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Autore: _KyRa_    24/10/2010    6 recensioni
Si sentiva ancora una bambina, piccola, immatura. Come poteva solo lontanamente pensare di compiere un salto talmente grande da gravare sulla sua intera vita?
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'This is it.'
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fuck you

Chapter Twenty-Two.
- Fuck you -



Confusione.

Ormai da mesi, l'unica parola che completasse e descrivesse appieno i suoi stati d'animo non era altra che quella.

I suoi occhi erano ancora fissi sulla schiena del chitarrista, da tutta la notte. Non aveva chiuso occhio, troppo agitata e per l'appunto confusa per ciò che era successo la sera prima. Non riusciva a porvi una spiegazione plausibile.

Perchè Tom l'avrebbe “violata” a quella maniera, se le dava sempre dimostrazione di non provare nulla per lei? Forse era davvero come aveva detto lui a cena? Ovvero che lui nelle donne cercava solo il sesso? Eppure non avevano fatto propriamente sesso. Alla fine era stato lui ad allettarla, non il contrario; si era persino rifiutato di farsi toccare ulteriormente da lei. Quindi perchè tutto questo? Era stato un favoritismo? Era stato un momento di debolezza? Un semplice sfizio da togliersi?

Non aveva il coraggio di muovere un muscolo sul materasso, per paura che lui la udisse. Voleva al contempo scendere da quel letto, divenuto rovente sotto di lei. Come si sarebbe comportata? Già sapeva che non sarebbe stata in grado di affrontare l'enorme imbarazzo, in sua presenza, perchè altro non vi sarebbe stato se non quello. Non sapeva nemmeno dire se si fosse pentito o meno, anche se dal suo sguardo di qualche ora prima – subito dopo aver commesso quella “cazzata”, come l'aveva definita lui – lasciava spazio a pensieri puramente negativi. Avrebbe dovuto solamente attendere il suo risveglio e nient'altro.

Ma quel giorno prospettava anche un affronto con sua madre, nel caso quest'ultima avesse deciso di rivolgerle finalmente la parola. Aveva paura; paura per tutto ciò che sarebbe successo. E più passava il tempo, più si domandava come potesse essere possibile che tutti i guai la rintracciassero a quella maniera, senza ritegno. Ne aveva già dovuti affrontare troppi nella sua vita e non erano ancora finiti. Erano tutti lì, davanti a lei, ad attendere che lei vi andasse in contro.

Buttò nuovamente un occhio al chitarrista che non aveva ancora dato segni di vita da quando si era voltato in quella direzione, un bel po' di ore prima. Si ricordava di aver controllato addirittura che respirasse, durante la notte.

Con movimenti impercettibili, si mosse sul materasso, sollevando lievemente la coperta per scivolarvi oltre. Quando poggiò i piedi sul freddo pavimento, si voltò nuovamente verso di lui per controllare che dormisse ancora. Nulla di strano; così si alzò definitivamente per poi infilarsi le pantofole ed uscire silenziosamente da quella stanza. Appena chiuse la porta, tirò un sospiro di sollievo e successivamente si chiuse all'interno del piccolo bagno adiacente alla sua camera. Vi si chiuse a chiave, decidendo che di lì non sarebbe uscita almeno per un po'. Si specchiò nell'enorme vetro che andava a sovrastare il lavandino e si osservò con attenzione. Marchi violacei stanziavano sulla pelle del suo collo, come a testimoniare che la bocca del ragazzo fosse sul serio passata di lì.

Quando i pensieri della sera prima tornarono a farsi nuovamente nitidi dentro di lei, le sue guance si tinsero di un color porpora decisamente più accentuato della sua naturale carnagione.

Però era stato... Bello. Insomma, lei avrebbe preferito un contatto molto più ravvicinato con il chitarrista, ma anche solamente questo le poteva bastare. Rappresentava comunque uno scossone di quella situazione, un qualcosa di nuovo – che fosse giusto o sbagliato non le importava. Sapeva solamente che segni di pentimento, nei suoi occhi, non ne leggeva.


**


Quando uscì dal bagno, il corridoio era ancora vuoto e silenzioso. Probabilmente Tom non si era alzato dal letto, nonostante fossero le nove e mezza. Sapeva che era un tipo alquanto pigro e che l'arte del dormire era ciò che meglio lo appagava, ma tutto questo la rendeva piuttosto nervosa. Sentiva di c'entrare in qualche modo in quel comportamento. Che non volesse alzarsi dal letto per non vederla?

Con questo persecutorio interrogativo, prese a scendere le scale, mentre il suo cuore batteva all'impazzata: il pensiero di arrivare in cucina e trovarvi sua madre la agitava ulteriormente e non passò molto prima che questo timore si tramutasse in effettiva realtà.

Seduta al tavolo, con una tazza di caffè fumante davanti al viso, Ester fissava pensierosa il vuoto di fronte a sé, con la mano a sorreggerle la testa. Due profonde occhiaie andavano a sottostare i suoi occhi castani, segno che quella notte non aveva dormito, o per lo meno non molto.

Quando la donna sollevò lo sguardo su sua figlia, quest'ultima si irrigidì sulla soglia della cucina, scrutandola a sua volta, senza proferire parola. Aveva paura di dire o fare qualcosa di sbagliato, in aggiunta a ciò che già aveva fatto. D'altra parte, si rese conto che, se voleva tornare ad instaurare un dialogo con sua madre, da qualche parte doveva pur cominciare.

«Ciao.» la salutò mestamente, senza staccarle gli occhi di dosso, mentre un leggero tremolio nella sua voce andava a contrastare la sicurezza che voleva esternare. Con un colpo al cuore, vide Ester ricambiare quel saluto con un semplice gesto del capo: forse nulla era perduto.

Avanzò con cautela nella stanzetta per dirigersi verso gli scaffali e recuperare da dentro essi una tazza. Forse l'unico modo per non avvertire quella pesante tensione, era comportarsi con disinvoltura, ed una buona colazione, consumata con apparente indifferenza, era il metodo migliore per uscire da quell'impaccio.

Si sedette di fronte a sua madre, senza guardarla – per paura che avesse qualcosa in contrario da dire – e, dopo essersi versata del latte nella tazza, prese a mangiarvi qualche biscotto. Istintivamente, si portò una mano al ventre, carezzandoselo appena. Ultimamente le capitava spesso di farlo; probabilmente era solo un gesto comune a tutte le donne incinte.

Attorno a lei sentiva solo silenzio. Ester forse non aveva il coraggio di dar vita ad un discorso pacifista con sua figlia o solamente la rabbia era ancora dinamica dentro di lei.

Forza e coraggio, si incitò mentalmente, prima di parlare.

«Quando ho scoperto di essere incinta ho ridotto tutto il mio servizio di bicchieri in frantumi.» esortò con il cuore scalpitante e lo sguardo basso. «Non ne ero felice per nulla. Ancora di più perchè il padre era Christian ed era successo tutto per errore; un madornale errore che mai avrei dovuto permettere che accadesse. Sai, mamma, ti ho già mentito una volta. Christian non mi ha mai trattata bene – contrariamente a ciò che vi ho sempre fatto credere: si è sempre approfittato di me e, precisamente, del mio corpo. Eravamo arrivati ad un punto in cui l'unico dialogo che capitava tenessimo, ogni tanto, era quello sulla lista della spesa che puntualmente andavo a fare io, con le sue richieste scritte su un foglietto. Ho affrontato un periodo lungo e tetro perchè, pur vivendo assieme, non ci vedevamo più durante la giornata a causa dei nostri lavori; per lo meno del mio. Non ho mai capito in realtà cosa andasse a fare lui in giro, fino alle due, tre di notte ma ero arrivata a non interessarmene più. Quando tornava facevamo sesso senza dire una parola; tutto perchè lo voleva lui ovviamente. Io ero giunta a non capire neanche cosa volessi per me stessa. Forse era la libertà quella che più bramavo ma bramavo anche un corpo privo di ematomi. Non l'ho mai detto né a te né a papà ma di botte ne ho prese tante da lui. Quando gli ho riferito che aveva combinato un bel casino, a causa del suo bisogno eccessivo di sesso, si è fatto le valige e se n'è andato senza esitare, ritenendo di non essere pronto ad affrontare un peso simile. Ma non lo ero neanche io, è questo il punto. Sin dal primo giorno, dal primo secondo, ho odiato questo bambino. Ma non perchè era un bambino, ma perchè era suo. Era frutto di un amore che non era amore. Era frutto di un qualcosa di sporco, di un qualcosa di sbagliato e che mi ha fatto soffrire per tantissimo tempo. Ho passato i mesi a nascondermi dietro inutili bugie, senza pensare che tanto – prima o poi – la verità sarebbe venuta a galla. Sistemi talvolta pericolosi per mascherare la mia gravidanza. Mamma, se vi ho mentito, è stato perchè voi mi avete cresciuta in un determinato modo: ho sempre conservato i miei sani principi, come mi è stato insegnato da voi. Ciò che mi è successo andava totalmente contro a tutto quanto. Mi sembrava una cosa fuori dal mondo, che voi non meritavate perchè non era ciò che desideravate per me, che vi aspettavate per il mio futuro, insomma. Avete sempre riposto fiducia in me e, dicendovi la verità, credevo di distruggerla. Lo so, ho sbagliato ma... Ho ventun'anni, per la miseria, e ho tutto il diritto di commettere errori. L'importante è rendersene conto e rimediare, credo. Tutto qui, mamma.» concluse con un profondo sospiro, finalmente liberatasi da un peso troppo più grosso di lei.

Le lacrime che nel frattempo si erano accumulate negli occhi di Ester non le erano passate inosservate e, in qualche modo, si sentiva sollevata per aver almeno suscitato qualche emozione in lei. Ciò che successe in seguito la prese semplicemente alla sprovvista. Nessuna parola; forse non ce n'era bisogno. Vide solamente sua madre alzarsi dalla sedia per poi fare il giro del tavolo ed accoglierla fa le sue braccia calde e protettive. Chiuse gli occhi, aggrottando le sopracciglia – poiché le lacrime che presero a scorrere sul suo viso furono una reazione puramente automatica – e strinse quella donna che le aveva dato la vita e la serenità. Inalò a pieni polmoni quell'odore famigliare, di casa, di affetto con il quale era abituata ad addormentarsi la notte, quando aveva paura del buio, ai tempi della sua adolescenza. E tutto questo bastò per farle percepire nuovamente quel clima di amore, comprensione e mai di abbandono che per qualche ora aveva perso.


**


Finalmente aveva avuto l'occasione di parlare con sua madre, con maturità e senza timori. Si erano scambiate pensieri, paure, sensazioni, proprio come una volta. Ester aveva ammesso di essere contenta, nonostante tutto, di diventare nonna e si era dichiarata un po' delusa del fatto che il padre non fosse Tom: aveva sempre provato simpatia per quel ragazzo. Lo aveva sempre reputato – per quel poco che sapeva di lui – con la testa sulle spalle, maturo ed estremamente dolce.

«Ti parlo da mamma.» le aveva detto nel descrivere il chitarrista. Monique aveva semplicemente annuito pensierosa, essendo consapevole del fatto che quelle parole fossero dannatamente veritiere ma allo stesso tempo che non lo aveva ancora affrontato e quindi non poteva sapere in che direzione fosse sfociato il loro ambiguo rapporto.

Saliva lentamente le scale, come avesse paura di trovalo davanti a sé da un momento all'altro. Da quando si era alzata dal letto non lo aveva ancora visto. Buttò un'occhiata al suo orologio da polso e notò che erano le dieci e un quarto: probabilmente si era svegliato. A quel pensiero, un'enorme sensazione di calore si impossessò del suo stomaco, accompagnato ad un fastidioso tremore che presto si protrasse lungo tutto il suo corpo.

Arrivata in cima alle scale, sussultò appena notando che la porta della sua stanza era semichiusa, segno che il chitarrista l'aveva varcata. Prese un bel respiro e si avvicinò, fino ad aprirla interamente per poter entrare in camera. Quest'ultima era vuota e quasi si sentì sollevata da tale fatto, pur sapendo che prima o poi avrebbe dovuto affrontarlo. Non terminò di formulare quel pensiero che sentì dei passi leggeri dietro di sé. Con il cuore scalpitante, si voltò fino ad incontrare l'alta figura del ragazzo che, perfettamente vestito e profumato, la scrutava con espressione intimidita.

«Ciao.» le venne spontaneo dire, con timore, quasi incontrollata. Si torceva continuamente le mani, per paura di una qualsiasi reazione da parte del chitarrista che avrebbe potuto deluderla, in qualche modo, come spesso era successo.

«Ciao.» rispose Tom, con sguardo insicuro. Restarono secondi interminabili l'uno di fronte all'altra senza dire mezza parola. L'imbarazzo attorno a loro era tangibile, si percepiva immediatamente e la cosa non poteva fare altro che infastidirla.

«Ho chiarito con mia madre.» mormorò Monique, decidendo che non era esattamente il momento per poter affrontare il discorso riguardante la sera prima. Sapeva inoltre che Tom, molto probabilmente, non sarebbe riuscito a sostenerlo: era un ragazzo piuttosto chiuso in questo e un po' timoroso, non voleva metterlo immediatamente a disagio per un qualcosa che si era sentito di fare e di cui si sarebbe forse pentito successivamente. «Possiamo tornare a Berlino.» aggiunse poi, torturandosi continuamente le mani. Tom si limitò ad annuire come a disagio e ancora intimidito. Monique odiava quel clima tra di loro. «Mi vesto e andiamo.» concluse con freddezza.


**


La tensione si era percepita anche durante i saluti: Tom non era assolutamente in grado di fingere. Non sapeva adottare espressioni utili a mascherare un sentimento “negativo”. Molto probabilmente i genitori di Monique avevano intuito che qualcosa fra loro due non quadrava, ma avevano preferito non passare per persone indiscrete e quindi non avevano chiesto nulla a riguardo.

Il viaggio di ritorno lo avevano passato interamente in silenzio: non una parola di circostanza; nulla. Monique si era rifiutata di chiedergli qualunque cosa persino in macchina, forse per paura di una sua reazione negativa, forse per troppo imbarazzo. Non lo sapeva nemmeno lei. L'unica cosa di cui era consapevole era che non ne aveva avuta semplicemente l'intenzione.

Ma ora che Tom aveva accostato sul marciapiede, di fronte casa della ragazza, quest'ultima decise che non avrebbe potuto abbandonare quell'auto senza prima aver affrontato un chiarimento.

«Senti, Tom... Non possiamo far finta di nulla; per lo meno io. Ho bisogno di sapere perchè l'hai fatto ed il motivo di questo tuo apparente pentimento.» esortò, dopo aver preso coraggio. «So che ti scoccia parlarne ma in questo momento la mia mente è affollata da troppe domande e pochissime – se non inesistenti – risposte.» aggiunse, cercando di apparire il più convincente possibile. Il moro teneva ancora lo sguardo fisso sulla strada davanti a sé, con espressione cupa. Lo vide irrigidire la mascella e le sue mani grandi stringersi a vicenda sui suoi jeans oversize.

«Non ti dirò che non so perchè l'ho fatto perchè non avrebbe senso e soprattutto non sarebbe vero.» cominciò a parlare, deciso a non guardarla. «Voglio solo dirti che è stato un errore. Un errore madornale di cui mi pento con tutto me stesso.»

Monique sentì per un attimo due mani che le stringevano violentemente la gola, impedendole di respirare. Sarebbe stata pronta a tutto, se l'era promesso, ma tutto sarebbe stata in grado di sentire, tranne quello. Qualunque cosa fosse successa in seguito, non avrebbe mai voluto vederlo pentito, perchè lei non lo era. Lei si era lasciata andare alle sue attenzioni perchè il cuore le aveva detto di fare così.

«Un... Un errore?» balbettò incredula.

«Sì, non avrei dovuto farlo.» confermò il ragazzo, procurandole ancora più dolore al petto.

«E perchè allora in quel momento eri convinto di quello che facevi? Ci siamo guardati anche negli occhi, hai avuto tutto il tempo per ripensarci ma non l'hai fatto. Perchè ora ti rimangi tutto? Lo vedi qual'è il mio problema con te, Tom? Non sono mai convinta al cento per cento di quello che succede tra noi. Non riesco ad abituarmi ad una determinata situazione perchè questa in poco tempo viene ribaltata da te. Non riesco a gioire di un qualcosa perchè tu, due secondi dopo, la smonti. Sei imprevedibile, ma il più delle volte in negativo, è questo che mi fa paura!»

«Tu avresti gioito di questa cosa?»

«Io avrei gioito per tantissime cose! Avrei gioito per quel giorno a casa mia, quando mi hai dato quei baci a fior di pelle, avrei gioito per quella sera in albergo, in Malesia, quando ti ho baciato come desideravo, avrei gioito anche per ieri sera, cazzo, se tu me ne avessi dato la possibilità. E invece, guarda un po'? Non sono riuscita a gioire per nessuna di queste cose, per colpa tua! Devi capire che tu non puoi arrivare, stravolgermi le giornate e poi sparire o rimangiarti tutto quello che hai detto o fatto, giustificando tutto questo con “momenti di debolezza” o cose simili. Io non sono un giocattolino o un oggetto esanime che puoi prendere e farci quello che vuoi perchè tanto non sente nulla. Io ce li ho dei sentimenti, purtroppo o per fortuna. Non ho mai avuto certezze nella mia vita: le uniche sono state i miei genitori e la gravidanza, fine! Per un momento ho pensato di aver trovato una figura stabile anche in te ma, giorno dopo giorno, mi dimostri che non è così!»

«La situazione tra di noi è degenerata ed era proprio ciò che non volevo accadesse. Io non potevo immaginare che tu ti saresti interessata a me ed io, allo stesso tempo, ho commesso tantissimi errori che forse ti hanno portato a confonderti le idee.»

«A me confondono solamente i tuoi gesti, sempre così diversi fra loro. Sui miei sentimenti per te sono sempre stata molto chiara e consapevole, almeno con me stessa. Ormai penso non sia più necessario nascondere che provo qualcosa per te che va oltre il semplice affetto o un'ipotetica amicizia che poteva nascere ed apparente era nata tra di noi. Ma tu continui a confondermi sul tuo pensiero che non ho ancora capito quale sia!»

«Io non volevo che tu vedessi in me una figura per la tua vita che io non ti posso dare.»

«Ma almeno dammi una motivazione! Mi devi sempre lasciare con un milione di punti interrogativi per ogni frase che dici! Per lo meno dimmi: Monique, non mi interessi, fattene una ragione e gira a largo!»

«Ma io non penso questo! Perchè devi trarre le tue conclusioni?»

«Perchè non me ne dai tu! Ecco perchè!»

«Non è quello il punto: se non mi interessavi non facevo quello che ho fatto ma... Non posso illuderti, cosa che invece ho fatto per tutto questo tempo.»

Monique sospirò nervosamente, massaggiandosi le tempie con le dita.

«Lo vedi che una risposta chiara non sei in grado di darmela? Secondo te, come posso capire un qualcosa se tu continui a farmi questi discorsi generici e astratti?! Perchè stai parlando di illusione? Vuol dire che non ti piaccio? È perchè sono incinta? Se è così, dimmelo! Sono grande, so farmene una ragione su queste cose!» domandò, cercando di mantenere calma e pazienza, cose che stavano venendo pericolosamente a mancare.

«Non vuol dire quello!» esclamò Tom, in difficoltà. Monique sbattè una mano sulla portiera, palesemente scocciata ed arrivata al limite di quella discussione.

«Sai cosa c'è, Tom? Hai ventun'anni e sei maturo abbastanza per capire come stanno le cose. Quando sarai in grado di fare un discorso che fila e ragionevole, vieni pure a cercarmi, altrimenti fai come ti pare...» disse prima di aprire la portiera e scendere velocemente da quella macchina.

«Schmitz.» cercò di chiamarla il chitarrista, ma quest'ultima prese a camminare verso casa sua, ignorandolo. «Monique.» La ragazza inchiodò sui propri piedi, come impietrita. Si voltò verso di lui, quasi incredula a ciò che aveva sentito: non l'aveva mai chiamata per nome. «Forse è meglio che non ci vediamo più.» mormorò il moro, con il dispiacere negli occhi.

Un forte istinto omicida andò subito a coprire quel senso di sorpresa momentaneo.

La prendeva in giro? Gli piaceva prendersi, per caso, gioco di lei? Una cosa era certa: lei non era più disposta a farsi trattare in quel modo da un ragazzo.

«Tom?» lo chiamò, stringendo le mani a pugno. «Vattene a 'fanculo.» ringhiò per poi voltarsi ed entrare nel suo condominio. Sbatté con tutta la forza che possedeva il portone, causando un fortissimo frastuono lungo le scale, per poi poggiare la schiena contro di esso e scoppiare in un pianto ininterrotto.

  
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