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Autore: Callie_Stephanides    26/11/2010    0 recensioni
In amore e in guerra tutto è permesso, recita un celebre adagio... E per diventare famosi?
Uno spregiudicato Tetsuya Ogawa sfida senza paura tutte le regole - quelle della natura e quelle del buonsenso, soprattutto - per far capitolare il batterista dei propri sogni. E, come al solito, vince.
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Wakayama non era un piccolo paese, eppure a modo loro i Takarai erano noti. In Giappone, in fin dei conti, la notorietà è spesso la maldicenza sottile o lo sgomento per scelte non troppo convenzionali. Tetsuya avrebbe detto che bastava non tagliarsi i capelli per un paio di mesi; la via per la celebrità contemplava anche dettagli non troppo ortodossi.
Tetsuya era però anche uno che si era vestito di un rosa sbiadito per la cerimonia dei venti anni e che non aveva paura a tingersi i capelli di rosso e a sorridere a chiunque come se non fosse affatto il teppista per cui lo prendevano tutti. I Takarai, invece, erano una tranquilla, esemplare coppia della middle class del Kansai, neppure volessero riprodurre in quel piccolo universo orientale le ambizioni e le illusioni che rendevano persino ragione del nome del loro locale. Un pub. All’inglese.
A Wakayama, i Takarai erano stati prima di tutto quelli che si erano sposati senza il volere della famiglia. In un Paese in cui i matrimoni combinati erano la risposta migliore alla mancanza di tempo e, forse, persino di sentimenti, la felicità quasi ignominiosa con cui quei due si erano scelti e voluti bene lasciava sgomenti, inorgogliti e ottimisti.
A Wakayama, i Takarai erano però soprattutto quelli dell’Apple, quelli che ascoltavano musica gaijin anziché enka. Quelli, in fin dei conti, che avevano fatto di Hideto ciò che Hideto non aveva forse neppure compreso di essere: il simbolo di un nuovo Giappone, la voce di un Paese che avrebbe smesso di essere sushi per curiosi e occhi a mandorla e samurai. Il Giappone che Yoshiki e hide avrebbero forse portato oltre il Pacifico, verso un’America che aveva smesso di fare paura come durante la Ricostruzione per diventare un modello ed un’ambizione.
I Takarai, poi, erano persino oltre. I Takarai ascoltavano i Beatles.
Su ‘Lucy in the sky with diamonds’ il minuscolo Hideto aveva pianto per i primi denti, pianto per avere un altro muffin, pianto per essere caduto dal bancone circolare, pianto per una testata contro lo sgabello, pianto perché il juke-box non cantava solo per buona volontà dell’osservatore, pianto finché suo padre non aveva forse pensato davvero a rifilargli una pasticca di L.S.D. di quello buono per farlo tacere. Poi, ricordandosi quella minuscola vita fosse il suo unico erede – per giunta maschio, benché fosse difficile capirlo – l’aveva iscritto a un corso di kung-fu per la felicità dei vicini, che vedevano finalmente fruttare il perenne richiamo alle buone abitudini patrie.
In fin dei conti fu pure l’unica concessione, perché Hideto non venne mai rasato a zero, come nella migliore delle tradizioni igieniche del Sol Levante, e i suoi capelli – bellissimi – furono sempre di gran lunga più lunghi di quel che il buonsenso avrebbe voluto.
Forse perché la signora Takarai voleva tanto una bambina e Hideto era un buon compromesso.
Forse perché il signor Takarai amava John Lennon e altri tre baronetti dal nome impronunciabile, capelloni, immorali e gaijin.
I Takarai, in ogni caso, erano rispettati per gli eccentrici che erano e quel loro unico figlio – maschio, checché ne pensasse qualche avventore di passaggio, quando vedeva spuntare una lunga coda di cavallo da dietro il bancone – non era considerato che l’ennesima espressione di quella loro peculiarità così pittoresca. Hideto poi – e Tetsuya l’aveva scoperto con grande imbarazzo dell’altro – non era sempre l’anticonformista rompi-regole-e-scatole che gli piaceva tanto recitare sul palco e nella quotidianità meno convenzionale.
Se ti chiami Hideto e nasci a Wakayama, Kansai, Giappone, per quanto pure possa distruggere con il tuo dialetto la bellezza della musica londinese, non sarai mai libero dentro e fuori come un ragazzo che ha per natura capelli biondi, sottili e sembrerà tuo nonno quando avrete trent’anni.
Tetsuya ne era consapevole, ma la forza della sua originalità interiore lo teneva al riparo dai compromessi e dalle pose. Hideto era uno che passava da un infantilismo bizzoso a tetraggini urticanti, da quella sua androginia senza patria a un abito rassicurante e borghese. Se non fosse stato daltonico, Hideto avrebbe fatto il mangaka, il che stava a dire la quintessenza della cultura orientale. Siccome era kawaii e daltonico, però, il destino aveva deciso che la musica avrebbe avuto la meglio su Lupin III e ambizioni di ben altro livello.
Hideto, anche se poteva vergognarsene in modo spaventoso, aveva fatto il cameriere nel Mr. Donut accanto alla ferrovia, sorridendo tirato e pieno d’odio a un mucchio di vecchietti che gli chiedevano il solito e di tagliarsi la frangia troppo lunga e ribelle. Perché i bravi ragazzi portano i capelli corti e si cercano un lavoro serio. Hideto avrebbe servito ciambelle avvelenate e sognava la musica con cui era cresciuto, non tanto in altezza, ma da racchiudere dentro un universo di note.
Nel mondo là fuori, per cui sembrava troppo piccolo, troppo fragile e troppo vulnerabile, con quella sua aria da Peter Pan – o Principessa, come piaceva pensare a sua madre, persino quando cambiava una ragazza a settimana e si svegliava con le occhiaie di una sbronza e la barba di due giorni – Hideto non aveva mai paura ed era a volte di una serietà davvero fuori luogo.
All’Iwaki, dove aveva lavorato finché suo padre non aveva ceduto, dandogli il permesso di spezzare il cuore dei vicini e urlare una musica gaijin e decadente da una live-house di Osaka – lo ricordavano solo perché parlava poco, lavorava sodo e occupava in continuazione lo studio del secondo piano. All’epoca i capelli gli arrivavano già alle spalle, si era forato i lobi e studiava il trucco di scena. La sua maschera da troietta minorenne.
All’epoca firmava ancora con il suo nome completo. Forse si era dimenticato di Baki.
All’epoca fumava già da un sacco di tempo le sue venti cherokee quotidiane – se non era particolarmente nervoso – scandalizzando per la sua età e per il fatto dimostrasse dieci anni di meno.
Sono per tuo padre, vero?’ era il leit motiv di ogni acquisto.
Hideto giustificava così il fatto che la nicotina non fosse mai abbastanza, e ti veniva quasi voglia di dargli ragione.
Aveva insegnato persino musica in un liceo locale: batteria, per un mese. Era maledettamente dotato per qualunque strumento, ma non era tagliato per trasmettere altro che emozioni. Non era quello che voleva dalla vita e di sicuro non poteva esser considerato un insegnante memorabile.
Tetsuya ripassava tutto quel che sapeva di lui e che era stato difficilissimo estorcergli in un anno e mezzo di frequentazione quasi quotidiana. haido – come si faceva chiamare in scena, dopo che gli avevano fatto notare un hide già ci fosse, e fosse molto ma molto più famoso di lui – era contraddittorio persino in questo. A vederlo ti veniva spontaneo proteggerlo e credere avesse l’ingenuità e l’inesperienza di un bambino. A conoscerlo ti accorgevi che a grattar via quella patina di falso infantilismo ti trovavi davanti un uomo vero, uno che era fatto di ferro, dentro, e sapeva benissimo di voler arrivare. La meta non era importante, perché anche le stelle erano troppo vicine per uno del suo calibro.
L’unica ingenuità di haido, forse, stava nel sottovalutare il potere della sua naturale ambiguità, il fascino che derivava dall’ossimoro di una voce tanto potente in un corpo tanto sottile. Prima o poi, in ogni caso, l’avrebbe capito, e a quel punto non ci sarebbe stata più pace per nessuno, perché haido era uno cui non spaventava lavorare sodo. Poteva farlo su se stesso non meno che sul demonio musicale che covava dentro.
Tetsuya era arrivato davanti all’Apple, mentre i fornitori scaricavano le casse di liquori che il week-end avrebbe disperso. Con i capelli legati stretti e senza il trucco di scena, haido tornava Hideto: nello sguardo che non era languido, ma svanito e un po’ duro; nelle guance che sembravano meno morbide, velate com’erano da una peluria persino strana su quel viso che nemmeno una idol avrebbe avuto tanto bello; nella voce che indulgeva nelle peggiori cadenze del dialetto e non saliva in quei falsetti ammiccanti e virtuosi che lo stavano rendendo una celebrità.
A Tetsuya bastava guardarlo anche in momenti come quelli per capire che solo un istrione del suo calibro aveva la stoffa per espugnare l’olimpo della musica, ma che forse quelle stesse qualità potevano essere un problema, perché Hideto era pure un concentrato di orgoglio, di arroganza e poca intelligenza compromissoria – se ne avesse posseduta una briciola, nei fatti, non avrebbe ringhiato a innocui pensionati di Wakayama.
E ora stava per chiedergli di sedurre Sakurazawa fino a fargli perdere ogni briciola di buonsenso e perplessità residua.
Forse Hideto l’avrebbe ucciso. Forse era meglio avvicinarsi alla realtà attraverso il velo sottile, querulo e ipocrita di una quasi menzogna. Forse era meglio telefonare prima a Ken, fingersi interessati alla sua situazione familiare di pianti materni, silenzi paterni e minacce di diseredazione, per assicurarsi un complice e un testimone nel caso haido avesse dato di matto – il che stava a dire quasi per certo quel che sarebbe accaduto, quando gli avrebbe detto che con qualche boccolo sarebbe stato più carina. E doveva essere più carina. Per forza.

Ken Kitamura conosceva Tetsuya Ogawa da una tale quantità di tempo che a fatica ricordava di essersene persino separato ai tempi gloriosi del liceo e dell’università, come pure troppo spesso accade a chi ha frequentato lo stesso asilo, lo stesso istituto per le scuole elementari e medie, e persino militato nello stesso club di baseball. La verità era che Tetsuya fosse un personaggio di cui davvero non potevi mai dire d’esserti liberato del tutto, perché i suoi sogni, il suo entusiasmo e la sua voglia di sfondare erano davvero contagiosi.
Tutti, in verità, hanno un sogno nella vita, ma quelli di Tetsuya sembravano sempre più vivi, più colorati e più veri. Quelli di Tetsuya erano sogni talmente onesti che non potevi resistere all’idea di renderli reali, o, se non altro, Ken Kitamura aveva una gran voglia di farsene un alibi per giustificare un colpo di testa già indigeribile in una qualunque famiglia del mondo, ma che in Giappone si avvicinava di molto alla suprema concezione di scandalo.
Non sapeva bene cosa l’avesse spinto ad abbandonare l’Università e una carriera più sicura.
Forse la noia.
Forse la nostalgia di Tetsuya e dei suoi discorsi senza senso eppure lucidissimi.
Forse proprio il grado di lucidità prossimo allo zero con cui aveva ricevuto quella telefonata.
Forse l’entusiasmo di poter tentare di nuovo.
Forse Hideto. La voce di Hideto e la spaventosa carica erotica che si fondeva all’adrenalina del debutto e diventava una specie di orgasmo, ma infinito.
Forse quella diabolica insinuazione, che si sposava alla mitologia del contesto in cui la sua chitarra era chiamata ad arpeggiare una rivoluzione.
‘Lo sai che è il chitarrista quello che rimorchia di più, vero?’
Forse era davvero un insieme di troppi fattori, per poterli chiamare per nome e scandirli quasi fossero una lista della spesa. Quello era il mondo ordinato in cui si era sforzato di crescere e in cui davvero aveva temuto di invecchiare, finché la sua pallida esistenza di quasi architetto non era stata stravolta dalla voce di Ogawa e dal suo ‘Hiro ha mollato. Ho un vocalist che mi porterà dritto all’Oricon, ma nessun chitarrista. Vuoi ancora conquistare il mondo, Ken?
Era evidente che fosse una domanda retorica, un po’ come chiedergli ‘Ti piacciono ancora le donne?’ quando la sua vita era stata un flirt perenne.
Tetsuya era davvero troppo abile in situazioni come quelle. Poteva convincerti che gli asini volavano, solo ch’eri troppo distratto da altro per rendertene conto. Uno come lui poteva fare solo il leader, il dittatore o il disoccupato: una persona perbene non gli avrebbe mai dato credito.
Ken Kitamura, dunque, doveva trarre la stessa conclusione di suo padre: non era una persona perbene, non la stava diventando, almeno. Però la sua vita così precaria e così instabile lo divertiva, e a Ken piaceva ridere quasi quanto fare sesso. Quasi, però. Su quel fronte Kitamura non scherzava mai.
La casa di Tetsuya era un anonimo villino monofamiliare su due piani come ne vedi sempre nei manga, sul cestino del bento preconfezionato e negli incubi del giapponese medio: il simbolo di una famiglia ben aggiustata e tanto felice. A Ken certi dettagli non dispiacevano quanto il fatto che le due sorelle di Tetchan somigliassero al maggiore, e dunque fossero troppo brutte per i suoi gusti. Tetsuya era un bravo ragazzo, era quello che avresti detto un tipo, e con l’altro sesso aveva un successo discreto, che nasceva però più dalla sua irresistibile simpatia, dal suo sorriso aperto e dalla sua vena istrionica, che dal suo naso troppo sottile, dai suoi occhi troppo piccoli e dalla sua statura poco o nulla significativa – sempre, poi, a stendere un velo pietoso su quello che sospettava fosse un daltonismo non meno grave di quello di Hideto, che, se non altro, se n’era fatto una ragione e seguiva l’aurea regola dei cani (bianco e nero).
Quando a Tetsuya sfuggiva una predilezione cromatica, rischiavi d’infognarti su un Picasso psichedelico, e Ken Kitamura talora si domandava che differenza ci fosse tra i suoi testi universitari e l’armadio di Tetsuya, visto e considerato che gli sgorbi tali restavano senza rimedio.
Ogawa, in ogni caso, come donna era brutto. haido era anche troppo bello – e poteva crearti interrogativi esistenziali inquietanti – ma Tetsuya era al di là del bene e del male, e aveva due sorelle femmine innamorate di lui.
Ken Kitamura si domandava sempre perché non avesse nessun amico disposto a chiedergli se volesse fare il mantenuto, in quel caso era convinto che non avrebbe avuto neppure bisogno della gavetta, perché sapeva di essere un talento naturale. Con tutti i crismi.
“Allora? Hai finito?”
Aveva schiacciato con indolenza la cicca contro il bordo del marciapiede, incurante dello sguardo scandalizzato di una vecchia interessata al suo look trasandato e a un’aria che presumibilmente aveva già bollato come losca, senza sapere che il suo genuino e generoso amore per il sesso femminile non si estendeva fino ai limiti della follia e del geriatrico. Tetchan lo fissava con odio miope dal piccolo balcone, maledicendo la Marlboro fino all’ultimo stabilimento. Con il giaccone di finto pelo, la camicia sformata di un viola inquietante e i capelli lunghi di un rosso vinoso, era un incrocio tra uno spaventapasseri e una pubblicità progresso contro le malattie veneree, si era ritrovato a pensare.
“Si può sapere che hai da ridere da solo come un coglione? Entra dentro. Dobbiamo discutere di affari seri!”
Tetsuya, era evidente, mancava di un adeguato senso dell’umorismo davanti allo specchio; in compenso le due sorelle stra-minorenni e racchie non erano in casa e Ogawa faceva un caffè ch’era senz’altro meglio di quello di haido.
Un daltonico è meglio che stia sempre alla larga dalla cucina. Anche se si ingozza.
La camera di Tetsuya era un sinistro incrocio tra il deposito di un robivecchi, il camerino di un clown e l’antro di un otaku della peggior specie. Quello che ti inquietava davvero, però, era il fatto che fosse sempre ordinata. Anzi, se percorrevi la stanza da destra verso sinistra, ti accorgevi che i modellini sfilavano in ordine alfabetico. Da quei particolari Kitamura aveva maturato la convinzione che Tetsuya non andasse contraddetto, poiché tra l’essere geek e il dare di matto pericolosamente non doveva poi correre una gran distanza. In ogni caso, se Ogawa inforcava i suoi occhialoni trash senza troppe cerimonie – e senza chiederti di smettere di fumare per almeno tre volte – voleva dire che l’ironia delle analisi in soggettiva poteva restare oltre la porta e si cominciava a recitare un ruolo più serio.
Ken amava anche momenti come quelli, fatti di dettagli futili agli occhi di tutti, fuorché dei sognatori, di progetti a breve, lungo e lunghissimo termine, fantasie non più consistenti di bolle di sapone, ma che non svanivano mai.
“Ho telefonato a Sakurazawa per sapere se aveva ascoltato la nostra demo,” aveva esordito Ogawa a bruciapelo. Aveva annuito, sorprendendosi di quanto più forte battesse il suo cuore. Yasunori era di Tokyo, e Tokyo era come dire Londra o New York per la musica occidentale. Attirare l’attenzione di uno come lui voleva dire provare a fare il salto di qualità. Voleva dire non essere major, ma quasi.
In sostanza lasciarsi alle spalle Osaka, la provincia, le chiacchiere, le recriminazioni domestiche.
“Sono riuscito a convincerlo… O quasi.”
“Ci sei riuscito o non ci sei riuscito?” aveva detto, sforzandosi di contenere il tremito emozionato della propria voce.
“Sì e no. Diciamo che ho usato un’esca.”
“Un’esca? Che genere di esca?”
“Quella che funziona sempre con te.”
Ken era rimasto in silenzio a riflettere per un paio di secondi, prima di afferrare Tetsuya per le spalle e guardarlo negli occhi miopi, oltre le lenti spesse. “Non gli avrai promesso di presentargli una delle tue sorelle, vero?”
Tetchan l’aveva squadrato con un odio degno di uno schizzo satanico di Go Nagai, prima di sibilargli un “Per chi mi hai preso, cretino?”, che l’aveva rassicurato.
Non gli avrebbe mai fatto capire, ovviamente, le autentiche ragioni per cui ne fosse tanto sollevato: non aveva nulla, a dirla tutta, contro la tratta domestica, ma Sakurazawa non poteva essere davvero tanto disperato da contentarsi di una delle ragazzine Ogawa.
Non avevano neppure un fratello famoso.
“Comunque sì. Lo sapevo che c’eri arrivato, maiale. Gli ho promesso una donna. Sakura è famoso per essere uno con l’occhio lungo e le mani pronte non solo sui piatti. Ho oliato un po’ l’ingranaggio.”
“Tetchan… Perché prometti donne a tutti tranne che al sottoscritto?”
“Non ho promesso donne a Hideto.”
“Che c’entra haido? Con quello basta qualcosa che si mangia e uno specchio.”
Tetsuya aveva lo sguardo omicida dello stratega che si sente sabotato, mentre si alzava con uno scatto nervoso e fingeva di non aver dato una poco onorevole ginocchiata al kotatsu.
“Gli ho promesso una donna… Ma non è proprio una donna…”
Considerando i presupposti, Ken aveva evitato di tirare di nuovo in ballo la fauna femminile di casa Ogawa, ma non poteva negare d’essere sempre più curioso e sempre più disorientato da quelle illazioni che suonavano del tutto prive di senso.
“Spara, Tetchan. Altrimenti facciamo notte.”
Tetsuya aveva respirato in profondità, prima di fissare pensoso il pavimento e scandire: “Gli ho detto che haido è una lei. E che vale la pena di conoscerla.”
Ken era rimasto serio per un intero, lunghissimo, eterno, mortale minuto, poi aveva cominciato a ridere tanto da disperare che potesse arrestarsi prima di un nuovo terremoto del Kanto.
“Lo sapevo che avresti reagito così! Bell’amico. Mi complimento!”
Si era asciugato le lacrime senza smettere mai di sogghignare. “Ma come dovevo reagire, me lo spieghi? Tutto questo è assolutamente ridicolo!”
“Non avevo altra scelta per convincerlo a raggiungerci a Osaka, no? Che può saperne di noi se non ci vede?”
“Grandioso. E gli hai detto che lei mangia come un lottatore di sumo e ha più baffi di te?”
“No. Gli ho detto la verità.”
“Ma ‘sto Sakura sarà mica…”
“Gli ho detto che è molto bella e molto troia.”
“Sì… In effetti anche questa sarebbe una verità… Voglio dire: se ci sono caduto io, che pure…”
“Adesso non ricominciare a vantarti della tua carriera di porco e stammi bene a sentire…”
“Sì?”
“L’importante è che Sakurazawa non mangi subito la foglia. Per questo, però, tu devi convincermi a persuadere haido.”
“Cioè… Devo aiutarti a ricattarlo in qualche modo?”
“Una specie. Sì.”
“Tetsuya… Più passa il tempo, più mi fai paura…”
“Grazie. Lo prendo come un complimento.”

   
 
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