Anime & Manga > Soul Eater
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Autore: Mushroom    24/10/2010    5 recensioni
Per tutti è normale fare gavetta: Soul Eater Evans, falce della morte assegnata alla regione nipponica, lo sa fin troppo bene.
Sta lì da qualche anno, fra vecchi ricordi e nuove amicizie.
Finchè, una cartolina della sua Shokunin non costringerà la Buki a una partenza repentina verso la sua vecchia casa.
"Bollette, bollette, pubblicità, pubblicità, bollette, reclamo pubblico, busta con scrittura di Maka, bollette…. Busta con scrittura di Maka?!
Lasciò cadere l’accozzaglia di posta sul tavolo, dedicandosi a quella in particolare.
Oh, avrebbe riconosciuto la grafia della sua Meister tra mille.
Sogghignò: erano mesi che non aveva sue notizie.
Gli avevano detto che era in missione, ma lui ci credeva poco. Sapeva che niente l’avrebbe mai tenuta fuori così a lungo. Era una tipa pragmatica, lei. Faceva tutto e subito, regolando minuziosamente ogni azione.
Aveva semplicemente smesso di rispondere alle sue mail, e lui se n’era quasi fatto una ragione.
Si trovava dall’altra parte dell’oceano, che ci poteva fare?
"
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Maka Albarn, Soul Eater Evans
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Introduzione

Soul sopirò, mandando il lettore musicale in random.
Si fece strada tra il torrente di gente, che galoppava da una parte all’altra della stazione in maniera frenetica ma dannatamente ordinata, come tutti i santi giorni.
Neanche l’inizio dell’estate riusciva a svuotare un poco quella città che, al contrario, si gremiva di studenti e di gruppi di turisti. Che diamine c’era di così attraente a Tokyo? Era sproporzionatamente grande e colorata, ma niente di più.
Si adagiò nel vano tra un vagone e l’altro, osservandosi un po’ intorno.
Le ore di punta erano sempre le peggiori, anche se era pressappoco impossibile trovare il treno vuoto. Al massimo, lo si poteva trovare poco affollato. E quello solo in certi orari.
Riconobbe masse di studenti in diverse divise, gruppi di ragazzi fin troppo spensierati e operai nel loro giorno libero. Poi il suo sguardo giunse fino ai suoi studenti.
Quelli della succursale nipponica della Shibusen.
Il primo istinto gli disse di scendere a quella fermata e cambiare immediatamente treno, ma la sua mente gli ricordò che quell’idiota di Black☆Star l’avrebbe chiamato in quasi puntualissimo orario, e che non intendeva aspettare i suoi comodi. Non poteva biasimarlo, in fondo: una chiamata extra-continentale costava parecchio, anche se fugace.
Il motivo di tanta urgenza, poi, era ancora da appurare.
Ancorò il suo sguardo altrove, aumentando il volume dell’ipod.
Mah, forse quei piccoli terroristi non l’avevano notato, tra tutta quella gente. Ma anche lui era stato così, a quattordici anni? Il ricordo più vivido di quel periodo erano i colpi della sua artigiana.
Ancora non sapeva se ridere o meno su quel punto, aspettandosi di veder sbucare da qualche parte la sua Shokunin, pronta a picchiarlo a ogni passo falso.
Sorrise, o forse ghignò. Non era chiaro nemmeno a lui.
Poi qualcosa iniziò a strattonargli la camicia, arrivando a urlargli contro un << SENSEIII! >> abbastanza alto da perforare l’acustica dei Muse. Fantastico, davvero fantastico.
Voltò il capo in apparente apatia, trovandosi di fronte due dei suoi peggiori studenti. Peggiori per modo di dire. Alla loro età era veramente più irruente e cool di loro.
Levò con un gesto secco gli auricolari, stattonandoli dal punto d’incontro. Questi ricaddero pigri tra le sue mani, mentre i suoi timpani venivano percossi dal rumore della metropolitana e dagli starnazzi di quell’ebete che aveva di fronte.
<< Baka! >> sbottò, andando a scompigliargli i capelli << Che Sensei e Sensei. Per te sono solo Deathscythe-sama! Porta rispetto, ragazzino >>
Questo lo guardò per qualche secondo, smettendo di parlare. Poi mosse la mano destra sul suo capo, scrollandosi di dosso quella dell’insegnante. Rimase fermo, totalmente e inumanamente fermo, per esattamente dieci secondi, prima di scoppiare in un monologo interiore e non.
<< Oh, cazzo >> strillò, in preda alla follia. Iniziò a controllare ogni singola tasca di quella specie di giacca a vento che aveva addosso, percorrendo con le mani le tasche dei Jeans, per poi tornare nuovamente sulla giubba. Disperato, afferrò gli oggetti tanto cercati – lo specchietto e il pettine - tirando un quasi sospiro di sollievo tra un’imprecazione e l’altra.
Bel linguaggio da tenere davanti a un docente.
La cosa peggiore che Soul potesse fare era urtare – in un qualsiasi modo – l’aspetto esteriore di quel narcisista di Naru. Generalmente, quando qualcuno osava sparlare della sua bellissima figura oppure quando qualcun altro decideva di smontare un solo pezzo del suo aspetto, macchiandogli i vesti oppure facendogli notare un filetto fuori posto, partiva con un’iniziale monologo, continuando con una serie di schiamazzi e di insulti, proseguendo con istinti assassini e finendo per rimettersi apposto l’abbigliamento o i capelli in modo ossessivo compulsivo.
Ovviamente questa reazione era minore davanti al suo insegnante: per quanto fosse stupido e strafottente, non avrebbe mai osato mettersi contro di lui. C’era un motivo se era diventato falce della morte.
Qualche passante si girò nella loro direzione, altri si limitarono a ignorare la scena.
Soul invece sbuffò, osservando il suo alunno degenere.
Quando si era trovato di fronte Naru per la prima volta, non aveva potuto far a meno di pensare: Cacchio, un incrocio tra BlackStar e Death The Kid. Qualcuno, lassù, mi vuole morto. O vuole che uccida questo ragazzino. Dopo di che, l’aveva intimato a scendere dal banco, minacciandolo in un modo poco etico.
Il piccolo artigiano alzò lo sguardo verso il suo insegnante, sconvolto ma al tempo stesso pieno di sé.
<< Tzè – non mi abbasso a chiamare con un appellativo di tale onorificenza un’idiota che ha sprecato ben novantanove anime mangiando quella di una gatta >>
La vena sulla fronte di Soul iniziò a pulsare pericolosamente, mentre la sua coscienza gli ricordava che l’omicidio era un reato perseguibile dalla legge.
Purtroppo il giorno meno cool di tutta la sua vita gli veniva quasi continuamente sbattuto in faccia, dato che quel poi non tanto piccolo errore gli era costato fin troppo. Quella storia la conoscevano tutti, ormai. Ma solo quell’essere che aveva di fronte osava sbattergliela in faccia così apertamente.
Naru lo scrutò dritto negli occhi: probabilmente era uno dei pochi – se non l’unico – a possedere capelli biondi e occhi blu in Giappone.
<< Brutto idiota rompipalle >> la sua partner, l’unica così coraggiosa da sopportare le manie del ragazzo, gli mollò uno scappellotto in testa << Brilli di acume come al solito! Ma ti sembra il linguaggio da adottare davanti a una falce della morte? >>.
Aiko Tsukasa, brillante studentessa svogliata dai capelli corvini, rimise il proprio artigiano lì dove doveva stare. A parere della ragazza, giù nelle profondità dell’inferno. Lei sarebbe stata una normalissima arma, se non per i piccoli problemi di gestione della sua personalità multipla.
Delle sue varie personalità multiple.
Un giorno era carina e gentile, un altro permalosa e maleducata, un altro ancora lecchina e aggressiva. Insomma, sopportarla era una vera e propria epopea.
Per questo, quei due, non potevano che stare insieme. Non si sopportavano, ma la loro risonanza era praticamente perfetta.
Soul sbottò qualcosa tra sé e sé, poi si rivolse a quei due rompiscatole in modo fin troppo gentile << Che caz… cavolo volete? >>.
Neanche il tempo di ottenere una risposta sensata, che la ragazzina, sorridendogli, trasportò via il ragazzo << Niente di importante >> sorrise, per poi voltarsi verso Naru << Noi. Scendiamo. Qui. >> sibilò, mentre il volto dell’artigiano diventava improvvisamente blu.
Beh, a quanto pareva ci avrebbe pensato lei a ucciderlo. Tanto meglio.
Rimise gli auricolari, ma questa volta partì un brano ben più delicato di Chopin.
Portò la testa all’indietro.
Ancora due fermate e sarebbe giunto nel suo quartiere. Nella sua casa in quella caotica città.
Se ripensava all’arrivo a Tokyo, il suo cervello veniva sommerso di immagini fugaci e ricordi assopiti. Era tutto troppo confuso per essere definito come un parte della sua vita, anche se questa era piuttosto importante. Aveva memoria solo della sua stanchezza: ah, sì, dopo un volo così lungo non si sarebbe dimenticato tanto facilmente di quella testa pesante e di quelle borse sotto gli occhi.
Poi c’era stato il clima: sì, perché il Giappone – al contrario del Nevada – possedeva un clima ampio, diverso da quelle estati troppo calde e da quelle primavere troppo lunghe del suo precedente continente.
Non sapeva dire neanche lui se gli mancasse o meno, casa sua. Qualche volta, si concedeva un momento di nostalgia, per pensare ai vecchi tempi. Poi scuoteva la testa, consapevole di essere un Idiota con la “I” maiuscola. Pensare al passato era davvero poco cool.
E poi – una volta abituatosi agli ideogrammi – la permanenza in quel paese era stata divertente. Anche se dare una mano alla correzione dei compiti di quei marmocchi non era stata una bella esperienza. Non avrebbe mai pensato di provare qualcosa di diverso dal terrore nei riguardi del prof Stein ma, più di una volta, si era ritrovato a esprimere la sua pietà per lui.
Eppure fare da balia a armi e artigiani di primo livello non rientrava nelle mansioni della falce della morte.
Almeno, per quanto ne sapeva, Spirit non si era mai permesso – né aveva mai tentato – di mettere mano ai loro voti. Sì, tranne quella volta che gli aveva segnato la l’insufficienza per un semplice commentino sarcastico.
Stupido vecchio pervertito.
E pensare che quello lì se ne stava a Death City, mentre lui – quello cool e forte – era stato spedito a fare gavetta dall’altra parte dell’oceano.
In fin dei conti era una cosa normale. Tutti facevano gavetta e per il vecchio padre di Maka non era ancora tempo di andare in pensione.
Imprecò a mezza voce, per poi scendere alla sua fermata.
Si divincolò tra lo stormo di persone, riuscendo a sbocciare all’aria aperta. Finalmente un po’ di vento dopo la tremenda afa del sottosuolo.

[***]

Imboccò velocemente le scale, percorrendo gli scalini a due a due. In quel momento, non vedeva l’ora di arrivare a casa, prendersi qualcosa da bere e sdraiarsi un poco.
La testa sembrava esplodergli, forse a causa della musica a volumi non proprio dignitosi.
Ritirò velocemente la posta, infilando al contempo le chiavi nel buco della serratura. Questa cedette con un stridio, lasciando posto a un piccolo bilocale.
L’appartamento dove alloggiava non era uno dei più grandi della città, ma non aveva niente da lamentarsi. L’essenziale c’era: cucina, bagno, stanza da letto.
Dopotutto, non condivideva più niente con nessuno.
Chiuse l’uscio con un piccolo calcetto, depositando le chiavi sul tavolo e dando un rapido sguardo alla posta.
Bollette, bollette, pubblicità, pubblicità, bollette, reclamo pubblico, busta con scrittura di Maka, bollette…. Busta con scrittura di Maka?!
Lasciò cadere l’accozzaglia di posta sul tavolo, dedicandosi a quella in particolare.
Oh, avrebbe riconosciuto la grafia della sua Meister tra mille.
Era quel tratto così deciso, ma allo stesso tempo timoroso, che rigonfiava in modo anormale quasi tutte le lettere. Carta bianca, adornata di nastro.
Fin troppo elegante.
Mittente… beh, quello era il suo vecchio indirizzo. Veniva da Death City, Nevada.
Sogghignò: erano mesi che non aveva sue notizie.
Gli avevano detto che era in missione, ma lui ci credeva poco. Sapeva che niente l’avrebbe mai tenuta fuori così a lungo. Era una tipa pragmatica, lei. Faceva tutto e subito, regolando minuziosamente ogni azione.
Aveva semplicemente smesso di rispondere alle sue mail, e lui se n’era quasi fatto una ragione.
Si trovava dall’altra parte dell’oceano, che ci poteva fare?
Se non voleva parlargli era così, punto.
Si sedette sul divano, aprendo con calma la missiva.
Lanciò uno sguardo di apparente sufficienza alla carta, aprendola ancor più lentamente.
La prima cosa che spiccò, fu un post-it “Se cestini la lettera senza leggerla – per pigrizia, magari – giuro che, quando ci vediamo, ti picchio a sangue”.
E questo eliminava ogni dubbio: era Maka.
Ghignò sardonico. Era proprio lei.
Ma il suo contenuto era ben diverso da una lettera. Una cartolina. Una squallida cartolina perfettamente e schifosamente cremisi, con abbondanti caratteri neri battuti a macchina, del tutto impersonale.
Una cartolina.
Una cazzo di cartolina che… che… che diamine… ?
Il suo cellulare si mosse appena, ma quel giorno – anzi, in quel momento, di preciso – non aveva voglia di farsi mille problemi.
<< Che cacchio significa questo, Black☆Star? >> sbottò. Anzi, forse ringhiò.
Non sapeva neanche lui se era arrabbiato o meno. E in ogni caso, perché avrebbe dovuto perdere le staffe?
Questo rise, dall’altra parte del telefono, facendo venire intenti sanguinosi alla falce.
<< Sapevo che avresti reagito così >> sotto le sue risate, si sentì un rimprovero da parte della sua arma, Tsubaki, che gli chiedeva gentilmente di smettere con quei suoi schiamazzi.
Povera Tsubaki.
<< Era questa la situazione tanto urgente? >> domandò, dandosi un ritegno. Si sistemò sul divano, in una posizione comoda ma allo stesso tempo ordinata, come se fosse a colloquio con qualcuno. Come se potesse avere davanti lo sguardo accusatore e divertito di quell’assassino.
Maka gli diceva sempre che quello - l’agitarsi sulla sedia, il mantenere una posizione composta – era segno di nervosismo da parte della Buki.
Cestinò immediatamente quel ricordo. Nervoso, come no.
<< Urgente? Non tanto. Fenomenale? Direi di sì >> ribatté l’altro, mantenendo quel suo tono canzonatorio.
Soul alzò gli occhi al cielo, consapevole del fatto che Black☆Star non poteva vederlo.
<< Insomma, più che fenomenale è una cosa assurda >> constatò pacato.
<< Per te sicuramente >>
<< Come no >> acconsentì, ironico << Ti sembro sconvolto, forse? >>
<< Hai un tono di sufficienza, amico >> constatò << Quando fai così c’è sempre qualcosa che non va >>
Soul si lasciò sfuggire una risatina << Figurarsi >> prese a giocare con il cartoncino che aveva tra le mani, facendogli fare sbalzi tra le sue dita e arriciandogli un poco gli angoli.
<< Insomma… >> riprese la Buki << Qui si parla di Maka… lei non può… non può mandarmi questa fottuta cartolina per dirmi che… che… diamine! >> borbottò, cercando le parole più adatte per esprimersi.
<< Soul, non è una cartolina. È un invito alle sue nozze >> ci tenne a sottolineare, andando a colpire il nervo scoperto dell’amico.
Sì, giusto, quella roba lì.
<< Ma stiamo parlando di Maka! >> ci tenne a sottolineare. Il quanto suo partner – okay, momentaneamente ex-partner – conosceva ogni sfaccettatura della ragazza. Ma chiunque avrebbe capito una cosa fondamentale su sul carattere, anche solo stringendole la mano: Maka odiava il genere maschile e disprezzava con tutta se stessa il matrimonio. Cos’è che le aveva fatto cambiare idea, ora? << Ricordi? Padre porco e genitori separati… odio viscerale per gli uomini… ? >> accennò, mentre il suo interlocutore tratteneva una grassa risata, sotto gli occhi di un’affranta Tsubaki. Sì, l’assassino si divertiva a rigirare il coltello nella piaga.
<< E poi… >> continuò la falce << … lei è Maka >> lo disse come se – quel fatto decisamente ovvio – comportasse con sé una serie di regole o di principi fisici.
<< E tu sei Soul, genio! >> sbottò sarcastico << Non mi dire che, lì in Giappone, ti sei dato alla castità! >> Black☆Star sorrise << Mi sembra giusto che anche lei si sia trovata… beh, qualcuno >>
Soul digrignò i denti. Forse non era stato proprio un santo e, forse, aveva avuto qualche… beh, non sapeva se definirla “avventura” o “relazione”. In ogni caso, aveva avuto anche lui compagnia, ma di certo non si era trovato moglie.
E poi... poi… lei era Maka!
Per qualche assurdo motivo, non riusciva a focalizzarla vicino a un ragazzo, sorridente. Oppure nel letto del suddetto uomo.
No, non ci riusciva per il semplice motivo che era Maka.
Quella scontrosa ragazzina piatta che aveva fatto di lui una Deathscythe. Di certo non poteva aspettarsi di essere affibbiato immediatamente al dio della morte. Era stata la sua compagna per tanto tempo, anche dopo la sconfitta del Kishin. Poi, tre anni prima, l’avevano assegnato alla regione nipponica.
Cosa normalissima.
Infine questa tagliava i contatti con lui e si faceva risentire con uno stupido invito.
<< Soul, ci sei o sei stato rapito dagli alieni? >> lo chiamò << Al grande ME non piace essere ignorato, Falce del miei stivali >>
<< Uhmm… >> gracchiò, ignorandolo pienamente << E chi sarebbe, il fortunato? >> dalla sua voce trapelò un poco di disprezzo. Beh, al diavolo.
<< Non c’è scritto? >>
<< No >> Soul si alzò, percorrendo il piccolo corridoio adiacente a quella specie di sala comune. Zigzagò tra degli scatoloni mai veramente aperti, lettere di corrispondenza buttate allo sbaraglio e carichi di biancheria da portare ancora a lavare. Infine giunse nella sua camera, e tirò giù dall’armadio la sua vecchia sacca della Shibusen << Ma ho intenzione di scoprirlo presto >> ghignò << E – giuro – che se questo qui non rispetta certi canoni, impedirò il matrimonio. Anche a costo di bruciare la chiesa >>
<< Ma non dovresti essere contento per lei? >>
La Buki aprì un cassetto << Lo so >> affermò, convinto << Ma è mio dovere proteggerla. Sono pur sempre la sua arma >>
Black☆Star – conscio di non poter essere visto – si lasciò andare a un sorrisino di rammarico. Era proprio incorreggibile, quell’idiota << Certamente. Mi ricordo che, undici anni fa, eravate peggio di una coppia di sposi: con le vostre litigate e i tuoi “la proteggerò a costo della vita”. Facevate vomitare. >>
Soul sbottò. Gli avrebbe voluto rispondere molto male: Maka era la sua migliore amica. Era ovvio che lui si preoccupasse così tanto della sua incolumità.
Sapeva che – nonostante le apparenze - sapeva essere molto fragile. Se questo qui di cui non sapeva il nome l’avesse in un qualsiasi modo ferita o tradita lei non si sarebbe più ripresa.
Non l’avrebbe permesso.
<< Black☆Star, sei consapevole di aver chiamato tu? >>
<< Oh, cacchio! >> esclamò, chiudendo il telefono.
Soul sorrise, dopodiché digitò il numero dell’agenzia. Nonostante fosse passato troppo tempo, passare dalla parlata inglese a quella giapponese aveva ancora uno strano effetto su di lui << Buongiorno, vorrei prenotare un volo per Death City >> attese un momento << Sì, Death CityNevada >>

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Spazio delle idiozie (Yahoooooooo!) -

Il giorno che smetterò di scrivere su questo Fandom, ricordatemi di fare una croce sul calendario, perchè di me – proprio – non se ne può più.
Se state leggendo queste righe, significa che siete vivi, in caso contrario… OMG! T^T verrò al vostro funerale. Oppure, se siete vivi e siete intezionati a venire voi al mio funerale, uccidetemi pure, me lo merito.
Ho iniziato a scrivere questa storia un po’ di tempo fa, e la pubblico solo ora perchè… non ne ho idea °\\\° forse era meglio se la lasciavo nel pc!
Per quanto riguarda l’aggiornamento: ho già qualche capitolo pronto, per cui… dovrei riuscire a fare in fretta.
Non ho altro da aggiungere, se non ringraziare quelle belle e pazienti persone che hanno letto questa storia, che continuano a leggere le mie storie e quelle che proprio non mi conoscono ma vorrebbero uccidermi comunque.§
Un abbraccio stritolatore a chi recensirà =D
Al prossimo capitolo!

Spoiler -

La buki davanti a lei si passò una mano tra i capelli argentei, guardando insistentemente l’orologio. Era da mezz’ora che faceva così. Mezz’ora.
Per tutto quel tempo, l’idiota non aveva fatto altro che insistere, stramazzare e rendersi ridicolo. Okay, proprio ridicolo no ammise fra sé e sé ma abbastanza comico da rasentare l’insistenza di Excalibur.
Si era presentato lì tutto di corsa, con quella sacca sotto braccio, sbattendole quel foglio in faccia, come se fosse l’ufficio reclami o chicchessia; pretendendo tutto e subito, come un dittatore capriccioso.
Ma lei non poteva farlo. Proprio no.

   
 
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