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Autore: JudyZenkai    10/11/2010    3 recensioni
La storia tratta soltanto di una bambina. Non si sa dove nè quando successe, ma accadde qualcosa. Una nuova figura entra nella storia, appena un'altra ne esce.
Dice di essere un amico, ma ha ben poco di amichevole.
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’ultima volta che lo vidi, mio padre, si trattò di qualche anno fa, due al massimo. Lo vidi uscire dalla grande porta d’ingresso della nostra enorme villa sdraiato su un grande lettino di metallo, che mia madre chiamò barella, mentre lo trasportavano via. Non so esattamente cosa sia successo, ma so che la casa intera, domestici inclusi, erano nel panico, gridavano e mettevano vestiti e oggetti in piccole valigie per seguire il mio papà e le persone in camice verde che lo circondavano. Io, sola, nell’angolo della stanza, dietro una colonna di marmo, osservavo la scena impassibile e cercavo tra tutte quelle persone mia madre. La vidi poi tenere la mano pallida di papà, piangendo e sussurrandogli frasi dolci, che però non riuscivo a sentire con la confusione che c’era. Nelle mie mani tenevo Andrea, la mia orsacchiotta di peluche e pensavo a tutt’altro mentre nella penombra osservavo tutta la scena.
 
-Sylvia, voglio regalarti questa- la bimba scoppiò in un urlo acuto, simile a quello dei film e si alzò di scatto dalla seggiolina di legno sopra cui stava di fronte a suo padre.
-Piccola, non avere paura. Lei è Angel- disse prendendola in braccio facendola sedere sulle sue gambe e avvicinandole la bambola che teneva in una mano. Non una bambola qualunque, ma una bambola di porcellana: la pelle chiara e lucida, le guance rosee, gli zigomi delicati, le ciglia folte, gli occhi verde chiaro e la bocca vellutata. I capelli le scendevano lungo le spalle chiusi in una coda dal fiocco colorato di un lilla acceso e i ricci le cadevano bene sulle guance. Il vestito candido bianco di pizzo e le scarpine da ballerina coi lacci anch’esse bianche.
-Non avere paura. Le bambole come Angel non sono cattive- la bimba mosse un dito per sfiorarle una guancia, ma come vide che gli occhi si chiusero e si riaprirono da soli, ritrasse la mano e si strinse ancor di più al petto forte e vigoroso del padre.
-Tranquilla bimba mia, è fatta apposta. Lei chiude e apre gli occhi quando la sposti in avanti. Ma lei è buona e vuole solo fare amicizia-
-Non mi piacciono le bambole. Alla tv si vedono sempre tanti programmi in cui fanno cose cattive!-
-Ma la tv non rispecchia la realtà. Ascolta: io ti metto questa bambola sul comodino e poi vedrai che presto ti piacerà. La televisione inventa e non c’è nulla di vero in tutto quello, anche perché io sarò sempre qui a proteggerti e farò in modo che nessuno possa farti del male, d’accordo?-
La bimba guardò con occhi grandi il padre sentendosi veramente al sicuro stando lì così accoccolata tra le sue braccia.
-Papi, non lasciarmi mai, ti prego-
-Non ti lascerò mai, lo giuro-
 
È passato un po’ di tempo da quando nella mia mente ripercorsi quei momenti. Quando mia madre rientrò in casa, solo due giorni più tardi, mi evitò per qualche tempo, piangendo al solo vedermi. E io non capivo. Non capivo perché mi rifiutasse quando la cercavo e dei domestici mi prendevano in braccio e lasciavano cadere Andrea dalle mie mani, mentre a tutta forza mi strappavano via dall’uscio della camera della mamma. Non usciva più dalla camera da letto e tutto il resto della casa si fece più cupo: ogni stanza aveva poca illuminazione naturale e la luce degli interruttori non veniva mai usata, le tende tirate giù a coprire ogni centimetro delle finestre, le stanze vuote, comprese quelle per le feste e le cene. Dalle più piccole alle più grandi, i domestici non giravano, né curavano più la casa, lasciando che si impolverasse e che tutto risultasse macabro. Ogni tanto giravo con Andrea per la mano alla ricerca di qualcuno con cui giocare, ma non trovavo mai nessuno e mi spaventavo quando le ombre ingigantivano sui muri forme di ragni e altri insetti che si erano stabiliti a casa mia perché nessuno puliva più. Avevo paura, ma non mi facevano vedere da mia madre, così mi chiudevo in camera mia, sul mio letto a baldacchino e abbracciavo il mio orsacchiotto sperando in me stessa che un giorno avrei riabbracciato mio padre. Jessy, la mia cameriera e baby sitter, la sera mi portava un bicchiere di latte e mi rimboccava le coperte, abbassava le tapparelle e lasciava che filtrasse poca luce nella mia cameretta.  
Quella sera, mi voltai verso la grande finestra a balcone e mi trovai davanti Angel, la bambola di porcellana che mi aveva regalato mio padre poco prima della sua scomparsa. La luce le illuminava parzialmente la chioma di capelli, lasciando oscurato il viso. Anche senza la luce, la bambola sprigionava dagli occhi una forte presenza che mi spaventava a morte e avevo sempre paura che mi potesse prendere e farmi del male. Lei mi fissava e i miei sonni si fecero sempre più inquieti, ma poi ripensavo alle parole di mio padre e sapevo che ero al sicuro.
 
Non molto tempo dopo, mia madre riprese ad uscire e la casa sembrò quasi riprendere vita, poco alla volta. Dopo non molto tempo cominciò a venirci a trovare sempre più spesso un uomo, con suo figlio, che avrà avuto circa la mia stessa età. I giorni divennero settimane, le settimane i mesi e alla fine mia madre mi prese tra le sue braccia e mi fece sedere sul divano accanto a lei, mentre mi sistemava i codini.
-Sylvia, tra qualche giorno, voglio che tu ti metta il più bel abitino che tu abbia e ti diverta con me-
-Che succede mamma?-
-Sai Daniel? Abbiamo deciso di sposarci e voglio che tu sia la mia damigella-
Rimasi con una faccia stralunata per qualche secondo impassibile, cercando di capire i ragionamenti di mia madre.
-Ma, papà?-
-Amore…Tuo padre…Lui è passato a miglior vita-
Le lacrime cominciarono a sentirsi sul mio volto, rigandomi sempre più le mie delicate guance da fanciulla. Scoppiai infine in un urlo agghiacciante, mentre mi coprivo sempre di più con la coperta che tenevamo sopra il divano. Sapevo cosa significassero quelle parole e niente mai mi avevano ferita come quello.
Presi Andrea tra le mie mani e corsi su per le grandi scale di marmo bianco, diretta verso camera mia. Mi sedetti sul letto e notai che la bambola non era più al suo posto, era messa sopra il grande guardaroba davanti al letto e mi fissava con gli occhi socchiusi. Non arrivavo nemmeno a prenderla, ovviamente, e così rimasi sotto i suoi occhi giudicatori per decine e decine di minuti. Mi stesi sul letto e mi aspettavo che mia madre sarebbe venuta da me a consolarmi o abbracciarmi, ma niente.
Sentii alla fine, verso sera, il campanello suonare e alcuni dei nostri maggiordomi aprire la porta e nominare Daniel. Non credevo che avrebbe potuto mai risposarsi, a malapena parlava con me, figuriamoci con un estraneo.
 
Il giorno delle nozze si avvicinava, dopo alcuni posticipi, e sempre più spesso mia madre cercava di farmi conoscere quello strano uomo, alto, robusto e dall’aria macabra. Io però mi rifiutavo e mi chiudevo in camera ogni qual volta che lo vedevo, eppure, come scappavo, me lo ritrovavo davanti alla porta, che me l’apriva con finta simpatia e si sedeva sul letto accanto a me, anche se cercavo in tutti i modi di ignorarlo.
-Bella questa bambola-
-Non mi piace- risposi mentre la prendeva in mano e le accarezzava i capelli.
-Lo sai che le bambole di porcellana sono delle bimbe cattive?-
-Sono molto cattive ma io le voglio bene, perché me l’ha regalata mio padre-
-Tuo padre eh? Ti dispiace che sia morto?-
Le domande di Daniel cominciarono a farsi sempre più pungenti e ogni sua parola mi doleva alla pancia. Anche se avevo solo sei anni, capivo, e capivo che lui mi stava facendo del male e che forse questo lo divertiva.
-Non voglio negarlo e certamente non lo farò di fronte a te-
-Bene, perché ben presto vivremo tutti insieme e mio figlio Robert prenderà camera tua. È bella spaziosa, è perfetta per lui-
-Ma io non voglio lasciare camera mia, non voglio, non voglio!-
-Mocciosa, farai bene a chiudere il becco o la bambola cattiva ti mangerà la lingua- il corpo dell’uomo davanti a me, si mosse in avanti per avvicinarsi a me e nei suoi occhi non vedevo altro che odio. Tutto d’un tratto però il signore magro seduto, ritornò alla sua posizione precedente, abbassando il volto e socchiudendo le labbra.
-Perdonami Sylvia. Io voglio davvero che diventiamo una famiglia felice perché io voglio davvero bene a voi e a tua madre in particolar modo-
Daniel si alzò, mi mise sotto le coperte e mi diede un viscoso bacio in fronte, abbassando tutte le tapparelle, spegnendo ogni luce e mettendomi sul comodino Angel, di nuovo che mi fissava con quei suoi occhi verdi.
 
-Mamma, mamma!- urlai invano mentre le strattonavo il lungo vestito blu cobalto che indossava per il pomeriggio.
-Cosa c’è ancora Sylvia?-
-Angel, la bambola, stanotte si è mossa!-
-Non mi va di stare qui a sentire le tue stupide lamentele-
-Ma mamma…-
-Zitta, sta arrivando Daniel- 
Le due signorine accanto a mia madre fecero un leggero inchino al signore, mentre quest’ultimo baciava appassionato la mano di mia madre.
La notte successiva non riuscii a prendere sonno. Rivissi nella mia memoria la notte precedente: tutto buio, che non riuscivo a vedere la mia mano, ma gli occhi di Angel illuminati, chiudere gli occhi anche senza muoversi e spostarsi leggermente.
Mentre ancora riguardavo quelle immagini scambiai per ricordo quello che avevo davanti: avevo lasciato un mezzo spiraglio di luce e stavolta l’abitino della bambola di intravedeva leggermente, mentre si spostava come sollevata da cavi. Mi alzai verso il cuscino attonita trattenendo un urlo. Poi chiuse gli occhi e quando li riaprì non vidi altro che sangue, come lacrime. Lacrime che scendevano come gocce, una dopo l’altra, finchè una non cadde sul vestitino bianco. Urlai come una disperata ma la casa sembrava vuota e più la paura cresceva in me, più la bambola sanguinava. Si mosse ancora e ancora, spostando un piede davanti all’altro, creando un percorso di sangue. Arrivò alla fine del comodino, dove cadde a terra, atterrando in piedi. Azionai una fioca luce di una lampada poco più lontana. Mi alzai dal letto, correndo verso la porta. Girai la manopola ma questa non voleva saperne di aprirsi. Girai e girai ancora, vedendo la bambola sempre più vicina, con le braccia avanti e gli occhi ancora sanguinanti.
-Che cosa vuoi?? Cosa vuoi da me?? Aiuto!!!- urlai invano.
La bambola non parlò, continuò semplicemente a camminare ancora e ancora. Mi girai verso di lei e le corsi accanto scivolando all’improvviso nel suo sangue. Caddi a terra, sentendo che qualcosa mi aveva colpito la testa.
-Basta, allontanati! Non siamo in un film!- la bambola non cessò di camminare, finchè non si fermò a pochi centimetri dal mio volto insanguinato e mosse leggermente la bocca; eppure non provenivano suoni di nessun tipo da lei.
Una luce leggera si accese alla fine della stanza, illuminando un corpo nero, probabilmente un giaccone.
-Chi sei tu?? Papà, ho bisogno di te, adesso!-
-Tuo padre è morto, lo dovresti sapere. Lui non c’è più e non tornerà. Hai detto che ti mancava tanto, giusto? E allora perché non vai con lui?-
L’uomo si tolse il cappuccio rivelando sotto di essere Daniel, dall’aspetto ancora più inquietante e macabro. Teneva qualcosa tra le mani e si avvicinava minacciosamente.
-Daniel! Che vuoi fare??-
Il tipo non smise di camminare lentamente incontro a me, ancora stesa per terra, con le mani e il volto sanguinante.
-Voglio aiutarti-
-Tu sei pazzo!-
-Questo è il sangue di tuo padre- disse indicando la sostanza di cui ero ricoperta –bello no? come la bambola. Sangue pregiato, raro, che tutti vorrebbero. Sei l’erede di una fortuna che non saprai mai apprezzare, e io voglio solo il meglio per la mia famiglia: io, tua madre e mio figlio. Tu non sei parte della famiglia e presto questo non sarà più un problema- Daniel tirò fuori da una tasca un coltello simile a un pugnale e indicò con la punta il mio cuore, facendo un segno a X col sangue della ferita. Mi alzai di scatto, ma la sostanza mi fece scivolare. Non volevo pensare che fosse il sangue di mio padre, che Daniel avesse ucciso anche lui.
Sentii la stretta sul mio piede dell’uomo in nero tirarmi a sé, senza che riuscissi a sottrarmi.
-Non morirò mai per colpa tua!-
-Troppo tardi, mocciosa-
Daniel, col coltello in pugno, mi costrinse a stendermi per terra, bagnandomi completamente col sangue di mio padre i capelli. Fece un lungo taglio appena sotto a dove starebbe il seno, che ancora non avevo, da una parte all’altra. Sentivo il mio sangue uscire, bagnarmi la pancia e perdere il respiro, ma non ancora del tutto. Potevo sentire il cuore vicino come non mai, potevo toccarlo, come lo stomaco e la trachea. Se mi fossi piegata avrei visto dentro, ma questo non mi spaventava.   
Il pigiama strappato, bagnato, aderito completamente alla mia pelle, farmi da rivestimento, da protezione, completamente inutile. Ero nelle sue mani e lui possedeva il mio destino.
Nella mia mente ricordai mio padre, un uomo ricco di talento e rispetto, portato via da non so cosa. Il solo ricordo mi fece ancora più male, ma mi diede quel minimo di forza da poter alzarmi e correre verso la porta. Ancora non si apriva e Daniel si affrettava a raggiungermi. Scrissi col dito insanguinato sul legno chiaro della porta fino all’ultima lettera della frase, sentendo in quell’ultimo istante il pugnale percorrermi la colonna vertebrale, un taglio leggero, tagliente e agghiacciante. Mi accasciai a terra, sulle ginocchia.
-Lasciami ti prego…-
Si piegò anche lui sulle ginocchia fissandomi dritta negli occhi, parlando piano.
-Ma così non riuscirei a divertirmi- mi prese una mano, girandola in modo da slogare il polso, sentendo le ossa rompersi e scricchiolare, frantumarsi e mescolarsi al sangue delle arterie ostruite.
Un altro urlo agghiacciante, una voce bianca, diventando sempre più debole.
Prese anche l’altra e fece lo stesso, rompendo il polso e impedendomi di muovere ogni muscolo. Il sangue delle ferite precedenti mi impediva di respirare e sentii la gola soffocare.
-Non morire piccola bambola, non mi sono ancora divertito del tutto. Le bambole sono fatte per giocare-
Sentivo che era l’ora di morire, lo sentivo dentro di me, come un messaggio. Ma sapevo che sarei tornata con mio padre, che lui finalmente mi avrebbe protetta per sempre.
-Non sarai mai un buon padre-
Smisi di trattenermi e mi lasciai andare.
L’ultima cosa che vidi fu la scritta con il sangue sulla porta: “Ti voglio bene papà, aspettami”.
 
  
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