TI ODIO PERCHE' MI AMI.
Dedicato a Valentina, perché il tuo amore con Andrea
lo sento più vero di tutti gli altri, nonostante le peripezie.
Dedicato ad Andrea, perché hai reso felice la mia cara sorella
nel momento più buio che
attraversava.
1. Un tatuaggio marchiato a fuoco.
Buongiorno. Buongiorno. Buongiorno.
Vi state chiedendo chi sono? Non mi sorprende, se lo domandano in
molti. Ogni persona che mi vede per strada, nell'autobus, nel treno, a scuola.
Persino il mio compagno di banco si chiede chi sono. E non si tratta di
filosofia, anche se quella non migliora.
Innanzitutto, sono un ragazzo. Diciotto anni e mezzo, capelli scuri,
anzi, proprio neri, e occhi azzurri. Passo il tempo per conto mio, o meglio,
non lo passo proprio il tempo. Io lo conto, in ogni suo secondo.
Credete sia una cosa strana? No, per me è perfettamente consona alla
normalità dei miei giorni, alla monotonia della mia vita.
Certo, non dovrei lamentarmi, insomma, è colpa mia se scandisco i
secondi con la lancetta rossa del mio orologio, ma forse anche questo fa parte
di un progetto più grande che voi non riuscite a comprendere, a cogliere.
Se vi parlassi di morte? Mi prendereste per un ragazzo complessato
pieno di problemi e chiamereste lo psicologo, vero? Insomma, diciamocelo, non è
normale per uno della mia età. Però ora vi si illumina la lampadina sopra la
testa come nei cartoni animati, vero? A ripensare alla mia mania di contare i
secondi, intendo.
E se invece vi parlassi di felicità? Di quella finta, sia
chiaro. Nessuno è felice. C'è chi è contento, certo, ma non felice. La felicità
l'uomo ancora non l'ha mai sperimentata e non so se mai lo farà. Mettete giù la
cornetta del telefono e fate i seri, per favore: tanto nessun manicomio mi
vorrà mai ospitare.
In realtà, ho solo una parola per voi, quella parola che accompagna e
rafforza il frastuono di ogni misero secondo. Quella parola che nessuno
vorrebbe mai sentire propria, per paura, per tristezza, per terrore. Quella
parola che invece io sento marchiata in ogni centimentro della mia pelle, a
fuoco, nelle mie ossa; la leggo persino nel riflesso dei miei occhi quando mi
guardo allo specchio.
Leucemia.
A me fa un po' ridere sinceramente come parola: insomma, quando si
pronuncia "cancro" si percepisce quel suono aspro e cruento di una
malattia che uccide; per "tumore" mi si sconvolgono le viscere, è una
parola cupa, triste, come d'altronde la stessa patologia. Ma
"leucemia"... E' quasi dolce.
Un dolce tatuaggio nella pelle che ti condanna per sempre, ma uno dopo
un po' si arrende. Io, io mi sono arreso. Mi sono arreso a un'idea di una vita
lunga quanto un soffio di vento, per quello conto: per sapere quanto rimane
ancora di questo inferno. Inferno? Ma che dico? E' una pacchia! Ti trattano
tutti bene, ti portano rispetto, ti aiutano, conoscendo la tua situazione.
Chiudono un occhio e dicono solo cose carine. Una favola insomma, con la
differenza che nelle favole le persone non sono mai sole, c'è sempre qualcuno
accanto al protagonista, c'è sempre qualcuno persino accanto al cattivo, che
non lo meriterebbe. C'è sempre qualcuno.
Io, invece, son separato dal resto del mondo con questa barriera quasi
trasparente, gli altri hanno paura di guardarci attraverso, di affezionarsi
quindi a me per davvero, come se temessero di vedermi sparire da un momento
all'altro. Ed io non mi affeziono più a qualcuno dai tempi dell'asilo ormai.
Ma si fa l'abitudine anche a questo, con il tempo. A questa solitudine
un po' forzata e un po' voluta. Sì, voluta: d'altronde se io mi fossi
affezionato a qualcuno sul serio, non avrei mai accettato l'idea di dover
finire.
In realtà qualcosa un po' mi prude. Cioè, c'è un immagine che ho
impressa dentro di me, e non vorrei lasciarla. E' quella situazione che si
presenta sempre puntualmente ogni qualvolta salgo in autobus alla mattina.
Categoricamente in piedi, appoggiata al secondo palo a sinistra, con
una sola cuffia all'orecchio destro, che ascolta i lunghi racconti di quella
che credo sia la sua migliore amica, c'è Lei. Con i capelli rossi,
lisci, gli occhi castano chiari, lineamenti dolcissimi. Il suo nome non lo so,
non so a che scuola vada, da dove venga, quanti anni abbia, quale sia la sua
voce. Non conosco niente di lei, eppure ricordo il suo viso come se l'avessi
dipinto in un quadro che porto sempre con me, cosa che non ho fatto ma a cui
avevo fatto un pensierino seriamente.
Ecco, lei è l'unica persona che mi fa ancora provare qualcosa,
un po' di nostalgia forse, una leggera brezza di tristezza all'idea di lasciare
il mondo.
Si guarda sempre in torno, osserva le persone, e ogni tanto ha con sé
una macchina fotografica con cui immortala dei ragazzi che a me appaiono
sinceramente normali, al limite della normalità. Ma lei li osserva, quasi come
se ne fosse innamorata, e lo vedo che ama quella sua macchina fotografica, che
custodisce gelosamente.
Non mi ha mai osservato. Non mi ha mai fotografato.
E questo non so se considerarlo un bene o un male. Probabilmente non
mi trova abbastanza interessante per la sua collezione di persone, non trova
gusto nel mangiarmi con gli occhi. Ed ecco che scatta quell'impeto di invidia
dentro di me, perché anch'io voglio provare ad essere qualcuno, anch'io la
voglio ammaliare, anch'io voglio esser immortalato. Io la voglio.
Poi mi maledico, perché non posso essere così egoista da voler una
persona, nella mia condizione. Ricordalo, ricordalo Alessandro: leucemia.
E così ricominciano i battiti lenti del mio cuore a contrastare quelli
dei secondi, abbasso lo sguardo e non c'è più, è scesa alla fermata e si guarda
attorno con la macchinetta fotografica in mano, pronta a cogliere al volo
l'istante meraviglioso che non riesco a percepire.
Per un solo istante, come ogni giorno, ho come l'impressione che mi
stia guardando con la coda dell'occhio, ma rimango sempre deluso quando vedo
che invece sta semplicemente salutando la sua cara migliore amica che invece è
ancora nell'autobus e scende tre fermate dopo.
Una volta, spinto dalla curiosità, mi ero avvicinato e avevo sbriciato
la canzone che stava ascoltando sull'ipod. Ad averla solo a qualche centimetro
da me era scattato qualcosa dentro, una specie di scarica elettrica da brividi,
una specie di connessione. Avevo come la sensazione che si sarebbe girata, ma
non l'ha fatto. Ed io ero rimasto a guardare il titolo della canzone sullo
schermo, fino a stamparmelo bene nella mente.
Non la conoscevo, così appena arrivato a casa l'avevo scaricata subito
e mi ero messo ad ascoltarla; non era proprio il mio genere, ma mi piaceva.
Persino adesso, che lei se n'è andata, prendo il mio vecchissimo mp3 e
l'ascolto.
When I look at you,
s'intitola.
E non ho mai trovato testo più veritiero, di questo ne sono convinto.
Di nuovo scuoto la testa, e guardo fuori dal finestrino: un'altra
fermata e posso scendere finalmente, e dirigermi a quel liceo odioso che
frequento da quattro anni e mezzo. Oggi è il 20 dicembre, e finalmente ci
saranno le vacanze di Natale tra qualche giorno. Non ne potevo più di questa
scuola continua, non mi piace, non m'interessa, non la voglio. Ho un tempo di
due mesi circa e persino studiare ciò che mi piace di meno, devo. Ma che bello.
Entro in classe, appoggio la cartella sul banco, mi tolgo il giubbotto
che puntualmente appendo alla sedia, e già da questo si nota un bel distacco:
tutte le altre giacche sono sugli attaccapanni in fondo all'aula, invece la mia
no.
Entrano i miei compagni e accennano appena ad un saluto, mentre io
ormai sono talmente abituato a starmene per conto mio che so benissimo come
rimediare: apro la cartella e tiro fuori "Windgirls", il libro che
sto leggendo. Parla di anoressia, parla di una storia triste, e a me piacciono,
le storie tristi, mi fanno sentire a casa.
Ora, non pensate che io sia l'antipatico o l'escluso della classe, non
è così. Mi vogliono tutti bene, solo che non abbiamo un rapporto stretto come
sarebbe giusto fosse. Non abbiamo voluto averlo, c'è stato questo tacito
accordo dopo i miei primi rifiuti di uscite e quant'altro per colpa delle
chemioterapie e degli interventi vari. In classe si scherza, si ride, fuori mi
lasciano stare a contare i secondi.
Loro lo sanno.
Lo vedono, lo percepiscono, che me ne sto andando. E lo sento anche
nel tono in cui mi rivolgono la parola, quasi avessero paura di ferirmi, di
dirmi qualcosa che mi faccia star male. Non capiscono che così peggiorano, che
in questo modo mi sento un animale da zoo. Come se potessero sul serio pensare
che mi piaccia tutto questo.
Questa solitudine un po' forzata e un po' voluta.
Così passano le ore, tra le interrogazioni, tra le domande del mio
compagno di banco Francesco che non capisce nulla di matematica, tra le risate
con il professore di latino.
E come ogni giorno, quando suona la campanella, Francesco si gira
verso di me e mi chiede: "Chi sei?", come se fosse davvero convinto
che io gli risponda.
Non ho mai risposto, perciò se vi chiedete ancora chi sono, sappiate
che lo state facendo inutilmente, non ho intenzione di spiegarvi qualcosa che
non so nemmeno io.
Chi sono? Vi basti sapere che sono Alessandro, che ho un'ossessione
per quella ragazza dai capelli rossi e gli occhi castani e che ho un tatuaggio
marchiato a fuoco nella pelle che porta il dolce nome di leucemia.
{ Spazio Harry_Jo.
La scrivo per lei, Valentina, mia
sorella più grande, e Andrea, un amico (o qualcosa di più?) che ha una grave
malattia.
Nonostante questo, la storia è
puramente inventata.
Fatemi sapere che cosa ne pensate, vi
prego, davvero è importante. E’ importantissima. Vi chiedo un minuto della
vostra vita per recensire, perché voglio che sia una cosa speciale, che venga
bene: sarà un regalo per entrambi, se viene abbastanza bene, sperando che lui
non svanisca troppo presto.
Vostra
Harry_Jo