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Autore: Glenda    09/11/2010    2 recensioni
Storia completata. Grazie a tutti coloro che ci hanno letto e incoraggiato!
Riusciranno i cinque della squadra dell'Unità di Analisi comportamentale a trovere il killer che sta mietendo vittime nella piccola Sand Spring, rivestendo i delitti di un misterioso alone religioso?
Genere: Azione, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 9

 

Quale S.I.?

 

“Ci abita Mandy Brown, trentacinque anni, sposata, un figlio. E’ commessa in un negozio di abiti, frequenta la comunità parrocchiale assiduamente, il marito è Frank Brown, medico geriatra e lei è impegnata da sei anni come volontaria ospedaliera. E’ una persona molto amata dalla comunità: eletta l’estate scorsa ‘mamma dell’anno’ nella festa scolastica dedicata ai genitori...”

La voce di Avril risuonava nel viva voce. Stava fornendo loro indicazioni in tempo reale mentre raggiungevano l’abitazione della donna.

“Stando al profilo, è decisamente una potenziale vittima” constatò Hudson.

Tobias si mordeva nervosamente l’unghia del pollice. Non riusciva a darsi pace di non essersene accorto, e, tuttora, non riusciva a trovarlo completamente convincente.

Chi aveva ucciso lo scrittore era chiaramente una persona lucida e metodica: Helena era una disturbata. Eppure, quando fermarono la macchina davanti alla porta, la voce che risuonò dall’interno era chiaramente quella della ragazza.

“Non vi avvicinate! NON VI AVVICINATE...E’ DIO CHE VUOLE COSI’!”

La porta principale era socchiusa, avrebbero potuto fare irruzione anche subito, ma c’erano troppe probabilità che Helena uccidesse subito l’ostaggio.

“Voglio andare da lei...” disse Tobias, sottovoce “La posso fermare. So come fermarla”

Hudson lo guardò in tralice

“Tu non vai da nessuna parte. Non prima che abbiamo trovato il modo di avere una visuale sull’interno della casa e posizionato i cecchini. E comunque, sei un agente della comportamentale, non un negoziatore”

“Sono migliore di un negoziatore” disse il ragazzo, con un’insolita sicurezza “So entrare in risonanza con i disturbati mentali nel modo in cui una persona sana non saprebbe fare: neppure se fosse il più esperto dei negoziatori”

“Agente Rendall, secondo il protocollo...”

Tobias cercò lo sguardo di Tee.

Sì, sapeva benissimo che non era così che si lavorava, e l’agente Murphy lo sapeva ancora meglio. Eppure, già altre volte se ne era assunto la responsabilità, e aveva lasciato la situazione nelle sue mani.

Hudson si voltò verso Tee e quello che vide non gli piacque nemmeno un pò

"non se ne parla nemmeno, non provare a..."

Tee non rispose subito, non perché non si fidasse di Tobias, al contrario...Prendeva tempo perché forse si fidava troppo. E il guaio era che di tempo non ce n'era nemmeno un po‘.

Hudson gli stava dicendo quello che anche una parte di sè, una vocina, cercava di dirgli, da molto lontano. Ma Hudson era decisamente era più rumoroso.

"Posso, lo sai..." continuò Tobias convinto.

Tee non ne dubitava nemmeno un pochino, tuttavia esitava. Ma in fondo cosa c'era di speciale in quella situazione? Cosa c'era che già non avessero affrontato?

Un tempo forse non avrebbe esitato a lanciarlo in quella casa senza pensarci un secondo. Non si trattava solo delle perentorie obiezioni di Hudson, peraltro giustificatissime.

"Vai" disse d'un tratto e Tobias non se lo fece ripetere, schizzando fuori dall'auto.

Hudson provò a stendere una mano per fermare il giovane, ma fu troppo lento e comunque non ci sarebbe riuscito: allungando il braccio sul petto del collega più anziano Tee l'aveva inchiodato al sedile. Mervin lo guardò in cagnesco, nessuno si era mai permesso una cosa simile con lui.

Tee però non era preoccupato dalla sua reazione: attraverso il finestrino dell'auto stava osservando Tobias avvicinarsi lentamente all'abitazione. Era una palese violazione del protocollo, Hudson gliel'aveva urlato fino a sgolarsi e lo sapeva anche lui, ma se c'era una cosa che Tobias sapeva fare bene era quella.

"Lui ne è capace Hudson" sussurrò Tee senza guardarlo "lui è in grado" ripetè con convinzione, rivolto più a se stesso che al collega furente di rabbia.

 

 

Tobias non era nemmeno un po’ preoccupato. Non in quella prima fase, almeno. Era sicuro che lei lo avrebbe lasciato entrare, lo aveva percepito dalla sua voce e da tante altre piccole cose. Era il suo dono, sapeva di non sbagliarsi, e se c’era qualcosa che lo spaventava era, piuttosto, proprio quella sua dannata sicurezza.

Non aveva mai fallito in una situazione del genere.

Tuttavia, ciò che sarebbe successo una volta varcata quella soglia era un tuffo nel vuoto.

Bisognava solo accettare di tuffarsi in quel vuoto, ed era la scelta che faceva tutte le volte, quando apriva la sua mente a quel contatto profondo con la follia.

“Hai fatto bene a lasciarmi entrare, Helena...” disse con dolcezza, senza che il suo lieve sorriso subisse alcun turbamento di fronte alla vista della signora Brown legata, imbavagliata e piangente, posizionata con cura su una sedia rivolta verso una piccola immagina della madonna.

“N-non...avresti dovuto venire, Tobias...” balbettò lei, mentre la mano che stringeva l’arma tremava visibilmente.

“Perché no?” disse lui, rimanendo a distanza, e rivolgendo lo sguardo all’icona sulla parete “Eri tu che lo volevi. Tu mi hai lasciato questo indirizzo, perché Dio te lo ha suggerito. E’ questo che è successo, giusto? Tu chiedi dei segnali, e Dio ti risponde...”

Helena deglutì, osservandolo con gli occhi spaventati.

“Non eri sicura di star facendo la cosa giusta...non eri certa di dover restituire un’altra anima a Dio...o almeno non eri sicura che fosse questa...” e con un piccolo gesto della mano indicò la donna, che prese a gridare e dimenarsi, terrorizzata, nonostante il bavaglio lasciasse uscire solo un mugolio sommesso.

“Così hai cercato dei segnali...qualcosa che ti indicasse la strada...proprio come quando sei andata da Mary. Tu non eri andata lì con l’intento di ucciderla...non eri tranquilla...temevi di aver interpretato male i messaggi di Dio. Certo, Mary era buona, dolce, una specie di angelo per te...amava i bambini, aveva tirato fuori il suo ragazzo dalla strada e lo stava rendendo un uomo migliore...Ma non eri certa che fosse lei l’anima che Dio desiderava avere vicino a sé. Allora prima le hai regalato il libro...e poi...hai inventato la storia della missione, per vedere come lei avrebbe reagito. Dovevi essere veramente sicura di non sbagliare. E‘ così, vero?”

La mano di Helena tremò più forte

“Era la mia amica!” singhiozzò “non volevo perderla! Avevo desiderato che lei mi dicesse di no! Ho peccato: ho desiderato che lei mi dicesse che non le importava di quei bambini, che voleva solo Malcom e che i bambini del terzo mondo valevano meno della sua felicità con lui! Ma lei non lo ha detto, capisci? Perché lei era veramente un’anima pura, luminosa...e meritava di raggiungere subito il paradiso prima che il mondo potesse corromperla! Anche se questo voleva dire rinunciare a lei!!!”

Tobias annuì lentamente.

“Ho capito. Ma questa volta, Helena...sei altrettanto sicura?”

Lei esitò un attimo, poi annuì.

“Te lo ha detto qualcuno...?” fece Tobias. Poi si accorse di aver forzato la mano, infatti la mano di Helena divenne più sicura, tese il braccio e puntò la pistola alla testa della donna.

“Lo faccio perchè ti voglio bene, Mandy...”

 

 

Tempo.

Tobias avrebbe voluto un secondo in più di tempo.

Ma non ne aveva.

“HA TRADITO SUO MARITO!” esclamò “Lo ha fatto sei anni fa, è stata una debolezza, perché lui era sempre a lavoro e lei si sentiva sola! Per questo subito dopo ha cominciato a fare volontariato in ospedale: per rimorso, senso di colpa nei confronti del dottor Brawn, non certo per spirito di solidarietà!”

Mandy, al sentir questo, sbarrò gli occhi, ma Tobias gli rivolse una veloce occhiata d’intesa. Era la sua sola possibilità di salvezza.

“C-come...lo sai...?” balbettò Helena.

“Sono un profiler dell’FBI. E’ il mio lavoro. Prima di venire qui, ci siamo fatti dare tutte le

informazioni possibili sulla signora Brawn. Non abbiamo certo trovato notizie di un tradimento, ma l’improvvisa dedizione per il volontariato ci aveva sorpreso. Del resto, abbiamo preso notizie anche sul dottore: medico generoso, assiduo, sempre dedito ai suoi malati...e per questo meno dedito alla sua famiglia...”

Stava inventando senza ritegno: sperò che Helena fosse abbastanza ingenua da caderci.

“Quando sono entrato in questa casa me ne sono accorto subito. Vedi la fotografia?” ne indicò una sul comodino, che ritraeva la famiglia in vacanza “Il marito la sta abbracciando...ma lei si ritrae, è distaccata. E a giudicare dall’aspetto del figlio, questa foto è proprio di quegli anni”

Helena aveva abbassato la pistola: le labbra le tremavano. Era come se le parole di Tobias avessero distrutto di colpo ogni sua certezza.

“Levale il bavaglio, te lo confesserà lei stessa...” disse lui “Mandy vive nel peccato. Se la uccidi, la condanni per l’eternità...”

La ragazza obbedì, e con la mano libera sciolse la stoffa che copriva la bocca della donna.

Mandy respirò ansimando, guardò Helena con occhi dilatati, e poi Tobias, come a cercare un suggerimento, una speranza di salvezza.

“Mandy...” disse allora lui “racconti ad Helena la verità. Lei ha tradito Frank, è così...?”

Vi fu un lungo silenzio, per Tobias decisamente insostenibile.

Poi, però, la donna prese fiato.

“Sì...” ammise “Io l’ho tradito con Gregory Boe, il mio fornitore...”

Tobias si trattenne dal tirare un sospiro di sollievo, e tra sé ringraziò la signora Brawn di aver capito ed essere rimasta nella parte.

Fu allora che, col calcio della pistola, Helena colpì con violenza il muro, in un’esplosione di violenza.

“PUTTANA!” gridò “Come hai potuto? Frank è un uomo buono e devoto, e tu gli hai fatto questo!!!”

“Mi sono pentita! Chiedo perdono a Dio!” urlò Mandy tra i singhiozzi, terrorizzata.

Ma in quel momento Tobias fece alcuni rapidi passi avanti, e si mise tra Helena e lei.

Il volto di Helena era rosso di rabbia e rigato di lacrime: era veramente fuori di sé.

Tobias le parlò con dolcezza, con la sua voce più calma.

“Lascia che se ne vada...” disse “...Dio non è un giudice, e capisce la debolezza umana. Dio...ha fatto in modo che ti fermassi in tempo...”

Allungò una mano verso il suo viso.

“Non si deve mai togliere a qualcuno la seconda opportunità. E’ un dono prezioso che tutti hanno diritto ad avere. Tutti. Buoni e cattivi. Onesti e non. Sani e pazzi. Helena, ti prego...”

 

 

Hudson stava ancora gridando alcuni improperi diretti alla sua persona, ma lui aveva occhi solo per la casa.

“Mi stai ascoltando almeno??!” ululò Mervin.

Era chiaro che Tee non aveva udito nemmeno una parola delle sue ultime frasi.

“Ma che...” Hudson, che dava le spalle all’abitazione si voltò all’improvviso.

Mandy, la vittima presa in ostaggio, stava uscendo a passi lenti e incerti.

“Ce l’ha fatta” sussurrò Tee a fior di labbra “maledizione, quel ragazzo ce l’ha...”

In quel momento uno sparo secco squassò l’aria tranquilla di quella cittadina di provincia.

Tee e Hudson si guardarono negli occhi, fu solo per un istante, ma per un momento entrambi sembrarono provare le stesse emozioni. Poi Tee partì dritto verso la casa.

Giunto davanti alla porta entrò con circospezione, ma non dovette cercare a lungo. La scena del crimine era lì, in salotto, proprio davanti a lui.

Tobias era a terra, in un lago di sangue che, piano piano, stava formando una rosa sotto di lui. Helena era poco più in là, la pistola abbandonata a poca distanza, intenta a muovere le labbra sommessamente, in trance.

Fu Hudson a scuoterlo.

“Centrale, abbiamo un 414, agente a terra, ripeto, agente a terra, mandate subito un’ambulanza”.

“Che cosa ho fatto..” fece in tempo a mormorare Tee prima di ricevere una spinta da Hudson.

“Prendi questo e premi forte lì” urlò il collega.

Nel frattempo lui allontanò la pistola da Helena che non sembrava essersi accorta di nulla.

Tee premeva, ma il sangue non cessava di uscire, anche le sue stesse mani ne erano già lorde.

“Sono stato io...”

Non riusciva a smettere di pensarlo.

Tobias si mosse e, inaspettatamente, cercò di parlare.

“Che cosa...” Tee non capiva, probabilmente non voleva dire niente, ma non ebbe il tempo di stare a pensarci.

L’ambulanza e i colleghi arrivarono in un lampo. Era la prassi in quei casi. Gli infermieri lo misero da parte senza molto cerimonie. Trasportarono Tobias sull’ambulanza.

“Lei cosa fa? Sale?” domandò uno dei paramedici, che non poteva avere più di vent’anni.

“Allora?” ripetè il giovane intento a chiudere le porte del veicolo.

Tee annuì e salì a bordo.

 

 

Era un incubo, doveva essere un incubo. Tee non faceva che ripeterselo. Come poteva essere stato così ingenuo? Come poteva essere stato così stupido?.

Non riusciva quasi a guardare Tobias che, irriconoscibile, giaceva avvolto da fili e tubi.

“La pressione è in calo, forza, forza, quanto manca?” esclamò uno dei paramedici, armeggiando con una siringa.

Dopo qualche istante il veicolo frenò bruscamente, i due paramedici balzarono a terra, liberarono la lettiga e la spinsero all’interno del pronto soccorso.

All’interno era il caos. Medici e infermieri rimbalzavano qua e là come palline da ping pong, mentre un’umanità quantomeno dolente sostava in attesa di un po’ di attenzione. Qualcuno gli afferrò un braccio, cercando di trascinarlo via, ma lui se lo scrollò di dosso.

“Agente Murphy!” Tee si scosse dal suo torpore alla vista di Hudson che cercava di portarlo con sé.

I due sostarono in uno dei corridoi del pronto soccorso.

“Cosa dicono?” sussurrò Tee, quasi timoroso della risposta.

Mervin si prese qualche secondo prima di rispondere e fissò il collega sconvolto e sporco di sangue. “Non si sbilanciano, non sono stati colpiti organi interni, ma la pallottola è molto vicina a un polmone, non sanno...”.

Tee annuì, quando invece avrebbe voluto gridare.

“Ehi Tee? Mi senti?”.

In realtà no, non lo sentiva più, non voleva più ascoltarlo. Aveva bisogno d’aria.

Hudson lo trovò nel giardinetto dietro all’ospedale, intento a fumare una sigaretta.

“Ti cercano tutti” esordì.

Tee rispose con una scrollata di spalle.

“Ci sarà un’indagine...”

Ovvio che ci sarebbe stata, ma non gli importava. Avrebbe risposto con sincerità alle domande. E se volevano il suo distintivo, bè potevano averlo.

“Che cosa ti è saltato in mente eh?” proseguì Hudson tagliente “pensavi davvero che sarebbe filato tutto liscio? Con quale diritto hai...” si interruppe, pieno di rabbia.

“L’aveva fatto altre volte...Io” Tee cosse la testa e, dopo qualche instante esclamò “mi sono sbagliato”.

“Ti sei sbagliato? Ti sei sbagliato?! Hai una minima idea di quello che è costato a quel ragazzo?! Tu...Tu non hai il diritto di dire che ti sei sbagliato, sei il suo superiore, sapevi benissimo quello che facevi, e hai deciso di fare comunque di testa tua! Hai sorpassato qualsiasi limite Tee Murphy e adesso cosa fai? Te ne stai qui, senza nemmeno il coraggio di entrare, mentre Rendall sta rischiando la vita ed è colpa tua!”

“Ma che cosa vuoi che ti dica?” sbottò Tee ad un tratto “mi dispiace! Io...”

“Ah no, non credere di potertela cavare così...” intervenne nuovamente Hudson.

“Lo so che è colpa mia e mi prenderò tutte le responsabilità, non c’è bisogno che tu venga qui e...Ah maledizione” Tee spense la sigaretta e la gettò da parte con un colpo secco.

Hudson tacque per un momento, poi riprese

“Sei solo un irresponsabile: io te lo avevo detto, e ora lo sapranno tutti, anche quel ragazzo che adesso è in sala operatoria. Se lui muore...”.

Aveva sentito abbastanza, spinse Hudson da parte e corse via attraverso il parcheggio.

 

 

Risa ancora non era ancora un’esperta profiler, ma non c’era bisogno di conoscere l’analisi comportamentale per leggere i segni sul volto di Avril al telefono.

Non era una novità: capitava spesso nel loro mestiere.

Io telefono squilla, e qualcuno ti dice che uno dei tuoi colleghi non tornerà a casa.

Ma a lei non era mai successo direttamente, non con qualcuno che conosceva.

“Chi...?” domandò, e si sentì crudele nel pensare che, se avesse potuto scegliere, avrebbe desiderato che fosse Hudson, per soffrire di meno.

“Rendall” rispose invece Avril, quasi meccanicamente, mentre si alzava e indossava la giacca “L’assassina gli ha sparato a bruciapelo. E’ in ospedale”

Risa rimase per qualche attimo immobile, come se le parole dell’amica gli fossero arrivate in un codice sconosciuto e ci volesse del tempo per rimettere le parole in ordine e rielaborare il messaggio.

“E’...è vivo, però...” fu l’unica cosa che gli uscì dalla bocca.

La collega la prese per mano.

“Sì. Ma non si sa altro. Andiamo là anche noi. La Harris ha detto che qui pensa a tutto lei”

Risa si lasciò quasi trascinare e imboccarono il corridoio: fu allora che videro Claire e un altro agente scortare verso la sala interrogatori Helena ammanettata. Teneva gli occhi fissi davanti a sé, vuoti, le labbra immobili: sembrava una vecchia bambola di porcellana, di quelle col viso dipinto, senza espressione.

Si poteva uccidere con quella faccia? Si poteva uccidere e rimanere così, apatici, quasi che nulla fosse accaduto.

Forse sì. Forse i suoi colleghi ne avevano visti tanti. Forse anche Tobias ne aveva visti. Ma lei non lo poteva accettare.

Prima che Avril potesse impedire il peggio, Risa si gettò su di lei e fece per prenderla a schiaffi. Si fermò con la mano a pochi millimetri dal suo viso.

“Perché non vedo cosa senti, stronza? Perché non mi fai vedere cosa senti adesso?”

Avril e un agente balzato fuori da una porta laterale, la placcarono e la tirarono indietro. Helena mosse per un solo attimo lo sguardo per incrociare quello della ragazza che l’aveva appena aggredita. Poi abbassò gli occhi e, con una inaspettata, spaventosa sicurezza, disse:

“L’ho fatto per lui. Quelli come lui...in questo schifo di mondo non ci possono stare...”

Risa si sentì percorrere da un lungo brivido per tutta la schiena.

 

 

Il medico si era sbottonato in un ottimistico “E’ andato tutto nel modo migliore”, ciò nonostante l’intervento era stato serio e la prognosi restava riservata.

“Dicono sempre così...” spiegò Avril, cercando di essere rassicurante “Non possono darti garanzie per paura di ipotetiche complicazioni, ma quando un chirurgo ti dice che è andato tutto liscio, di solito si può stare tranquilli. Inoltre il centro di terapia intensiva di Oklahoma City è ottimo: hanno una percentuale di successi quasi del 90%...”

Si bloccò quando vide che Tee non la stava nemmeno ascoltando.

In quel momento il cellulare di Hudson si mise a suonare. Mervin si allontanò di qualche passo, quasi a non voler disturbare l’angoscia condivisa dei suoi tre colleghi, ma tornò pochi minuti dopo, rivolgendosi all’agente Murphy con tono decisionista.

“Non sono riusciti a farle dire una parola. C’è bisogno di noi. Vado io ad interrogarla”

La reazione di Tee lo sorprese.

“No. Voglio parlarci io”

Anche Risa e Avril lo guardarono stupite. Che si allontanasse dall’ospedale e non volesse rimanere ad assistere Tobias era veramente inaspettato.

Ci fu un momento di silenzio, poi Tee andò avanti. La sua voce era meno decisa, quasi assente, dispersa.

“...Quando l’abbiamo trovato, lui...” socchiuse gli occhi “Tobias ha cercato di dirmi qualcosa. All’inizio ho pensato che fosse solo un lamento...ma no...non è da lui dire cose inutili. In qualche modo...le cose che dice...che cerca di dire...hanno sempre un senso...”

Rimase zitto di nuovo, e nessuno dei presenti ebbe il coraggio di contraddirlo, benché Hudson pensasse tra sé che la concezione che aveva del collega fosse veramente irrealistica e distorta. A maggior ragione in quel momento.

“C’era qualcosa che aveva capito” concluse Tee “O che lei gli ha detto. Devo scoprire cosa”

 

Hudson lo attendeva fuori dalla saletta interrogatori, appoggiato alla parte.

“Tu non ti smentisci proprio mai eh?”.

Non era per testardaggine o per un eccesso di orgoglio che voleva essere lui a condurre l’interrogatorio a Helena. E sapeva benissimo che Hudson lo disapprovava. Poteva leggerglielo negli occhi.

“Le mie minacce non serviranno a niente vero?”

Dal vetro trasparente Tee gettò un’occhiata all’interno della stanza. Helena non dava segni di nervosismo.

“Non sono l’unico a pensare che non dovresti essere tu a condurre questo interrogatorio. Riflettici, non sei la persona più indicata per entrare in quella stanza. Perché non torni in ospedale? Tobias dovrebbe risvegliarsi tra poco. Che effetto gli farebbe trovarsi circondato da sconosciuti?”

“Possono andare le ragazze” sussurrò Tee.

Hudson scosse la testa...quella testa dura di Tee Murphy! Fosse per lui, l’avrebbe già mandato al diavolo, ma c’era caso che potesse essere Murphy stesso a scavarsi la fossa da solo. Se avesse fatto fiasco con quell’interrogatorio, i superiori non avrebbero potuto chiudere gli occhi ancora a lungo.

Tee fece un respiro profondo. Doveva mettere Tobias da parte, Tobias, l’ospedale, Hudson. Doveva avere la mente sgombra per concentrarsi su Helena, perché tutto non risultasse vano.

 

 

“Ciao Helena” fece Tee prendendo posto davanti alla ragazza.

Lei non rispose, limitandosi a fissare un punto qualsiasi verso la parete.

“So che quelle devono darti parecchio fastidio” continuò lui, accennando alle manette ai polsi della giovane “purtroppo è la procedura standard”.

L’agente Murphy si schiarì la voce. Gli sembrava che ogni minuto fosse prezioso e mentalmente si intimò di rimanere calmo e concentrato.

“Helena” proseguì cercando di catturare l’attenzione della giovane “ti ricordi che cosa è successo nelle ultime ore?”

Lei finalmente lo degnò di uno sguardo “io..io ho fatto una buona cosa. Ho mandato una persona da Dio”.

Tee rabbrividì. Non era la prima volta che sentiva simili ammissioni dai sospettati, ma questa volta era diverso.

“Lui, lui era così buono...io non potevo, non potevo non farlo, capisci?” e benché avesse i polsi ammanettati Helena tentò di afferrare le mani dell’agente, che si ritrasse istintivamente.

Tee capiva fin troppo bene, la ragazza era completamente immersa nel proprio delirio, niente poteva scalfirla, tuttavia lui doveva provare.

“Helena tu...pensi di averlo ucciso vero?” esclamò Tee cercando di guardarla negli occhi.

“Io gli ho sparato. Così andrà in cielo prima di poter essere corrotto dal peccato”.

Tee scosse la testa, ancora quella storia, come poteva riportarla nella loro dimensione? Oh se solo fosse riuscito a parlare con Tobias prima che lo portassero via. Ma no, pensarla in questo modo non l’avrebbe aiutato, come sempre era consapevole che le prove, la soluzione erano lì davanti a lui, bisognava solo trovare il modo.

Decise di cambiare tattica “sai, Tobias, il ragazzo a cui hai sparato, è un mio amico”.

“Ma che diavolo sta combinando?!” esclamò Hudson che seguiva il penoso interrogatorio dall’esterno. Solitamente, nel tentativo di far confessare una fanatica religiosa non si rilasciavano informazioni personali. L’uomo più anziano scosse la testa con veemenza, sebbene volesse vedere Tee rotolare nel fango, teneva di più a che quest’ultimo ottenesse qualche risultato: l’indagine doveva proseguire, questo era più importante degli screzi personali.

Helena parve non udirlo nemmeno, continuò a dondolarsi scandendo a bassa voce parole senza senso.

“Tu pensi di averlo mandato in un posto migliore, ma non è così” riprese Tee.

“Oh sì, invece lui...” gli fece eco Helena

“Tobias si trova in ospedale, si riprenderà...tutto ciò che hai fatto è stato solo fargli del male...”

“NO!” scattò Helena, come presa dall’isteria, gridando con quanta forza aveva in corpo “NOOOOO!!!“

Se non fosse stata legata avrebbe anche potuto rovesciare il tavolo e la sedia, tanta era la sua furia.

Tee non si scompose “Helena, Helena, Helena!”

L’urlo della ragazza si spense in un gemito “lui...lui...Ah!! Mio Dio, perdonami! Altissimo signore, abbi pietà di me!”

“Fantastico la nostra sospettata è fuori controllo” esclamò Hudson sempre più irritato. Fosse stato per lui avrebbe sostituito immediatamente l’agente Murphy, ma c’era qualcosa che lo tratteneva.

E come aveva cominciato, Helena si fermò di colpo, facendo cadere la stanza degli interrogatori nel silenzio più assoluto.

 

 

“Lui...Tobias è ancora vivo?” sussurrò la ragazza con un filo di voce.

Tee annuì.

“...non volevo fargli male...”

“lo so”

Ci fu un lungo silenzio.

“Hai agito credendo di fare del bene giusto?”

La ragazza annuì.

“Mary era mia amica..." sussurrò tra i denti Helena "questo posto, questo mondo, tutto quanto è uno schifo, non lo pensa anche lei? Bene, ora io ne sono certa, adesso loro sono in un luogo migliore e il Signore me ne renderà credito quando mi presenterò davanti a lui, un giorno...”.

“...ed è per questo che li hai messi alla prova, tutti loro, Mary, la signora Brawn, la signora Chatterly, tutti quanti...li hai messi alla prova, e poi, quando hai capito che erano degni del paradiso, li hai uccisi...“

Fu in quel momento che accadde quello che Tee aspettava.

Helena alzò la testa e strinse le labbra, le sopracciglia si contrassero, distolse gli occhi da lui.

Al sentire pronunciare i nomi delle altre vittime si era confusa, aveva dato un segnale...Il suo corpo voleva dire la verità, anche se consciamente la donna la stava nascondendo.

“...ma tu non eri sola”

Fece Murphy, con voce calma, per quanto quell’ipotesi rendesse tutto più drammatico.

“...hai ucciso solo Mary: gli altri non li hai uccisi tu”

Ecco cosa cercava di dirgli Tobias: c’erano due S.I. e Helena - era evidente - era la personalità debole. L’assassino dominante era ancora fuori, pronto a proseguire il suo folle piano.

La voce di Tee si fece dura, decisa.

“Helena, chi ha ammazzato i tuoi compaesani? Chi ti ha convinto ad uccidere la tua migliore amica?”

La fissò con sguardo penetrante, come se volesse leggerle la mente.

La ragazza si morse un labbro a sangue.

E per la prima volta, con voce rotta, disse qualcosa di talmente lucido e sensato che era chiaramente estraneo a lei: qualcosa che le avevano insegnato a dire, se fosse stata presa:

“Voglio un avvocato”

 

Tee uscì dalla stanza, senza guardare il collega negli occhi.

Fu Hudson a parlare.

“Due S.I: siamo praticamente da capo”

L’altro si strinse nelle spalle.

In quel momento l’agente Harris fece il suo ingresso nella sala.

“Abbiamo l’esame del DNA della sospettata” disse “e c’è qualcosa che dovreste vedere...”

 

 

 

 

 

  
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