“Can’t even shout. Can’t even cry.
The gentlemen are coming by.
Looking in the window, knocking on doors.
They need to take seven and they might take yours.
Can’t call to mom. Can’t say a word.
You’re gonna die screaming but you won’t’ be heard”
«L’urlo che uccide- Buffy»
L’aveva sentita cantare ad una festa in maschera, una di quelle
che sua sorella Kairi era solita creare per non perdere gli amici snob che
faticava a farsi, durante i giorni di scuola.
L’aveva intonata una ragazza un po’ dark, mettendo a tacere
tutte le altre ragazze che chiacchieravano nell’immensa sala che sua sorella
aveva noleggiato apposta per quell’occasione; non si vedeva chiaramente,
immersa com’era nella penombra della stanza, ma la sua voce era chiara e
limpida e rimbalzava sulle pareti come se non appartenesse a nessuno, ma fosse
solamente una eco abbandonata.
Aveva colpito dritto al cuore, facendo scorrere sulle
colonne vertebrali di tutte un brivido gelido e spaventoso, in grado di gelare
il sangue anche alla persona più coraggiosa.
Eppure, per quanto quel canto macabro fosse stato intonato
col chiaro intento di mettere suggestione e paura nelle partecipanti a quella
festa in grande stile, Naminè non ne venne particolarmente toccata; anzi, come
quelle parole lugubri smisero di uscire dalla bocca della ragazza, se ne era
già dimenticata.
Non le avevano fatto particolarmente paura. Era un canto di
quelli che sul momento spaventano ma che poi vengono dimenticati e perdono
consistenza, quasi non fossero mai stati sussurrati davvero.
Lei non aveva mai avuto paura di cose simili.
Sua sorella si spaventava davanti ad un taglietto di sangue.
Lei era stata in grado di vedere il loro padre trivellato da colpi di
pallottole senza emettere un fiato, considerandolo alla stregua di una bambola
di pezza rovinata e da buttare.
Non si era nemmeno sentita rammaricata, non si era nemmeno
impietosita davanti allo sforzo degli agenti di rendere quella vicenda un
brutto sogno; semplicemente, si era allontanata, relegando quell’immagine
scabrosa in un angolo della sua strana mente.
Sua sorella tremava se in televisione trasmettevano film
horror. Lei era stata in grado di guardarli per un intero pomeriggio e di
andare a dormire come se non avesse fatto altro che guardare Heidi tutto il
giorno.
Ma d’altronde, lei è Kairi erano due gocce d’acqua solo
nell’aspetto; Naminè non si era mai sentita come lei, né tanto meno l’aveva
considerata della sua famiglia.
Se le chiedevano chi fosse sua sorella rispondeva
prontamente, dilungandosi in complimenti ed aneddoti che abbindolavano tutti
-soprattutto i ragazzi- ma se qualcuno di quelli con cui aveva parlato si fosse
soffermato più a lungo sulle sue parole si sarebbe reso conto che per Naminè,
Kairi era un estranea che viveva nella sua stessa casa, con una madre che si
trascinava per le stanze come un fantasma rinnegato.
Per cui, dire di avere una famiglia, addirittura dire di
amarla, erano cose che Naminè non concepiva.
Lei sentiva di appartenere solamente a se stessa, e il
sangue che sentiva scorrere nelle sue vene altro non era che il suo. Solo ed
esclusivamente suo.
Sua madre, suo padre, anche Kairi, non erano altro che
persone offertesi di crescerla ed amarla, dandole un tetto sicuro e due pasti
al giorno. A loro non interessava la sua vita, come a lei non interessava la
loro, e si limitavano a svolgere il lavoro a cui erano stati assegnati:
educarla.
Quindi, quei canti lugubri rivolti solo a spaurire gli animi
spauriti, su di lei non avevano effetto perché la sua anima ne aveva passate
abbastanza da non soffermarsi nemmeno su simili sciocchezze.
~…~
La festa aveva ripreso il suo corso dieci minuti dopo
l’angosciosa interruzione e le ragazze, con i rispettivi accompagnatori- poiché
Kairi era fermamente convinta che ogni ragazza ne dovesse avere uno- erano
posizionati sulla pista da ballo, pronti a volteggiare non appena le note della
canzone si fossero librate nell’aria come un profumo persistente.
Sembravano divertirsi e molte di quelle persone avevano
fatto complimenti a più riprese, elogiando Kairi e le sue brillanti idee,
invitandola a loro volta ai loro festini privati, tenuti in case con mega
piscina e mega salone, dove ognuno avrebbe potuto sentirsi a casa sua.
Kairi si era gonfiata come un pavone e aveva raccolto i
complimenti come se fossero state pietre preziose; intanto, seduta ad un tavolo
con un bicchiere di vino rosso davanti al viso, Naminè osservava la scena e ne
ghignava tristemente, scuotendo la chioma dorata.
Nessuno sapeva quanto Kairi si facesse in quattro per
organizzare quelle feste e dirlo a tutti, dire ad ognuno dei presenti che sua
sorella andava a scuola e faceva quattro lavori- uno più squallido dell’altro-
non avrebbe fatto altro che allontanarli e Naminè, nonostante la sua indole indifferente,
non voleva fare questo sgarbo alla sorella.
Perciò taceva, mentre il vino rosso tremolava nel bicchiere,
e le sue palpebre si facevano pesanti.
«Ehi, non lo bevi?» le chiese una ragazza, indicando il suo
bicchiere.
Naminè osservò il liquido cremisi e poi risalì il dito di
quella persona fino al suo viso, dove troneggiavano due occhi verdi
annichilenti e un ghigno curioso e ironico su delle labbra troppo carnose.
«Lo berrò quando avrò un buon motivo per farlo»
La ragazza rise e afferrò una sedia lì di fianco,
trascinandola fino al tavolo di Naminè, per sedersi.
«Mi piaci. Non sei come loro. Non sei una gallina» le disse,
mentre la musica cominciava a sovrastare le loro voci e ad inglobarle,
rendendole un suono di sottofondo che non sarebbe stato udito da nessuno.
«Unirmi alla massa non è mai stata la mia più grande
ambizione»
«Sembra che tua sorella la pensi diversamente»
Naminè rivolse i suoi occhi gelidi verso di lei,
incastonandoli in quelle pozze smeraldine che la guardavano col chiaro intento
di fare sarcasmo e non fiatò, mentre stringeva i denti, dietro le labbra
sottili.
La ragazza sembrò percepire l’ostilità e rise- sembrò quasi
che la sua risata scavalcasse la musica e le risate delle persone,
riecheggiando come una nota distorta in tutta quella sinfonia di suoni. Non le
era mai capitato di parlare con persone la cui voce potesse avere tanto potere;
era una bella sensazione, come se parlare con quella voce potesse annullare
tutto il resto.
«Come ti chiami?» le domandò, accavallando le gambe sotto al
tavolino.
La ragazza sformò le labbra in un ghigno e riempì un
bicchiere con del vino.
«Ha importanza? Avere un nome, identificarci, è davvero
importante come sembra? Io sono io, tu sei tu. non contano nomi, né origini. Ci
siamo solo noi e quello che vogliamo essere» e bevve, mentre un rivolo di quel
liquido scarlatto le scendeva lungo il mento e il collo, morendo nella curva dei
seni.
Naminè scostò lo sguardo a quell’immagine inconsapevolmente
provocante e tamburellò le dita sul tavolo, impaziente con qualcosa che nemmeno
lei sapeva definire.
«Ma in qualche modo dovrai essere chiamata» e affievolì la
voce man mano che scandiva le parole, facendola morire insieme alla musica-
avevano smesso di ballare ed erano tutti ansanti e felici, ignari che quel
momento di pure estasi si era concluso con l’ultima nota trascinata della
canzone.
«Giusto» e fece un sorriso tagliente «Ma non è importante.
Smetteresti di parlare con me se non te lo dicessi?» e poggiò il bicchiere da
cui aveva bevuto sul tavolo, tenendolo tra l’indice e il medio della mano
sinistra. Naminè osservò la sua figura, nascosta nella penombra con la sua e
trovò la risposta a quella domanda.
«No. L’hai detto tu. Contiamo solo noi e quello che vogliamo
essere» e guardò sua sorella fare la carina con un ragazzo dagli insoliti
capelli sparati in aria e dalle movenze un po’ esagitate. Poi tornò a
concentrarsi sulla ragazza che le sedeva di fianco e che, con la sola presenza,
sapeva inglobare in sé tutte le attenzioni.
«Sei sveglia» e rise di nuovo, alzandosi in piedi «Già, mi
piaci proprio un sacco» e si allontanò confondendosi con le ombre della stanza;
ombre che Naminè non riusciva a sondare.
~…~
La festa si era conclusa con uno scroscio disarmonico di
applausi e grida di approvazione a cui una Kairi eccitata aveva risposto con
profondi inchini.
Naminè aveva osservato le persone uscire dalla sala e
ridere, mentre rievocavano avvenimenti avvenuti pochi attimi o addirittura ore
prima, quando ancora volteggiavano nella sala come tante farfalle. Ne aveva
carpito solo poche parole, persa com’era nelle sue elucubrazioni in merito alla
chiacchierata avuta con quella ragazza senza nome.
«Possiamo tornare a casa, Naminè» le aveva detto Kairi
strappandola ai suoi pensieri con eccessiva velocità, tanto che l’interpellata
ci mise qualche minuto per recepire la cosa.
Quando alla fine comprese, si avviò con la sorella verso la
strada che le avrebbe portate a casa; erano stanche e i piedi di Kairi erano
gonfi per il troppo ballare tant’è che Naminè le aveva dovuto passare un
braccio dietro la schiena per sorreggerla.
Era sempre stata insofferente verso qualunque rapporto
ravvicinato con qualsiasi persona e con sua sorella la cosa si amplificava
ancora più del dovuto; le dava un profondo fastidio prendersi cura di qualcun
altro che non fosse lei.
«Mi fanno male i piedi» aveva pigolato Kairi, aggrappandosi
alla sua spalla come se fosse stata un ancora e Naminè aveva dovuto sostenere
quel peso sul suo corpo esile.
«Manca poco» l’aveva rassicurata, tentando di farla stare in
piedi almeno un po’ di più.
O almeno ci aveva provato, finchè un vento gelido non le
aveva fatte fermare in mezzo alla strada.
Kairi si era spaventata, come suo solito, mentre Naminè
provava a tendere i sensi per captare qualcosa.
C’erano continui fruscii e brusii e per quanto questi
potessero essere collegati con l’ambiente, alla ragazza parevano quasi umani.
Si incuriosì e tentò di tenere fuori dalle sue percezioni i brividi di Kairi e
i suoi continui lamenti per il dolore e la paura.
Poi, riecheggiando come un marcia funebre, le note di quella
canzone spettrale che era stata cantata durate la festa riprese a suonare,
accompagnata dalla voce melliflua della ragazza che non si era presentata. Con
uno strano balzo nel cuore, Naminè la cercò con gli occhi e la vide: in piedi
come un gatto pronto ad attaccare, le attendeva su un muretto, cantilenando
come un ossessa.
Quando si accorse di essere stata vista, saltò e scese sulla
strada, silenziosa come il sibilare del vento.
«Ciao» aveva detto rivolgendosi a Naminè.
«Ciao» aveva risposto lei, lasciando che la sorella si
rimettesse in piedi da sola.
La ragazza senza nome si avvicinò, frusciando negli abiti
che le fasciavano il corpo. Sulla gola, riluceva ancora la striscia scarlatta
del vino che aveva bevuto e Naminè se ne stupì.
La guardò avvicinarsi come una catastrofe e attese la fine
senza tremare né muoversi, conscia che non le avrebbe fatto niente- o almeno
sperava, perché anche lei alla vita ci teneva.
«Sono venuta a prenderti»
Naminè corrucciò le ciglia bionde.
«A prendermi?»
La ragazza ghignò e con uno scatto veloce e pulito, si mise
dietro le spalle di Kairi, tenendogliele ferme, mentre lei si dibatteva come un
pesce fuor d’acqua. Le stava facendo male e Naminè lo sapeva, come sapeva anche
che quella ragazza non era umana; o almeno non lo era nel senso reale della
parola.
Sembrava che con quella sola presa il corpo di Kairi non
potesse più muoversi e forse era davvero così, visto che agitava solo le gambe
stanche.
«Devi venire con me» sorrise a Naminè, mentre le labbra
carnose scoprivano canini lunghi e lucenti come zanne. Zanne che Naminè non
aveva mai visto. Ne provò ribrezzo ma fu per un solo istante.
Nel giro di un secondo tornò la stessa di sempre.
«Venire con te, dove?» domandò circospetta, mentre Kairi
frignava.
La ragazza rise e la sua risata le scivolò addosso aguzza,
ferendola come se fosse stata una lama.
Le si avvicinò, gettando a terra il corpo innocuo di Kairi
che protestò con un debole ringhio e la guardò negli occhi, stregandola. Le
poggiò una mano sulla spalla, delicata, e avvicinò il viso al suo sussurrandole
all’orecchio:
«Posso offrirti quello che hai sempre desiderato. Basta che
tu lo dica»
Naminè rimase immobile,con le mani chiuse a pugno lungo i
fianchi spigolosi.
«Naminè! Naminè! Scappa!» aveva gridato sua sorella,
provando a tirarsi su.
Ma Naminè non sentiva, non percepiva.
C’era solo quella ragazza senza nome che le prometteva la
vita eterna.
«Come avrai capito, io non sono umana. Lo sono stata, ma poi
mi sono lasciata trasformare» e aveva ridacchiato al suo orecchio, scivolando
tra i suoi pensieri come seta «Io ho deciso di trasformare te. Basta solo che
tu lo voglia, e io posso darti il biglietto di sola andata per l’ignoto».
«Ma…» provò ma la voce insistente della sorella coprì ogni
altro suono.
«Non ascoltarla, Naminè! Non farlo! È pazza! Pazza! Scappa
via!»
Ma Naminè non voleva e la ragazza, come se le avesse letto
nei pensieri, scattò verso Kairi e l’afferrò di nuovo, premendo sulle sue
spalle con mala grazia; spinse e spinse fino a sentire le ossa che scricchiolavano
dolorosamente, ghignò nell’oscurità e ruppe qualcosa, lasciando cadere il corpo
di Kairi con un tonfo sordo. Sotto lo sguardo di Naminè, gli occhi enormi e blu
di Kairi la guardavano spenti e la sua bocca, quella bocca rosa che rideva
sempre era contratta in un grido muto.
Le braccia, rotte, le ricadevano scomposte per terra e le
gambe giacevano distanziate l’una dall’altra, conferendogli l’aspetto di
bambola di pezza rotta ed inutilizzabile.
La guardò a lungo, assorta, poi la lasciò stare,
abbandonandola su quel suolo freddo come un oggetto di poco conto, tornando a
concentrarsi sulla ragazza senza nome.
Era lì, con le mani sporche di sangue, che la guardava
curiosa, in attesa di una sua reazione.
Ma lei era ancora concentrata sul cadavere di Kairi; non lo
guardava veramente, ma l’immagine era stampata nella sua mente come una foto
nitida, di quelle fatte in pieno giorno.
Non aveva pianto e nemmeno gridato, seppur sulle sue labbra
aleggiasse lo spettro di un urlo.
Non aveva chiamato la mamma- i fantasmi non chiamano altri
fantasmi- e non aveva detto una parola.
Sospirò e chiuse gli occhi, relegando quell’immagine insieme
a quella del padre nel loro cassetto personale, quello dei ricordi scabrosi e
in via di cancellazione- ma non li avrebbe mai cancellati. Servivano a lei per
sapere sempre per quale motivo non li considerava la sua famiglia.
«Beh? Cosa hai deciso?» le domandò la ragazza senza nome,
con gli occhi che baluginavano come ferite.
Naminè la guardò e poi diede un ultimo sguardo al cielo.
Infine scoprì il collo, e lo tese.
Note: oddio questa
cosa giace da almeno un anno in una delle mie cartelle o_o
L’avevo scritta dopo aver visto l’unico
episodio di buffy che mi ha catturato, intitolato “l’urlo che uccide”.
Non so come è venuta e l’ultima parte sinceramente
non mi piace particolarmente, ma nel complesso mi piace.
Spero possa piacere anche a voi ^^