
Per la seconda volta, quando chiude la porta dietro di sé, non sente Edward singhiozzare.

  
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