Niente.
Non c’è assolutamente niente.
È passato più di un mese.
E stamattina ho pure vomitato.
Sono nella merda.
Nella merda più totale e assoluta.
Ok, Emily, non preoccuparti, ora vai a farti un giro e tornando compri
un test
di gravidanza.
Così, solo per sicurezza.
Afferro la borsa appoggiata sul mio letto e mi avvio decisa verso la
porta. Mia
madre, che sta leggendo un giornale di moda in salotto, mi ferma e
chiede:
“Tesoro, dove stai andando?”
“Vado a fare un giro.”
“Da sola?”
“Sì, ho studiato un sacco e ho bisogno di un
po’ d’aria...”
“Ok, ma ricordati che alle sette ceniamo!”
“Come al solito!” Commento sottovoce.
Mia madre si ciba di queste inutili routine. Che donna triste!
Mi incammino per il vialetto davanti casa e seguo il viale inalberato,
facendo
curve a caso. Il pomeriggio di questo ‘grandioso’
Columbus Day le vie di questo
minuscolo paesello dell’Ohio sono praticamente deserte.
È autunno e le giornate soleggiate di questa stagione sono
le mie preferite. Le
foglie dei platani sono verde chiaro, marroni e arancio scuro e
riflettono la
luce del sole in modo meraviglioso.
Senza neanche accorgermene, mi ritrovo davanti ad una farmacia.
Titubante,
metto un piede dentro il negozio.
“Salve, Emily! Come stai?” La signora Gordon, la
farmacista, richiama la mia
attenzione.
“Buonasera, signora Gordon! Tutto bene, lei?”
Mento, con finta allegria.
“Tutto bene, cara!” Sorride.
Una cosa che odio di qui è che tutti conoscono tutti e tutti
sanno tutto di
tutti. Quindi se comprassi un test di gravidanza, mia madre lo saprebbe
all’istante. Esco dalla farmacia, piuttosto scoraggiata. E
poi, cosa piuttosto
insolita, mi imbatto in una coppia di turisti. Ho un’idea
brillante. Apro il
portafoglio: quarantuno dollari... Posso comprarne tre. Mi avvicino ai
due e
chiedo con un filo di voce se possono comprarmi tre test di gravidanza.
Un po’
interdetti, prendono le banconote ed entrano nel negozio.
Escono dopo dieci minuti scarsi con un sacchetto di carta marrone. Li
ringrazio
e infilo il sacchetto nella borsa frettolosamente.
Tiro fuori l’iPhone e vedo che sono stata bombardata di
messaggi da tutti. Sono
le sei e mezza quindi decido di incamminarmi verso casa con passo lemme.
Il pensiero che mi ronza in testa fa capolino in ogni momento. Spero
che
adesso, quando entrerò in bagno con il test in mano,
troverò quella
rassicurante striscia di sangue mi dica che mi sono sbagliata, che ho
buttato i
soldi della mia ultima paghetta, che potrò continuare a
essere la sedicenne
senza pensieri che amo essere. Ma so che non sarà
così. So che apparirà quel
maledetto simboletto ‘+’.
Una lacrima sfugge al mio controllo e scende silenziosa sulla mia
guancia. La
asciugo con un rapido gesto della mano. Non voglio pensare, non voglio
pensarci.
Arrivo a casa abbastanza prima della cena per poter fare almeno un
test. Dopo
dieci minuti, sono seduta sul bordo della vasca ad aspettare il
responso. Così,
come previsto, si presenta il simbolo ‘+’ Prima che
possa riprendermi dallo
shock o che possa assimilare la notizia, la voce di mia madre mi
raggiunge dal
piano di sotto: “A tavola!”
Stringo i denti, serro i pugni e ricaccio dentro le lacrime.
Quando raggiungo la cucina, mio padre e mio fratello sono
già seduti a tavola.
Mi sento terribilmente colpevole, non mi merito tutto
l’affetto che mi
dimostrano. In un lato del tavolo è seduto mio padre, Oliver
Wood, un uomo
tranquillo di cinquant’anni con un ultimo accenno dei folti
capelli neri che
aveva una volta e due occhi azzurri che avrei tanto voluto avere io.
Dal lato
opposto del tavolo è seduto mio fratello Jack che ha
(letteralmente) rubato
tutti i capelli di mio padre e ora sta attaccando voracemente una
pagnotta.
Siamo molto legati. Ogni volta che lo guardo mi sorprendo di quanto i
suoi
occhi verdi, uguali ai miei, siano briosi come quelli di un bambino,
nonostante
abbia ventuno anni. Infine giungo in vista di mia madre. Kate Wood
è una donna
distinta di quarantasette anni con le unghie (più simili ad
artigli) sempre
laccate e i capelli biondi tinti sempre cotonati.
Mi siedo al tavolo senza alcuna espressione sulla faccia. Di solito a
cena non
presto mai attenzione ai futili discorsi sul giardino super curato
della
signora Black o sul taglio fuori moda della signora Gomez o sugli esami
di
Jack... No, aspetta... questo mi interessa!
“Domani ho l’esame di diritto
internazionale.”
“Quindi non resti stanotte?” Chiedo, terrorizzata.
“No, Emily! Non faccio in tempo ad arrivare a scuola
l’esame è alle 8!”
“Allora a che ora parti?”
“Subito dopo cena.”
Fantastico! Il mio fratellone va via stasera proprio quando ho bisogno
di lui!
Odio il fatto che frequenti il college e non sia sempre a casa ad
aiutarmi e a
consolarmi. Ritorno nel mio stato di impassibilità totale.
Quando finisco la
mia porzione di carote mantecate, sgattaiolo di nuovo al bagno del
piano di
sopra.
Faccio anche il secondo e il terzo test, che conferma il risultato del
primo.
“Merda!” Impreco sottovoce.
Passo entrambe le mani tra i capelli e mi lascio scivolare contro la
porta. Non
posso piangere, mi sentirebbero. Però, cazzo! Io non mi
metto nei guai! Io non
sono così irresponsabile! Io sono una persona razionale che
ci pensa una
ventina di volte prima di fare qualsiasi cosa!
Per un indeterminato lasso di tempo, resto seduta sullo gelido
pavimento del
bagno. Quando finalmente le mie gambe decidono di rispondere agli
impulsi del
cervello mi trascino in camera mia. Nascondo i test nella mia scatola
dei ricordi
sotto il letto e mi ci siedo sopra senza avere la minima idea di cosa
fare.
Per distrarmi prendo l’iPhone dalla borsa: cinque chiamate
perse e sette
messaggi!
Il più ‘vecchio’ è quello
della mia amica Liz:
“Domani allenamento all’alba? L.”
Io e Liz siamo entrambe nella squadra di nuoto del liceo. Liz, nota nei
registri scolastici come Elizabeth Nash (nome che odia), è
un anno più grande
di me. La conosco dal primo anno di liceo, da quando Sarah Morgan aveva
cercato
di affogarmi nella piscina e lei mi aveva prontamente salvato. Non me
la sento
di allenarmi domani mattina, quindi le rispondo:
“Niente da fare. Ci vediamo a scuola! E.”
Il secondo è di Josh, mio ragazzo:
“Amore, come stai? Ti vengo a prendere domani con la
macchina? Ti Amo, J.”
Io e Josh
stiamo insieme da poco meno di un anno. Lui è il fratello
maggiore della mia
migliore amica e ci conosciamo sin da quando avevamo circa cinque anni.
E ora
sono incinta del suo bambino. Una parte di me muore dalla
voglia di
vederlo, un’altra parte di me non ha il coraggio neanche di
guardarlo negli
occhi.
Decido di aspettare per rispondere.
Il messaggio dopo è della mia migliore amica a.k.a. la
sorella di Josh a.k.a.
Jennifer:
“Sponge, come stai? Andiamo al centro commerciale?
Ti voglio bene :), J.”
Ehm, forse è un po’ tardi per rispondere con una
risposta entusiasta e,
soprattutto, affermativa...
Cheppalle! Ogni volta che sto a casa non tengo per niente da conto il
cellulare! Lo sanno tutti! Che gli è preso oggi!?!?
Altri due sono delle altre due me migliori amiche: Leah e Chelsea.
Leah è poco più alta di me con una cascata di
ricci castani e un po’ di
lentiggini chiare.
Chelsea è di una bellezza ingiusta: la nonna era norvegese,
quindi, è
altissima, occhi blu profondissimi e una chioma biondissima e
liscissima. È un
sacco di ‘issima’ che mi fanno sentire meno di zero.
Ogni tanto mi chiedo come fanno a essere mie amiche.
Gli ultimi due messaggi (e le cinque chiamate) vengono da Josh che si
è fatto
prendere da panico perché non gli ho risposto ai primi due
messaggi ed è
fermamente convinto che lo voglia lasciare.
Seriamente, è lui il diciottenne maturo?
“Tranquillo, non ho intenzione di lasciarti!
Però domani ci vediamo
direttamente a scuola... Allenamento all’alba con Liz! Ti
amo, E.”
Bugia, ma vediamo se il mio ragazzo si calma...!
Poggio il telefono sul comodino e vado in cucina a prendere un
bicchiere
d’acqua. Arrivata agli ultimi gradini vedo che Jack
è sulla porta e sta
salutando mamma e papà. Mi ero scordata che stava per
andarsene!
“Finalmente! Pensavo di dover partire senza
salutarti!” Dice con un sorriso
enorme e un po’ di malinconia negli occhi. Non gli piace
andare all’università
di Columbus.
Gli corro incontro e mi tuffo tra le sue braccia. Mi
mancherà da morire.
Proprio quando ho bisogno di lui!
“Buona fortuna e torna presto.” Gli sussurro
sull’orlo delle lacrime.
Mi stringe ancora più forte e, sciolto
l’abbraccio, esce dalla porta. Resto in
cucina finché il rumore della macchina sparisce
completamente. Schiocco le
labbra più volte, indecisa su cosa fare.
È una serata così piatta che decido di fare una
doccia che prosciughi tutte le
scorte di acqua calda del vicinato.
Domani sarà una giornatina niente male.
E sicuramente non riuscirò a dormire.
Oh mio...!
Ecco il primo
capitolo =S
Non so
perché, ma mi è uscito più corto degli
altri xD!
Fatemi sapere cosa ne
pensate!
Geneviève ♥