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Autore: harinezumi    23/11/2010    8 recensioni
uno stimato professore di Oxford diviso tra lavoro e famiglia, un pittore un pò tra le nuvole, un ragazzino convinto di avere il mondo in pugno e un bambino che preferisce masticare il suo peluche piuttosto che parlare.
in linea con la balzana idea di fare una serie sulla famiglia e ispirata da alcune meravigliose fanart, ho scritto questa breve fic, spero apprezzabile (avvertenze: probabilmente in quel momento ero drogata)..
Genere: Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Canada/Matthew Williams, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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The perfect daily routine
 

 
«Ehi, Alfred, non correre giù per le scale, aspettami lì!» gridò Arthur, cercando di destreggiarsi tra la cartelle dei suoi figli e la propria valigetta, senza contare Matthew che gli stava appollaiato sul braccio. Alla fine arrivò ad infilare le chiavi nella serratura dell’appartamento, chiudendola.

Solo allora seguì il ragazzino biondo con gli occhiali che era schizzato fuori dalla porta non appena l’aveva aperta, che lo aspettava sulle scale con una smorfia sul visetto, ancora sporco della marmellata della colazione su una guancia.

«Oh, Alfred, fermo… ti sei sporcato tutta la faccia» sbuffò Arthur, non appena lo notò. Si abbassò inginocchiandosi a terra, facendo scendere Matthew dalle proprie braccia e poggiando le cartelle sul pianerottolo, però quello immediatamente si mise a piangere. «Matthew, buono… adesso papà ti riprende, dammi un secondo!» supplicò il bambino.

Ovviamente era del tutto inutile, e questo significava soltanto che se la sarebbe presto vista con il suo stizzoso vicino di casa; Roderich era un pianista che lavorava solo di notte e la mattina dormiva fino a tardi, e si lamentava ogni volta per il casino che facevano i bambini andando a scuola.

Arthur prese in fretta il fazzoletto dal taschino del suo completo, passandolo sulla guancia di Alfred che si dimenò leggermente, spingendo senza gentilezza più in là Matthew che cercava conforto nel fratello.

«Mangi come un animale, di certo non hai preso da me» sbuffò Arthur, finendo di pulirlo e riponendo il fazzoletto nella valigetta, dato che non aveva altra scelta ora che era inutilizzabile. «E non picchiare Matthew!»

«È sempre in mezzo!» protestò Alfred, lanciando un’occhiataccia al fratellino, che si era aggrappato alla giacca di Arthur e lo fissava in lacrime, stringendo con l’altra mano il peluche più grande di lui di un orso polare. «E poi non è colpa mia, quando il papà ci prepara la colazione ho sempre un sacco di fame! Perché le altre mattine si mangia quello che fai tu» esclamò con entusiasmo, come il solo pensiero del cibo bastasse a renderlo felice.

Arthur evitò di prestare attenzione a quel commento, in quanto poco riusciva a trattenerlo dall’esplodere di rabbia quando qualcuno alludeva al fatto che la sua cucina facesse schifo. Anche se era suo figlio di dieci anni, non riusciva a tollerarlo.

«Andiamo, è meglio» ringhiò, gelidamente, alzandosi in piedi e prendendo in braccio Matthew, prima di afferrare le varie cartelle. Sorpassò Alfred, intimandogli di muoversi se non voleva perdere il passaggio che voleva dargli con l’auto fino a scuola.

Consegnò un terrorizzato (come sempre) Matthew tra le braccia della sua maestra d’asilo, dopo aver portato Alfred fino alla soglia della sua classe; il ragazzino tendeva a marinare la scuola, perché riteneva di essere già un genio e di non aver bisogno di imparare. In sostanza, si liberò dei suoi figli prima che lo facessero impazzire, andando di filato al lavoro.

Quasi si sentiva rilassato, mentre correggeva i test dei suoi studenti universitari, nel suo bel studio da professore ad Oxford. Fortunatamente, non avrebbe dovuto occuparsi anche di andare a prendere i bambini a scuola, sempre che loro padre per una volta non si rivelasse un irresponsabile.

Alfred, il primo arrivato, era un ragazzino sveglio, ma terribilmente arrogante, e trattava davvero male il suo fratellino, Matthew. Quello era arrivato in famiglia all’età di un anno, e non aveva spiccicato parola fino ai due; la sua timidezza e sensibilità erano fuori dal mondo. Arthur non era ancora riuscito a capire se, nonostante tutte quelle differenze, i due fratelli si amassero effettivamente.

Proprio a metà mattinata, però, il telefono sulla scrivania di Arthur squillò. La scuola, di nuovo.

Alfred aveva picchiato un suo compagno canadese in classe (era la quarta volta) e Matthew si era fatto colpire in testa da una palla da baseball nell’intervallo.

***

       «Che cosa hai detto? Guarda che sono tuo padre!» gridò Arthur dietro ad Alfred, che corse dentro l’appartamento non appena aprì la porta, sparendo in camera sua.

Prima di chiudersi dentro, gli gridò dietro qualcosa come “come vuoi tu, mamma!”, il che fece arrossire Arthur di rabbia, che gettò le cartelle in un angolo dell’ingresso, posando Matthew a terra con uno sbuffo. Guardò l’orologio che aveva al polso, e notando che erano già le sei; in effetti, un profumino invitante di cibo usciva dalla cucina.

«Vai a giocare, Matthew» disse al bambino, che lo guardava dal basso masticando un orecchio del suo inseparabile peluche. «Tra un po’ sarà pronta la cena, in ritardo grazie a tuo fratello» sbuffò, dirigendosi verso la cucina e azzardandosi per la prima volta in dieci ore ad allentarsi la cravatta.

Appoggiò una spalla allo stipite della porta, osservando la figura intenta a lavorare ai fornelli; l’avrebbe definito uno strano individuo, con quella camicia rossa di seta e quei jeans attillati, i capelli biondi e lunghi in una perfetta messa in piega. Non portava nemmeno scarpe normali, ma mocassini lucidi. L’unico segnale del fatto che stesse cucinando e non andando agli Oscar era il grembiule rosa che aveva infilato.

«Oh, Arthùr» lo salutò, voltandosi verso di lui con un sorriso. Lasciato quello che stava facendo ai fornelli, si avvicinò ad Arthur, baciandogli la guancia e facendolo immediatamente arrossire. «Ho sentito che siete tornati di gran carriera» aggiunse, con una risatina, alludendo alle grida di Alfred.

«Vai a quel paese. È tutta colpa tua se è diventato scemo, Francis» sbottò Arthur, arricciando il naso.

Francis, per tutta risposta, rise, tornando alla sua postazione. «Com’è andata la giornata, mon chèri?»

«Hai il coraggio di chiedermelo?» sbuffò Arthur, sedendosi alla tavola della cucina, tanto per avere una visuale migliore del posteriore di Francis, mentre cucinava. Anche se la versione che dava all’altro era totalmente differente, ovvio. «Ci hanno messo anche meno del solito a chiamarmi dalla scuola. Alfred è stato sospeso e Matthew è sempre più terrorizzato dall’asilo, così li ho dovuti portare al lavoro. Perché tu, il grande artista, sei troppo occupato in giro per le tue gallerie per prestare attenzione ai bambini».

«Arthur, ti prometto che se succede di nuovo li terrò io» lo rassicurò Francis, peraltro con sincerità e con un sorrisetto. Ma sapeva benissimo che era almeno la quinta volta che faceva quella promessa.

«Poi Alfred ha tirato un aeroplano in testa al direttore dell’università, chiamandolo “sporco alieno”, perché è calvo e lui sostiene che gli alieni i capelli non li hanno… E io…». Arthur sembrava quasi in lacrime, tanto era distrutto e disperato. «Non sai quanto ho dovuto scusarmi, per fortuna non sono stato licenziato…».

«Mon chèri…» mormorò all’improvviso Francis, chinandosi su di lui. Non si sa quando –doti di francese, probabilmente- si era avvicinato ad Arthur, che si era nascosto il viso in una mano.

Lo baciò sulle labbra non appena le intravide in uno spiraglio, abbassandosi a terra ulteriormente per concentrarsi poi sul collo di Arthur, che succhiò avidamente.

«Non piangere, ci penso io a te» gli soffiò infine, all’orecchio.

E Arthur si perse stupidamente a fissare quegli occhi azzurri, capendo che probabilmente, nonostante sbandierasse poco credibilmente ai quattro venti il loro amore eterno, non esisteva un modo in cui quello scemo di Francis potesse effettivamente farlo infelice.
       
 

 

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provo un grande affetto per questa fic! trovo tenero pensare a loro come una famiglia, anche se temo sarebbero un po’ disastrati messi tutti insieme ^^’

inizialmente volevo che fosse un po’ più lunga, con dei capitoli, ma non penso di riuscire a scriverla *beata sincerità*. comunque, mi piacerebbe sapere cose ne pensate, ci tengo tanto ç-ç grazie di aver letto fin qui & alla prossima!
 

harinezumi 

  
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