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Autore: Siamo_infiniti    04/11/2010    8 recensioni
Era schivo, minuto ma bello. Indossava felpe scure, jeans strappati e non ricordavo di avergli mai visto ai piedi qualcosa di diverso dalle converse sbiadite e sporche in punta. Quella volta che mi avvicinai alla sua piccola figura, per parlargli o invitarlo che fosse, i miei colori ed il mio ordine si scontrarono quasi violentemente con la sua ombra perpetua. Ricordo di aver notato i suoi capelli biondi, spettinati, un po’ mossi e un po’ sul viso; i suoi occhi grandi e cerchiati dalla stanchezza si posarono su di me e io li scoprii grigi e pungenti. Mi aveva guardato per lunghi attimi, incuriosito. Poi aveva alzato un sopracciglio come dire “Beh, allora? Che vuoi?”
Genere: Erotico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dopo anni, eccomi ri-approdare qui. Una shot, nulla di speciale, nata durante una noiosa lezione di latino.

Desideravo condividere con voi la mia rara ispirazione.

Grazie a Denni (Per aver decifrato la mia calligrafia nella bozza della storia)

Grazie a Liz (Per avermi spronata a continuare con le sue dolci parole)

Grazie alla mia fidata compagna di banco <3 (Per tutto.)

 

(La storia potrebbe essere anche pubblicata su http://fanficstories.forumfree.it/ . Preciso per non incombere in equivoci.)

 

Chiedo perdono agli amministratori del sito in caso ci fosse qualche errore nella pubblicazione, ma ho cercato di leggere e assorbire al meglio il regolamento.

 

 

How do you rate the morning sun?

 

Vederlo mano nella mano con un altro uomo è sempre una sorpresa.

Can you see those stars from where you are now?

Quando lo conobbi io, Elias non era nessuno. Era solamente il tipico ragazzino malvestito e spettinato, senza un’idea su cosa la moda effettivamente fosse, mentre io ero il figo, quello pieno di soldi, quello che viveva di rendita. Eravamo gli opposti. Fisicamente, mentalmente, socialmente.

Ma gli opposti si attraggono, no?  Dopo quanto, però, l’attrazione si esaurisce? Appena qualcuno si fa male? Appena qualcuno si affeziona? O magari ancora prima, al principio dei fatti? Forse tutto comincia e termina con il primo sguardo?

Elias ed io seguivamo le lezioni di chimica insieme: l’unica cosa che ci accumunava era la scarsezza in quella diavolo di materia, ma mentre io ero preciso, attento e riuscivo ad accaparrarmi qualche quasi sufficienza, lui era disordinato, sbadato ed una completa frana con dei voti che rasentavano quasi l’inclassificabile.

Esattamente non ricordo come, però un giorno finimmo per parlarci. Forse quella sera dovevo dare una festa e lui e i suoi amichetti scapestrati mi servivano per colmare la sala che avevo affittato, o magari la mia squadra di basket aveva bisogno di tifo extra per la partita della domenica. O solamente era stato il mio desiderio d’ascoltare la sua voce che mi aveva sospinto verso la sua postazione.

Era schivo, minuto ma bello. Indossava felpe scure, jeans strappati e non ricordavo di avergli mai visto ai piedi qualcosa di diverso dalle converse sbiadite e sporche in punta. Quella volta che mi avvicinai alla sua piccola figura, per parlargli o invitarlo che fosse, i miei colori ed il mio ordine si scontrarono quasi violentemente con la sua ombra perpetua. Ricordo di aver notato i suoi capelli biondi, spettinati, un po’ mossi e un po’ sul viso; i suoi occhi grandi e cerchiati dalla stanchezza si posarono su di me e io li scoprii grigi e pungenti. Mi aveva guardato per lunghi attimi, incuriosito. Poi aveva alzato un sopracciglio come dire “Beh, allora? Che vuoi?”.

Dopodiché il mio cervello si era impuntato nell’intraprendere un trip mentale che vedeva lui e me sdraiati su una coperta stesa su un prato verde impegnati a fare l’amore senza smettere di toccare le nostre labbra. Sì, senza dubbio io caddi immediatamente preda del suo fascino dettato dalle labbra rosee, dal nasino alla francese e dalle mani sottili e delicate, ma un po’ callose.

Si vociferava, effettivamente, che fosse un chitarrista, ma siccome era bollato come “sfigato, perdente, nullità completa”, in quella scuola, in quegli anni, quella gente non aveva quel tempo per sparlare o lodare quell’Elias.  

Nei suoi occhi c’era segnata una domanda, quella domanda che recitava più o meno: “Un figlio di papà come te, coi soldi che gli escono dal culo, i vestiti firmati e la macchina nuova fiammante, che diavolo ci fa in una scuola pubblica? E soprattutto, che cavolo c’entra con me?”

Una sera, ad una festa scolastica, mi era scivolato accanto e silenziosamente si era seduto, le gambe poggiate al sedile davanti, le mani nelle tasche della sua felpa grigia, il mento poggiato al petto.

Io, con i miei capelli neri, i miei occhi verdi e la mia divisa da basket colorata, ero in completo contrasto con lui. Mentre apriva le labbra per parlarmi, i suoi occhi coprivano il suo viso, eppure io vidi un sorriso increspare gli angoli della sua bocca. Era un sorriso divertito, credo.

-Ho le soluzioni del compito di chimica. Siccome so che tu te la passi malissimo proprio come me e che alcune tue sufficienze le becchi solo perché tuo padre è conosciuto, ho pensato di condividerle con te.-

Immediatamente mi chiesi quanto tempo gli fosse servito per mettere insieme un discorso simile e mi domandai anche quanto fosse sensuale con quella voce un po’ roca e bassa.

Dopo qualche attimo di perplessità e smarrimento, gli risposti con un semplice ringraziamento. E sperai non si smettesse mai di premere la sua spalla contro la mia.

Il vero problema si presentò quando qualche altro studente cantò, facendoci espellere dalla lezione e beccare una punizione per le ore seguenti. Mi ero cacciato in un bel casino, ma che mi importava? C’era lui.

Il professor Struck aveva deciso che sarebbe stato inutile farci sospendere dato che per danneggiarci sarebbe bastato invalidarci il compito.

-Mi chiamo Erik.- mi ero presentato io, poggiandomi all’asta della scopa, fermo nel mezzo della grande palestra, concentrato sul riprendere fiato e sgranchire i muscoli della schiena.

-E quindi?- aveva domandato lui impegnato in una strenua lotta con i graffiti sui muri bianchi. –Tutti conoscono il tuo nome. Il riccone venuto nella scuola dei poveracci.- aveva risposto voltandosi, un ciuffo ribelle sugli occhi e una spugnetta tra le dita.

La sua risposta mi aveva lasciato sbalordito e pure un po’ offeso; volevo solamente essere amichevole, siccome eravamo lì insieme. E soprattutto il mio cuore esplodeva all’idea di essergli lì accanto.

-Beh, credevo che tu non fossi “tutti” e che tantomeno non ti identificassi in loro né ti ci accumunassi.- avevo bofonchiato io, la voce un po’ scocciata ma il viso rosso. Non vedeva che mi piaceva? Che mi aveva creato e ucciso con i suoi occhi grigi? Grigi come il cielo in tempesta, grigi come il mare in burrasca, in burrasca come il mio cuore in confusione?

-La tua è una risposta degna, sai?- aveva detto. E mi aveva sorriso.

Avevo desiderato, in quel momento, che il suo sorriso non si spegnesse mai.

 

Adoravo fumare e bere. Elias, a contrario di quanto si potesse credere guardandolo e osservandolo per un po’, odiava alcool e sigarette. Così, quando ero con lui, il mio pacchetto rimaneva intatto.

-Mi piaci.- avevo ammesso qualche tempo dopo seduto al tavolo posizionato nel mezzo della sua veranda, un cartone di succo d’arancia ed un posacenere messo lì, quasi come prova per me, per vedere se riuscivo davvero a resistere al mio vizio.

Elias aveva alzato gli occhi, quasi disinteressato. –Credevo fossi etero.,- aveva controbattuto con tono pacato. Cosa?! Sapeva dirmi solo questo?!

-No, cioè sì. Mi piacciono anche le ragazze.- avevo sospirato –Ma tu… tu mi piaci in tutto. Nel carattere, nel modo d vestire, di parlare, di muoverti, mi piacciono i tuoi occhi, il tuo viso, il tuo corpo.- avevo spiegato cercando disperatamente una conferma in lui.

Elias si era alzato dalla sedia e avevo avuto il terrore mi cacciasse via. Aveva fatto mezzo giro attorno al tavolo e avevo avuto la paura paralizzante che mi rifiutasse. Si era piegato verso di me e avevo avuto il timore che mi urlasse il suo schifo. Mi aveva lasciato un bacio sulle labbra. Ed avevo messo a tacere ogni angoscia.

Avevo boccheggiato, in preda ad un batticuore esagerato, toccato la sua mano, sfiorato le sue dita, tastato la sua pelle e lentamente avevo approfondito il bacio.

Quando si era staccato con un leggero mugolio, avevo davvero pensato di essere un ottimo baciatore. Il suo sorriso, in quel momento, mi rese la persona più felice del mondo. Per quanto contento fossi, però, ero confuso: cosa significava tutto ciò? Dopo il primo bacio scattava automaticamente la relazione seria? Il bacio era solo un modo per prendersi gioco di me? O una maniera per vedere se sapevo baciare? Pensai tutto ciò. Ma ebbi paura di domandarglielo.

L’iniziativa in quegli attimi era come una palla che passava da me a lui, decidendo il turno.

E siccome toccava di nuovo a me, raccolsi la sua mano abbandonata lungo il fianco e mi alzai. Fronteggiandolo e guardandolo dall’alto del mio metro e settantotto, portai le sue dita contro il mio cuore che batteva scontrandosi forte contro le pareti che lo costringevano in quello spazio angusto.

-Lo senti? Batte per te.- sussurrai scandendo bene le parole e sottolineando le ultime due. –Batte a causa tua, batte da quando tu sei con me. E quando non ci sei, si spegne. Io non lo so se ti amo, ma voglio frequentarti. Forse risulto troppo sdolcinato ma giuro che non sono sempre così.- sorrisi appena, per smorzare quel momento. –Voglio solo farti comprendere che hai portato lo scompiglio, in me.-

Lui era rimasto in silenzio, ma i suoi occhi grigi erano fissi sulle nostri mani intrecciate contro il mio cuore.

Ma quel cuore ormai non mi apparteneva più. Era suo. Solo suo.

Quando sorrise, e Dio non me lo ero immaginato perché aveva sorriso davvero!, il mio voltò si era illuminato.

-Va bene.- aveva sospirato –Frequentiamoci- aveva consentito. –Ma non prendertela con me se la tua reputazione verrà danneggiata.- e come in un inchino, aveva poggiato le labbra sull’intreccio delle nostre dita.

Effettivamente non importava che io uscissi con un uomo, ma che uscissi con lui.

Chi in quella scuola aveva avuto il tempo necessario di informarsi su di lui da quando si vedeva in giro con me, aveva saputo che era orfano di padre e che la madre passava di letto in letto. La sera, lui lavorava come spazzino (ed ecco spiegati i contorni neri degli occhi) e la sorella, la notte, intratteneva i clienti del nightclub della città.

“Suona la chitarra agli angoli della strada con la speranza di elemosinare, è un poco di buono.”

-Non è vero- aveva risposto lui pazientemente il giorno che, seduto accanto a lui, avevo osato esporgli i miei dubbi –Siamo un gruppetto e una o due volte all’anno ci invitano in locali per suonare qualcosa e facciamo un po’ di soldi.-

Avevo sentito una punta di gelosia punzecchiarmi il cuore. Chi era questo pubblico che poteva vederlo muovere le dita sulle corde? Ben presto, decisi, gli avrei chiesto di suonare per me.

-Inoltre,- aveva interrotto il mio piano malefico –le altre informazioni raccolte sulla mia famiglia sono vere. Ma dovremo pur campare in qualche modo, no? Mia madre e i suoi buoni a nulla non ci assicurano dei pasti caldi tutti i giorni.- avevo intercettato del disprezzo. –Sappi, però, che io non mi prostituisco come mia sorella.- e nel pronunciare questa frase i suoi occhi grigi avevano scintillato d’orgoglio.

Per quanto riguarda il nostro frequentarci, precedeva senza intoppi da qualche settimana. Non ci eravamo mai spinti oltre i baci, le carezze e qualche strusciamento.

Avevamo dormito assieme, quando non doveva lavorare, ma non era accaduto; non avevamo problemi di erezione o eccitazioni e nemmeno volevamo attendere un momento magico o qualsiasi altra stronzata. Semplicemente non era successo, ancora non ne avevamo avuto il bisogno e non ce ne facevamo né una colpa né un cruccio.

Ci piaceva dormire insieme, baciarci, sentire le nostre virilità scontrarsi ed i nostri semi mischiarsi.

Mi ricordo le nostre nottate tranquille con un particolare affetto; prima di cenare, io avevo sempre l’abitudine, o vizio, di fumarmi una sigaretta ma non quando c’era lui.

Mangiavamo insieme, nella mia villa, e dopo ci spalmavamo sul divano a commentare programmi stupidi mentre io accarezzavo lentamente i suoi capelli, disfacendo i suoi ricci blandi passando le dita tra le ciocche. Elias, invece, poggiava il capo sulle mie ginocchia, il telecomando stretto in mano, un braccio abbandonato lungo il fianco, uno dietro alla testa. Eravamo belli, insieme. Eravamo gli opposti. Uno biondo, l’altro moro, uno dagli occhi scuri, l’altro chiari. Uno povero, l’altro ricco, uno ombroso, l’altro splendente.

Quando la stanchezza si impossessava di noi e colorava i nostri occhi di rosso, ci alzavamo e comminavamo uniti fino al piano superiore.

Nella mia stanza, al sicuro nella nostra intimità, Elia mi premeva contro la parete e baciava lentamente le mie labbra, passando le mani sulla mia schiena.

Mi piaceva e inteneriva allo stesso tempo il fatto che dovesse alzarsi sulle punte dei piedi per toccare la mia bocca. Allora io, preso da un moto di dolcezza, lo stringevo forte a me, lasciando finire la sua lingua a lambire il mio collo. Mi faceva emettere un sospiro di piacere, ogni volta che sfiorava quella pelle delicata.

A volte credevo di poter impazzire sotto il suo tocco, allora spingevo il mio bacino contro il suo e lo sentivo eretto, proprio come me. Lo guidavo fino al bordo del letto dove lo facevo cadere e lo sovrastavo col corpo.

Erano belle le sue labbra, erano dolci i suoi gesti e sentivo di essermi innamorato di lui.

Elias però non esprimeva a voce alta i suoi sentimenti, mai. Nemmeno le sue sensazioni, nemmeno i gemiti di piacere. Dopo aver tremato uno contro l’altro, impossessati dalla libidine, ci alzavamo e cambiavamo le lenzuola macchiate di noi. E dopo, abbracciati come due koala in cerca di coccole ci addormentavamo.

Scontrare il mio sesso col suo fino a sentire di poter morire in quel momento, fino a sentirlo pulsare sotto di me e a causa mia, tastare i suoi residui di piacere sulla biancheria e sulla mia pelle era qualcosa che mi rendeva pazzo di lui e che mi portava a desiderare di rimanere insieme a lui tutta la vita.

Elias era stupendo. Era mio. Ed io l’amavo.

 

Tra i miei ricordi è gelosamente custodita la notte delle stelle cadenti. Quella sera Elias non doveva lavorare e avevamo deciso di rimanere insieme. Vicino a casa sua c’era un grande prato sul quale quasi nessuno si recava poiché si pensava fosse un cimitero. Ma se anche fosse stato così, le anime dei morti in quei tempi, lì fuori, nel mondo, non si sarebbero sentite sperse e inadatte come noi due?

Sdraiati sul lenzuolo steso sull’erba incolta mi venne in mente il primo pensiero che ebbi parlando con lui. Me e lui su un prato a fare l’amore, no? Beh.

Il mio braccio cingeva la sua vita e le dita giacevano contro la sua pelle calda. Elias, poggiato con una mano al mio metto, stava voltato nella mia direzione su un fianco, combaciando con me. La sua gamba, arrampicata sulle mie, mi provocava ondate di calore che, da bravo ragazzo quale ero, ignoravo puntualmente.

Inoltre, sotto la luce della luna, il suo viso era ancora più bello, la sua pelle quasi incantata.

-Sono sereno, quando sono con te.- aveva ammesso alzando gli occhi verso di me; io avevo sorriso, contento di sentirmi confessare una simile sensazione. Pensavo che il momento di ammettere il mio amore per lui fosse vicino ma le mie labbra si rifiutavano di scollarsi ed aprirsi.

-Sono belle le stelle, eh, stanotte?- aveva allora domandato. Nella sua voce c’era una sorta di serenità e dolcezza che quasi avevo desiderato cominciare a piangere come un bambino.

-Le vedi bene, da lì?-

Can you see those stars from where you are?

-Sì, benissimo.- aveva controbattuto ed io avevo davvero creduto che lui fosse cambiato molto durante i mesi con me trascorsi.

Il fatto era che non sentivo nessuna pressione, quando stavo con lui. Nessuna pressione, nessuna paura, sapevo che lui non si aspettava nulla da me né da noi perché la vita gli aveva insegnato così, a non aspettarsi nulla né pretendere niente.

-Voglio tatuarmi la nostra iniziale sul fianco.-

Ero stato colpito. Ucciso. Esaurito. Disintegrato. Ridotto in pezzi dalla sua decisione.

Non era il tatuaggio lì per sé, sai cosa me ne importava! E nemmeno il discorso della lettera sul corpo, mi aveva colpito. No, no. Era l’aggettivo possessivo da lui usato che aveva fatto implorare l’ossigeno al mio respiro affannato.

La nostra. Era una tacita promessa, la sua?

-E vorrei che tu lo facessi con me.- aveva aggiunto lentamente, timoroso per un attimo.

Non mi venivano le parole, no, davvero. Non riuscivo a dir nulla, veramente. Mi ero puntellato sul gomito, avevo preso il suo mento e lo avevo stretto dolcemente tra le dita. Lo avevo baciato con tenerezza, lentezza, con amore.

-Ti amo.- avevo risposto solamente e con il suo corpo accoccolato al mio, il sorriso acceso sul suo viso, la notte aveva lasciato spazio all’alba, facendoci ritrovare uniti ed innamorati sotto i raggi tiepidi del primo sole.

How do you rate the morning sun?

 

 

Il tatuaggio era stato più doloroso di quanto avessi potuto pensare. L’ago aveva tracciato una E sul mio fianco arrossando la pelle e rendendola gonfia. Avevo tenuto gli occhi chiusi tutto per il tempo, quasi terrorizzato. Elias, invece, era stato tranquillissimo, sereno e aveva amabilmente conversato con la ragazza.

Avevo voluto con tutte le mie forze pagare io i due segni con l’inchiostro ma lui, impuntato, aveva ringhiato, borbottato e addirittura bloccato la mia mano con la banconota stretta. Orgoglio, eh?

Io lo avevo guardato, avevo sorriso e consegnato ugualmente i soldi.

La sera, tornando a casa da solo, mi ero messo a frugare nelle tasche in cerca di sigarette e accendino –cose delle quali ormai facevo praticamente a meno- e avevo incontrato sul mio cammino dei soldi. Erano la cifra precisa del tatuaggio. Così avevo sospirato conoscendone perfettamente la provenienza. In quel momento decisi che, siccome la mia idea di regalargli il tatuaggio era stata mandata in fumo, spiaccicata, accartocciata, il giorno dopo sarei andato a cercare qualcosa per noi.

Quando ci eravamo incontrati la volta successiva, portavo con me un pacchettino.

Non so quanto avevo rasentato la necessità di un’iniezione di insulina dovuta alla dolcezza diabetica del gesto, ma nulla potrà mai restituirmi la luce che in quel momento aveva acceso i suoi occhi.

 

Adesso avevamo un anello uguale: sottile, semplice e di oro bianco. Non era esattamente un regalo di fidanzamento, no. Eravamo fuori dagli schemi, noi.  Non avevamo bisogno di promesse materiali. Sì, l’anello era qualcosa di materiale ma stipulava un legame tra le nostre anime.

Ora, mano nella mano, camminando per strada, i raggi del sole ci illuminavano. A volte ci piacevano gli sguardi delle persone su di noi e spesso io tenevo stretta la sua mano nella mia per provocazione. Il fatto era che in questa città la gente se ne fotteva di chi ti piaceva. Del sesso, dico. Perché importava l’identità della persona, non i gusti.

Allora io, per provocare, stringevo forte la sua mano. Avete visto? Io, Erik Hill, figlio del grande Richard Hill, esco con lui, il più straccione in assoluto.

“Quell’Elias è un ragazzaccio, uno scapestrato, non devi frequentarlo!”

Ma nonostante tutte le dicerie, io non avevo perso i miei amici e lui i suoi. Anche se preferivamo uscire da soli, a volte capitava che io e un mio vecchio amico prendessimo le auto, uscissimo e mischiassimo ricchi e poveri, senza che ognuno lodasse o facesse pesare la propria posizione sociale.

Andavamo al mare, o a bere o magari ci rifugiavamo a casa di qualcuno, che di solito era la mia villa, così dopo Elias poteva rimanere a dormire da me.

Credevo che io e lui fossimo il filo che legava le due compagnie, quelle così diverse, ma solo qualche mese dopo me ne dovetti ricredere.

Se ancora ci penso, non riesco esattamente a capire come il momento del declino del nostro amore arrivò.

Non ricordo come, ma crollammo, così, quasi dal nulla, anche se il nostro castello di sabbia, che era un castello incantato, fiabesco, degno di principi, cominciava ad avere delle crepe, le quali però, a volte, riuscivamo a riparare con dei pugni di sabbia bagnati.

Quasi sei mesi dopo il regalo ed il tatuaggio, quindi quasi un anno dopo dall’inizio, o la fine?, di tutto, dopo aver fatto le vacanze in montagna insieme, dopo aver passato le insufficienze di chimica con le nostre forze unite, dopo aver fatto l’amore sotto le stelle, fino al sorgere del sole, dopo avergli chiesto mille volte se da quella posizione vedeva il cielo stellato, dopo avergli domandato se il sole mattutino lo rallegrava o intristiva, dopo essere scivolato in lui con violenza, passione, lentezza ma sempre con amore.

Dopo tutto questo cominciò la nostra caduta verso gli inferi. Dritti dritti, senza fermate. Un unico tragitto. Un unico crollo.

Quando discutevamo, quando ci lasciavamo e ci riprendevamo.

Perché non torni e…beh…perché non torni e basta? Sto morendo, qui, senza di te.

Quando la notte mi mancava il respiro solo a pensarlo, quando lo stomaco mi doleva, quando la nausea si impossessava di me e mi trascinava nel bagno con lei, quando la testa faceva male, scoppiava, quando i pensieri mi vorticavano attorno, quando sentivo di amarlo troppo e di averlo perduto, quando capivo di non riuscire a vivere senza di lui.

In tutte queste sensazioni il fianco mi bruciava. Il tatuaggio si arrossava, si gonfiava, ed era come se potesse prendere fuoco da un momento all’altro.

Stavamo male, ce ne facevamo anche, distruggendoci, un pezzetto per volta, via questo, poi via quello. La ragione ci era già stata strappata, rimaneva, ora, solo il cuore. Per ultimo, come se cercassimo di salvarci.

Cercavamo di rattoppare il rapporto, ma il terreno continuava a creparsi sotto i nostri piedi, sotto le sue solite converse nere, sotto ogni certezza che lentamente svaniva.

Ci provavamo, davvero. Litigavamo, poi ci chiedevamo scusa. La gelosia ci infiammava, ci riduceva in cenere, poi d’un tratto, come se fossimo fenici, rinascevamo assieme, di nuovo uniti e riprendevamo a parlare, sorridere, uscire e a fare l’amore.

Forse tutto questo ci rendeva vivi e non apatici.

Forse quando subentrava la quotidianità, farsi del male era l’unica maniera per sentirci ancora in vita.

 

Sì, era finita, finita e basta. Per delle cazzate, per dei problemi gravi, eppure era finita.

Avevo desiderato ardentemente la morte, avevo desiderato sparire. Arrivare all’atarassia, come dicevano gli stoici. Volevo azzerare ogni mia sensazione, ogni passione. E Dio solo sapeva quanto stessi soffrendo.

Era novembre, questo lo ricordo benissimo.  Pioveva, una pioggia fitta e fastidiosa. Sotto la mia giacca di pelle tremavo di freddo. Sentivo i brividi, ma percepivo ugualmente il tatuaggio dolere sotto i vestiti.

Le foglie giallognole e secche vorticavano accanto a me, come se mi volessero accompagnare nella mia lunga camminata verso la follia. Che carine erano, non mi lasciavano sole.

Il nostro addio era stato doloroso, più di quanto pensassi. Lui aveva deciso di partire, via con sua sorella che nel frattempo aveva raccolto abbastanza denaro per permettersi una casa in un’altra città. Forse quel trasferimento era arrivato nel momento giusto.

Camminavo, come un ubriaco barcollo. Sentivo le mani fredde, le dita perdere il tatto delle cose. Gli occhi erano appannati, perché non riesco a vedere ciò che mi circonda? Oh, sì. Sono lacrime. Le conobbi così tanto, in quei tempi.

Vorrei essere un fantasma, sparire dalla vista di ogni persona, di ogni cosa. Vorrei possedere l’invisibilità e confondermi con il paesaggio, diventare grigio, piovoso e triste come la natura che mi circonda.

Vorrei tornare da lui e pregarlo di non partire.

Mi ero seduto su una panchina, fradicio. E lì avevo deciso di aspettare che la morte mi alleggerisse l’anima.

Ma non era arrivata mai.

 

[…]Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com'ebro, e mi tocco,
non anch'io fossi dunque un fantasma. 
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l'anima! 
Io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre. 
Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere,
meglio quest'ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi 
in un tedio che duri infinito. 

 

Vederlo mano nella mano con un altro uomo è sempre una sorpresa.

Beve il caffè, sorride all’uomo, accavalla le gambe. È ben vestito, è più grande, i suoi tratti sono più maturi. La sua voce è un po’ cambiata, ma la sua bocca è sempre uguale, le sue mani pure. Gli passo accanto e sorrido. Spero che mi abbia riconosciuto, lo spero con tutto il mio fottuto cuore. Quel cuore che era stato suo.

Quando esco dal locale il sole splende e mi accorgo che è mattina. Mi accorgo di essere rimasto intrappolato nei ricordi un sacco di tempo.

Guardo la palla di fuoco ardere dinnanzi, seduto su una panchina del parco, sospiro. Ma il mio è un sospiro leggero, rilassato.

Non aspetto la morte, no.

Aspetto che la felicità mi passi a prendere.

 

Elias, come ti sembra il sole mattutino?

 

 

 

Note finali: Rileggendo, trovo che non abbia nè capo nè coda. Ma comprendo anche che mi piace, sì, in quanto mia prima storia in prima persona. Per me è un po' un nuovo stile, ma sono abbastanza soddisfatta del risultato.

Spero di aver regalato qualche attimo di spensieratezza anche a voi.


Il titolo e le derivate citazioni sono parte di "Morning sun" di Robbie Williams.

"Perchè non torni e...beh, perchè non torni e basta? Sto morendo qui, senza di te" tratto da "Baciami ancora"

Infine, la poesia è parte di "Alla stazione in una mattina d'autunno" di Carducci.

 




  
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