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Autore: Milla Nafira    07/11/2010    1 recensioni
Adesso avevo trent’anni, ero una donna seria e rispettabile, una gran lavoratrice, avevo un lavoro, un appartamento, delle responsabilità e una vita impegnata da donna in carriera. Non ero e non ero mai stata il tipo di donna che si perde dietro a fantasticherie o sogni irrealizzabili, non avevo mai voluto trasgredire, ero sempre stata una brava ragazza.
E allora com’era possibile che io avessi permesso ad un sedicenne bugiardo e viziato di stabilirsi in casa mia, di entrare nella mia vita e sconvolgerla? Com’era possibile che avessi davvero creduto che i suoi genitori fossero in viaggio per lavoro? Come avevo potuto farmi mettere nei guai da questo bambino? Ma, soprattutto, com’era possibile che mi fossi innamorata di lui?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PROLOGO

-Nico, no-. Mormorai scostandomi per evitare il suo bacio che mi resi conto di desiderare più ardentemente di quanto credessi.

-Perché no?-. Brontolò lui.

-Sei troppo giovane-. Risposi cercando di darmi un tono sicuro, ma la voce mi uscì smorzata e stridula.

Com’era potuto succedere? Io non ero una ragazzina del liceo che aspettava solo di essere considerata dal bello della scuola, non lo sono stata nemmeno a mio tempo. Sono sempre stata una studentessa diligente e una ragazza timida, chiusa ed introversa, non ho avuto un ragazzo prima di andare all’Università.

Adesso avevo trent’anni, ero una donna seria e rispettabile, una gran lavoratrice, avevo un lavoro, un appartamento, delle responsabilità e una vita impegnata da donna in carriera. Non ero e non ero mai stata il tipo di donna che si perde dietro a fantasticherie o sogni irrealizzabili, non avevo mai voluto trasgredire, ero sempre stata una brava ragazza.

E allora com’era possibile che io avessi permesso ad un sedicenne bugiardo e viziato di stabilirsi in casa mia, di entrare nella mia vita e sconvolgerla? Com’era possibile che avessi davvero creduto che i suoi genitori fossero in viaggio per lavoro? Come avevo potuto farmi mettere nei guai da questo bambino? Ma, soprattutto, com’era possibile che mi fossi innamorata di lui?

Cucciolotto ©

 

1. COLPA DELLA NEVE

Quando il treno arrivò alla mia fermata, chiusi il netbook sulle mie ginocchia, con un sospiro, lo infilai accuratamente nella borsa a tracolla e mi alzai dal mio posto a sedere.

Quello era il giorno più bello degli ultimi cinque anni della mia vita, ovvero da quando avevo iniziato a lavorare. Ero giornalista. Per meglio dire, ero un’aspirante giornalista, perché finora il mio capo non aveva fatto altro che assegnarmi articoli di moda, e non c’era nulla al mondo che io odiassi più della moda. Inoltre secondo me il giornalismo non era scrivere di questa o di quella sfilata, delle tendenze di stagione o del colore più in voga al momento.

Parisini, il mio capo, dovette rendersene conto, oppure dovette accorgersi che come giornalista non ero poi così male, e che era uno spreco tenermi a parlare di tacchi e foulard. Infatti quella mattina, dopo avermi convocato nel suo ufficio, mi aveva informata che avrei lavorato ad un articolo sulla droga tra i giovani.

Forse l’argomento era di una banalità sconcertante, ma io avevo deciso che il mio pezzo non lo sarebbe stato altrettanto.

-Mi sembri la persona più indicata per questo genere di ricerca-. Mi aveva detto Parisini, unendo le mani, seduto dietro la sua scrivania in mogano. -In fondo, hai trent’anni, sei giovane anche tu-. Aveva riflettuto. -E’ vero, i giovani in questione hanno poco più della metà dei tuoi anni, ma il liceo l’hai finito dieci anni fa, le cose non possono essere cambiate radicalmente in un decennio, quindi saprai tutto sulla droga nell’ambiente delle scuole superiori-.

Il suo discorso non faceva una piega. Ne faceva centinaia. È vero, avevo trent’anni e, per la precisione, avevo terminato il liceo undici anni prima e immaginavo che l’ambiente non si fosse completamente trasformato, come aveva giustamente osservato il mio capo.

Soltanto che io di droga, alcool e simili non mi ero mai interessata durante gli anni del liceo. Sentivo spesso i miei compagni parlare di sbronze del sabato sera, spinelli in zone isolate di grandi parchi e una volta, a diciassette anni, la “fighetta” della classe ha persino raccontato alle amiche di aver preso una pastiglia durante una festa in discoteca, vantandosi di non essere stata male.

Non so quante di queste storie fossero vere, ma posso ipotizzare un buon settanta per cento, l’unico problema, che poi problema non sarebbe se non fosse per questo articolo, è che io non ho mai provato droghe di nessun tipo, neanche un tiro di canna o uno spinello. In realtà io ero la classica secchiona che passava i sabato sera in casa anziché andare per locali, discoteche o feste, che studiava come un mulo per avere voti alti ed ero terribilmente responsabile.

Per me le droghe dei liceali erano un buco nero, ma mi guardai bene dal dirlo al mio capo. In fondo quello era pur sempre un articolo, un vero articolo, un pezzo che non comprendesse le scollatura di Naomi Campbell o le cadute di stile di Lindsay Lohan, quindi accettai con piacere, giurando a me stessa che avrei stupito Parisini con il mio articolo.

Avrei fatto delle ricerche, magari sarei anche andata in qualche scuola superiore della zona, cercando di intervistare dei ragazzi, e poi avrei fatto una stesura dell’articolo. In quel momento stavo cercando di buttare giù uno schizzo dell’introduzione, ma i rumori del treno mi avevano impedito la concentrazione per l’intera durata del viaggio.

Quella era stata una giornata memorabile, ma ovviamente qualcosa era andato storto. Ero uscita dal lavoro alle sei, e un quarto d’ora dopo aveva iniziato a nevicare: questo significa mezzi bloccati o rallentati e per chi, come me, deve farsi mezz’ora di treno per tornare a casa, non è una gran bella notizia. Così la mezz’ora era diventata un’ora e un quarto e io arrivai in stazione che erano quasi le otto: dovevo ancora tornare a casa e prepararmi la cena.

-Ehi-. Mentre camminavo lungo la banchina della stazione, un ragazzino mi raggiunse di corsa, parandosi davanti a me. Lo squadrai da capo a piedi: aveva i capelli neri, probabilmente impastati di gel -era buio pesto e scintillavano sotto il fascio di luce di un lampione- pettinati in quel modo che credo che loro chiamino “spine” -insomma, sembrava che avesse un istrice sulla testa, con in capelli raccolti in ciuffi a punta su tutta la superficie del capo-. Occhi chiari, espressione svogliata, giubbotto nero lucido, zaino Eastpak sulle spalle, penzolante da una parte e una mano che teneva su la spallina che aveva deciso di utilizzare, e Air Force ai piedi. Forse era buio, ma in seguito ebbi la conferma di quella prima impressione: era un gran tamarro.

-Desidera?-. Chiesi io accigliata.

-Questo era l’ultimo treno e le metro sono bloccate, sai se arrivano dei tram qui?-. Mi chiese.

Arricciai il naso indispettita dal fatto che quel ragazzino mi stesse dando del tu come se fossi una sua compagna di classe. Lo so, non avrei dovuto essere così astiosa verso uno sconosciuto, ma lui mi ricordava troppo quegli idioti che al liceo mi prendevano in giro, chiamandomi “secchiona”. -No, di qui passano solo i treni e la metro-. Risposi secca. -Non passano né tram né autobus, e in ogni caso sarebbero bloccati per la neve-. Aggiunsi, facendo per andarmene.

Lui non mi seguì. -Cazzo-. Lo sentii imprecare.

A quel punto fui io a fermarmi, tornando indietro da lui. -Abiti molto lontano da qui?-. Gli domandai.

-Sì-. Mi rispose. -Non arriverò mai a casa facendomela a piotti-.

-Come?-. Feci io.

-A piedi-. Rise di gusto, al che mi pentii in anticipo per quello che stavo per fare.

-Quanto lontano?-. Insistetti.

-Dieci fermate di metro-. Disse lui.

-Hai ragione-. Concordai. -Non ci arriverai mai a piedi?-.

-No, seria?-. Finse di stupirsi lui.

Gli mandai un’occhiataccia. -Vuoi un passaggio in macchina?-. Mi offrii.

-Certo-. Annuì lui. -Ma dov’è la macchina?-.

-Nel mio garage-. Sospirai io. -Abito due vie dietro-. Aggiunsi.

-Okay-. Fece lui. -Per andare mi fai stare sotto l’ombrello?-. Aggiunse. -Mi sto bagnando da fare schifo-.

-Magari ti si scioglierà quell’istrice-. Sogghignai io sottovoce.

-Come?-.

-Nulla, parlavo da sola-.

Arrivati davanti al mio palazzo nemmeno salii in casa, ma scesi subito verso i garage. Il ragazzino si sedette vicino a me. -Grazie-. Mi disse improvvisamente, con un’aria assorta.

-Figurati-. Replicai io con voce scontrosa. -Lo faccio per i tuoi genitori-. Aggiunsi. Lui mi mandò un’occhiata interrogativa. -Immagino che se non torni si preoccuperanno, no?-. Spiegai con voce esasperata.

Mi resi conto che riaccompagnarlo a casa sarebbe stata un’impresa ardua quando, cercando di risalire dalla zona garage, la mia auto continuava a scivolare sulla lastra di ghiaccio che si era formata. -Non riesco a salire-. Annunciai. -Scivolo-.

-Fantastico-. Esclamò lui ironico, senza sembrare troppo preoccupato dalla cosa.

-Intendo dire che così non posso riaccompagnarti a casa-. Spiegai io, cercando di mantenere la calma.

-Cazzo!-. Esclamò lui per la seconda volta in meno di venti minuti, mentre io entravo nel garage in retromarcia.

Mi trattenni dall’impulso di sgridarlo per il linguaggio, alzando gli occhi al cielo. -Facciamo così-. Proposi, senza entusiasmo. -Ora sali in casa mia-.

-Uh, mi piace come programma-. Sorrise lui.

Io probabilmente arrossii, perché sentii le guance che, contro la mia volontà, si scaldavano. I doppi sensi mi avevano sempre imbarazzata, e non ne sentivo fare più o meno dal primo anno di Università. In effetti, riflettei in silenzio, quel ragazzo doveva essere negli anni del liceo. -Voglio dire che tu sali a casa mia, io ti preparo qualcosa per cena e, appena smette di nevicare e presumibilmente i taxi ricominciano a circolare, ti accompagno in piazza a prenderne uno-.

Lui annuì e mi seguì dentro il palazzo e in ascensore. Aprii la porta di casa ed entrammo, in silenzio. -Bella casa-. Commentò lui, mi parve senza ironia, guardandosi intorno.

-Grazie-. Risposi io acida.

-Ehi, sciallati!-. Esclamò lui. -Tranquillizzati-. Specificò sogghignando.

-Lo sapevo cosa significa-. Mentii spudoratamente io. -E comunque potresti darmi del lei? Non sono una ragazzina-. Aggiunsi scocciata.

Lui mi guardò sbarrando gli occhi. -Stai scherzando vero?-. Fece.

Roteai gli occhi: sarebbe stato inutile. -Sì-. Sospirai.

-Ah bene-. Fece lui con sollievo, buttandosi sul mio divano nero in pelle come se fosse a casa sua. Gli rivolsi un’occhiataccia ma non commentai. -Come ti chiami?-. Mi chiese dopo un po’.

-Caterina-. Risposi.

-Io Nico-. Si presentò lui. Sorvolai sul fargli notare che Nico doveva necessariamente essere il diminutivo del suo vero nome e andai in cucina a preparare la cena.

-Avvisa i tuoi che sei qui e stai bene!-. Gli urlai. -Hai capito?-. Gridai, di nuovo, non ricevendo risposta.

-Sì!-. Mi urlò dal salotto.

Ci mettemmo a tavola in silenzio. -Hai avvertito i tuoi?-. Chiesi, alzando un sopracciglio.

-Certo-. Rispose lui, risucchiando gli spaghetti al sugo senza alcun contegno. Passò qualche minuto in cui, nel silenzio, cercai di dimenticarmi della sua presenza e di farmi venire qualche idea per l’articolo. -Quanti anni hai?-. Mi chiese improvvisamente, rompendo il silenzio.

Quasi mi strozzai con l’acqua, risvegliata dai miei pensieri in modo così brusco. -Ti sembra una domanda da fare ad una signora?-. Lo rimproverai, tossendo un paio di volte.

-Be’, non mi sembri ancora nell’età in cui una donna deve mentire sulla sua età-. Osservò lui con sguardo innocente.

-Ne ho trenta-. Sospirai io. -Tu, invece?-. Domandai, questa volta sinceramente curiosa.

-Diciotto-. Rispose lui senza staccare gli occhi dal piatto.

-Non è vero-. Replicai io.

-Tu che ne sai?-. Disse, guardandomi storto.

-Si vede che non sei maggiorenne-. Risposi io, ingoiando un boccone.

-Da cosa si vede?-. Ribatté lui. -Ce l’ho scritto in fronte?-.

-Si vede e basta-. Affermai io.

-Invece ho diciotto anni-. Insistette Nico.

-Okay-. Gli concessi io, senza crederci, continuando a mangiare.

-Se non vuoi non crederci-. Aggiunse lui.

Capii che questa tattica funzionava. -Ho detto ‘okay’-. Feci stringendomi nelle spalle.

-Vuoi vedere un documento?-. Chiese lui, seccato.

-Va bene-. Acconsentii io, senza mostrare interesse.

-Va bene, sono minorenne-. Ammise lui.

Io sorriso soddisfatta. -Ne ero sicura-.

-Ho sedici anni-. Disse lui.

-Che scuola frequenti?-. Gli domandai.

-Cosa ti fa pensare che io vado ancora a scuola?-. Fece lui.

-Di certo non il tuo italiano-. Replicai secca. -Si dice che io vada-.

-Sicura di avere solo trent’anni?-. Chiese lui, senza alcuna logica.

-Certo-. Risposi io, incerta se ritenermi offesa o meno. -Perché?-.

-Perché sei acida e rompipalle come una donna di mezza età-. Ghignò lui.

-Ehi, ma come ti permetti?-. Io mi tolsi ogni dubbio: mi ritenevo offesa. -Ti ricordo che sei in casa mia, e che io sono un’adulta, non una ragazzina!-.

-Sciallati!-. Esclamò lui, mentre io facevo mente locale per ricordarmi cosa significasse. -Stavo solo scherzando-. Aggiunse. -Comunque vado al liceo scientifico, ma fosse stato per me avrei davvero già lasciato gli studi-.

-Quindi se hai ancora la possibilità di avere una cultura devi ringraziare i tuoi genitori?-. Dissi io in una domanda che somigliava più ad un’affermazione.

Lui parve pensarci su per qualche secondo. -Loro mi costringono a continuare ad andare a scuola-. Rispose poi. -Per quanto riguarda il ‘ringraziare’, sono punti di vista-.

-Immagino-. Ribattei, sistemandomi i capelli scuri e raccolti, per poi alzarmi sparecchiando. Guardai fuori dalla finestra: continuava a nevicare, se possibile, ancor più forte di prima.

-Fammi un piacere, Nico-. Dissi, mentre mettevo i piatti nel lavello. Lui mi guardò stranito. -Mentre io lavo i piatti, accendi la televisione e guarda le previsioni meteo-.

Quando tornai in salotto erano le nove e mezza passate. -Allora?-. Domandai a Nico, stravaccato sul divano a guardare Striscia la notizia.

-Eh?-. Fece lui con aria spaesata.

-Hai guardato il meteo?-. Mi misi le mani sui fianchi in un’espressione severa.

-Oh, dice che nevicherà così almeno fino a domani pomeriggio-. Rispose lui.

-Grandioso!-. Esclamai io ironica. -Come facciamo?-.

-Be’, è un bel casino-. Mi diede ragione Nico, guardando la tele con aria distratta, senza mostrare la minima preoccupazione. -Mi sa che devo dormire qui-.

Purtroppo, quel ragazzino aveva ragione. -Sì, sono d’accordo-. Acconsentii: dopotutto, con i mezzi bloccati e le strade ghiacciate non poteva tornare a casa e io ormai non poteva mica farlo dormire per strada. -Però telefona ai tuoi e poi passami tua madre o tuo padre, voglio parlargli-. Nico annuì, senza staccare gli occhi dal televisore. -Subito, Nico!-. Specificai io, nervosa.

-Okay, okay, non c’è bisogno di urlare-. Si lamentò lui, tirando fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e allontanandosi verso il bagno. Quel ragazzino faceva veramente i suoi comodi, come se fosse a casa sua! Pazzesco!

Dopo cinque minuti tornò in salotto e si sedette. -Non hai chiamato i tuoi?-.

-Certo, hanno detto che non c’è problema-.

-Ti avevo detto che volevo parlargli-. Puntualizzai.

-Ah, mi ero dimenticato-. Fece lui con noncuranza.

-Vado a farti il letto-. Sospirai allontanandomi verso la stanza degli ospiti.

-Speravo che potessimo dormire insieme-. Urlò lui dal divano, mentre io decisi di ignorare la provocazione.

*

-Ti ho messo delle lenzuola e un piumone-. Dissi tornando da lui.

-Bastavano le lenzuola-. Osservò lui.

-E’ gennaio-. Precisai, incrociando le braccia al petto.

-Okay-. Non mi prestò attenzione. -Però-. Tornò a guardarmi con un ghigno. -potremmo scaldarle io e te, le lenzuola-.

-Senti-. Feci io esasperata. -Ma tu fai così con ogni ragazza che trovi?-.

-Più o meno-. Rispose con non chalance. -Però di solito anche una toccatina ci sta-.

Io lo guardai sgranando gli occhi, sconvolta. -Tu… palpi le ragazze con cui ci provi?-.

-Ovviamente-. Affermò lui.

-Ma dimmi, non ti mollano mai uno schiaffo?-. Chiesi sperando in qualche ragazza con un briciolo di dignità.

-Sì, a volte-. Ammise lui. -Ma, visto l’effetto che ho di solito, ne vale comunque la pena-. Aggiunse.

Sospirai alzando gli occhi al cielo, per l’ennesima volta in quella serata. -Lasciamo perdere-. Proposi. -Sul letto ti ho messo una mia tuta: per me è grande, quindi la puoi usare come pigiama-.

-Va bene-. Lui continuò ad ignorarmi.

-Be’… buonanotte-. Dissi io.

-Come?-. Evidentemente lui non doveva aver capito tanto bene. -Sono le dieci-. Mi ricordò.

-Dieci e mezza-. Specificai.

-Mi stai dicendo che devo andare a dormire?-. Nico mi guardò con un’espressione scandalizzata e io annuii con un cenno del capo. -Non sono un neonato, non mi puoi mandare a letto quando vuoi-. Disse dopo averci pensato un po’, e mettendosi ancora più comodo sul mio divano.

Quant’era maleducato! Evitai di fargli notare che, visto che era ospite in casa mia, sarebbe stato carino se avesse fatto ciò che gli chiedevo, e mi sedetti sul divano anch’io. Per fortuna il giorno dopo avrebbe smesso di nevicare e non avrei più visto quell’insopportabile ragazzino!

Angolo Autrice

Idea che avevo da tempo, buttata giù in una giornata noiosa e piovosa.

Spero che piaccia, sicuramente se riceverò recensioni la continuerò, quindi vi prego di commentarla, qualunque sia il vostro parere, sono apprezzate sia le recensioni positive che le critiche, non ho problemi ad accettarle.

Un bacio,

Milla Nafira

   
 
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