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Autore: Falug    01/12/2010    0 recensioni
Che possibilità ci sono di amarsi per due persone di diverso status sociale e cultura?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 1, Incontro
 
Quel giorno, l’atmosfera uggiosa dell’autunno milanese gli aveva dato il colpo di grazia.
Decise di scendere al bar di fronte a farsi un buon aperitivo, prima della riunione serale con un possibile nuovo cliente del settore del vino.
Salutò la segretaria, che stava per andarsene a casa, passò davanti all’ufficio del suo capo:
“Vado un attimo al bar”, disse.
“Ok.”rispose il direttore.” Mi raccomando, puntuale alle sei e mezza”.
Scese rapidamente i gradini e usci sulla strada dal grande portone del palazzo ottocentesco. S’immerse in quella pioggia sottile, dal mormorio sonnolento, che a lungo andare lo innervosiva. Preferiva di gran lunga le piogge battenti, magari con lampi e tuoni, da affrontare con apparente audacia, a viso aperto, cercando di sfondarne la cortina liquida con una rapida corsa.
Attraversò la strada ed entrò nel grande bar di fronte, in cui spiccava il grande bancone ricolmo di pasticcini, brioches e panini e una lunga fila di tavolini a due posti, dal ripiano in finto marmo, lungo le pareti.
“Buona sera, dottore”, gli gridò il padrone da dietro il bancone.
“Buona sera, Emilio”, rispose Francesco, ”posso sedermi ad un tavolino?”.
“Certo, si accomodi dove preferisce”.
Francesco vide un tavolino in fondo alla sala, in penombra, proprio ciò che cercava per rilassarsi da quella giornata frenetica, e andò a sedersi.
Il cameriere si avvicinò e Francesco gli disse subito:
“Oggi voglio un buon aperitivo. Facciamo un negroni, con olive e patatine”.
“Subito, dottore”.
A quel punto, Francesco si appoggiò pesantemente allo schienale della sedia, chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi, cercando di espellere dalle mani e dai piedi la stanchezza che sentiva in tutto il corpo.
Non si accorse del tempo che passava, né del cameriere che gli aveva portato l’ordinazione: rimase lì, ad occhi chiusi, pensando che non doveva pensare.
Fu richiamato alla realtà da una voce lontana, che arrivava da un mondo invisibile: aprì di colpo gli occhi, quasi spaventato e si trovò degli occhi azzurri che lo guardavano con sollecitudine, ad un palmo dal suo viso.
“Signore, non sta bene?”.
Francesco fece come fanno i cani quando sono bagnati, scrollò la testa come per liberarla da una corona di spine, sbattendo un po’ gli occhi e poi guardò la proprietaria degli occhi azzurri e della voce accorata.
“Ma no…che dice signorina…signora… mi scusi. Solo un po’ di stanchezza, non si preoccupi”.
“Mi scusi Lei, se l’ho disturbata, m’ero spaventata, sembrava come svenuto”, disse la signora, ritraendosi.
A quel punto Francesco si ricordò che aveva avuto un’educazione dai suoi genitori e si alzò:
“La prego, signora, posso offrirle qualcosa? Per riprendersi dallo spavento?”.
“No, grazie, grazie, davvero. Devo andare, fra poco arriva l’autobus. Stia comodo. Buona sera”.
“Buona sera, signora, e mi scusi ancora”, disse Francesco, mentre la signora già si allontanava.
Così si risedette e cominciò a sorbire lentamente l’ottimo ma sostanzioso aperitivo che aveva ordinato, non pensando già più alla signora dagli occhi azzurri, ma ai clienti che stavano per arrivare per discutere della pubblicità sul loro vino di punta.
Non sapeva, non poteva certo immaginare che l’avrebbe rivista ben presto.
Successe appena tre giorni dopo. Era venuto in ufficio molto prima del solito, perché doveva prepararsi per una presentazione di una campagna pubblicitaria a vecchi e fedeli clienti, ed era sceso al bar verso le otto del mattino per fare colazione. Aveva ordinato al banco un cappuccino e una brioche e s’era avviato verso il tavolino che preferiva, in fondo alla sala. Ed ecco che il tavolino vicino era occupato dagli occhi azzurri della signora, che lo riconobbero e lo salutarono con un lieve sorriso e chinando il capo.
“Buon giorno, signora”, disse Francesco, sorridendo a sua volta.”Allora anche Lei lavora nei paraggi?”.
“Sì, due portoni più in là, verso l’incrocio”.
“Posso sedermi qui con Lei?”.
“Certo, prego, aspetti che tolgo la borsa”.
Francesco, intimamente un po’ sorpreso di sé stesso, perché in genere era abbastanza riservato con gli estranei, si accomodò sulla sedia liberata dal suo fardello, facendo contemporaneamente segno verso il bancone per avvertire che aveva, per così dire, cambiato indirizzo.
“E cosa fa di bello?”, chiese Francesco.
“Faccio la domestica a ore presso una famiglia”.
“Ah, e arriva da lontano?”.
“Sì, purtroppo, ci metto un’ora, quando va bene”.
Doveva avere circa la sua età, 35/40 anni, pensava Francesco, non bella, ma graziosa, ti guardava negli occhi mentre parlava, con voce tranquilla e musicale.
“E Lei cosa fa?”, chiese a sua volta la signora.
“Sono un dirigente di un’agenzia pubblicitaria”.
“Quella che sta qui di fronte?”.
“Sì, proprio quella”.
“Deve essere un bel lavoro”.
“A me piace, ma come tutti i lavori, ha i suoi alti e bassi; talvolta certi clienti sono esasperanti, hanno convinzioni o pregiudizi che è arduo superare. E ci tocca fare un tipo di comunicazione di cui non siamo per nulla convinti. Ma, che vuole, il cliente paga e, salvo rari casi, conviene dargli ragione. Di dov’è Lei?”.
“Sono veneta”.
“Ostreghetta!” disse sorridendo Francesco.”Ma veneta di dove?”.
“Portogruaro, la conosce?”.
“No, dov’è?”.
“In provincia di Venezia, fra Venezia e Trieste”.
“Ho capito”. Poi Francesco aggiunse: ”Si rende conto che è un po’che parliamo ma ancora non sappiamo l’uno il nome dell’altro?”.
“E’ vero, ha ragione. Io mi chiamo Sara”.
“Io Francesco”.
A quel punto, chissà perché, scese un attimo di silenzio.
Francesco pensò che l’aver dato un’identità ai loro visi, aveva da una parte tolto un po’ di mistero a quel semplice incontro, dall’altra creata una piccola barriera ad una conversazione libera e fluida.
“A che ora deve prendere servizio?”, chiese Francesco, per interrompere il silenzio.
“Ora, alle 8 e mezza, sino alle 5 e mezza”.
Francesco, che aveva bevuto il cappuccino e mangiato la sua brioche, s’alzò e disse:
”Anch’io devo andare. Spero di vederLa ancora, Sara”
“E’ facile, mi fermo spesso qui al bar. Arrivederci, allora”, disse sorridendo Sara.
“Arrivederci”disse Francesco, e s’avviò verso l’uscita.
 
2. Sara
 
Mentre usciva dal bar, Sara pensava a quel signore gentile con cui aveva scambiato quattro chiacchiere.
Non le era capitato spesso di parlare del più e del meno con una persona così evidentemente più acculturata, più benestante, insomma di una classe sociale ben diversa dalla sua. Tuttavia questa differenza, mentre parlava con Francesco, non l’aveva per nulla avvertita; probabilmente merito della di lui gentilezza e affabilità.
Così pensando, era salita, a piedi, perché non amava gli ascensori, al secondo piano del palazzo poco distante dal bar ed aveva suonato alla porta blindata dell’appartamento dove lavorava.
“Buon giorno”, le disse, aprendo, la signora Marangoni.
“Buon giorno, signora”, rispose Sara, entrando.”Come sta suo marito?”
“Un po’ meglio, grazie, Sara”, rispose la signora, richiudendo la porta.”Anche oggi, però, pasto leggero, riso in bianco e scaloppina, anche per me”.
Dopo essersi cambiata nella cameretta-stireria, comincio la routine quotidiana, fatta di pulizie, far da mangiare e stirare.
Il dottor Marangoni, convalescente da una forte influenza, apparve in tarda mattinata, avvolto nella sua bella vestaglia amaranto, la salutò con la solita cortesia e si mise a leggere il giornale.
La giornata passò rapidamente e, alle 5 e mezza, corse a prendere l’autobus, che l’avrebbe portata alla fermata della metropolitana, che l’avrebbe poi portata alla stazione nella periferia milanese, da dove, con una camminata di circa 15 minuti, sarebbe arrivata al piccolo appartamento in affitto, che occupava ormai da due anni; da quando cioè era venuta a Milano dopo essersi lasciata con Sante, il portogruarese con cui aveva convissuto per oltre quattro anni.
Non era stata fortunata con gli uomini. Il primo l’aveva sposato a vent’anni, com’era abitudine nelle campagne del Veneto orientale, salvo che di solito le giovinette si sposavano così presto perché si ritrovavano incinte, mentre a lei ciò non era capitato. Più che un matrimonio d’amore, era stato un matrimonio per rompere il cerchio dell’abitudine, magari con la speranza di una vita migliore. Ma non era stato così, aveva solo cambiato padrone e, dopo dieci anni, se ne era andata via, lasciando di sasso sia il marito che i suoceri, che avevano contato di aver acquistato, col matrimonio del figlio, una serva per la loro vecchiaia.
A Portogruaro si guadagnava da vivere, facendo l’operaia agricola, un lavoro che faceva da quando aveva dieci anni, aiutando il padre nei campi in mezzadria. Proprio quel lavoro infantile non le aveva permesso di completare la scuola dell’obbligo, in pratica aveva solo la licenza elementare.
Un paio d’anni dopo aver lasciato il marito, s’era messa con Sante, anche lui operaio agricolo nella stessa azienda dove lavorava Sara. Anche se Sante era più gentile del marito, alla fine s’era accorta che in realtà lui faceva vita a sé, con gli amici al bar a bere e a giocare a briscola, mentre lei, a casa, dopo essere rientrata dal lavoro, faceva i mestieri per tenere la casa pulita e far da mangiare a Sante.
Così s’era decisa a fare il grande salto. Se doveva fare la domestica, tanto valeva essere ben retribuita, e a Milano c’era richiesta di personale del Veneto e del Friuli. Con l’aiuto di una lontana cugina, che lavorava a Milano ormai da dieci anni, aveva trovato il lavoro presso la famiglia Marangoni, e la cugina l’aveva ospitata per il tempo necessario a trovarsi un alloggio adatto.
Sempre grazie alla cugina, era entrata in un gruppo di veneti, sbarcati a Milano da parecchio tempo, con cui passava qualche serata e qualche domenica. Ma uomini, niente. Non ne sentiva la mancanza, era ormai una casta single, anche se rimpiangeva di non aver avuto figli; il sesso, sì, non era male, ma doveva ancora capire perché la gente ci dava così tanta importanza, se ne poteva benissimo fare a meno, almeno per un po’.
Circa ogni due mesi, prendeva il treno e tornava a Portogruaro a trovare la sorella ed il fratello, i numerosi zii e zie e cugini e cugine. Un esercito di parenti di vario grado, che volevano sapere tutto di Milano e dei suoi vizi tentacolari. Ma Sara non aveva molto da raccontare, era una persona tranquilla. In realtà erano i portogruaresi a raccontarle le storie più tremende, gli odi e gli amori nati e morti in seno alle grandi famiglie, che un tempo avevano abitato insieme nelle grandi corti delle case coloniche, al servizio dei ricchi proprietari terrieri. Ora ogni famiglia si era costruita, con l’aiuto prezioso di parenti e amici, un aiuto che veniva regolarmente ricambiato, una grande casa per sé e, vicino, le case per i figli. Fra lavoro ufficiale, lavori in nero e pensioni varie, le famiglie se la cavavano egregiamente, nel nord-est che rapidamente s’arricchiva. Era gente laboriosa. Come anche Sara.
Era questa, in breve, la storia che Sara si portava sulle spalle, quella sera, mentre cercava nella borsa la chiave per aprire la porta del suo modesto, ma ben tenuto alloggio nella periferia milanese.
 
 3. Francesco
 
Aveva detto il vero, Francesco, alla simpatica signora Sara: a lui piaceva il suo lavoro. Il marketing in genere, la comunicazione in particolare, erano strumenti di gestione del mercato arrivati in Italia da pochi decenni, portati da aziende multinazionali o da agenzie pubblicitarie straniere. Lui aveva avuto la fortuna di entrare, appena laureatosi alla famosa Bocconi, in una azienda estera leader nell’uso del marketing dei beni di largo consumo; quel imprinting iniziale lo aveva aiutato a fare carriera, prima in un paio di aziende italiane, poi, per sua scelta, nella agenzia pubblicitaria in cui ancora lavorava come account director, come dire, in italiano, quel dirigente che, con l’ausilio di una serie di collaboratori, doveva permettere alla agenzia di capire al meglio le esigenze di comunicazione dei singoli clienti e farle risolvere nel modo più efficace e rapido possibile, tenendo i contatti con i creativi, con la sezione ricerche di mercato, con i pianificatori dei mezzi pubblicitari e così via. Un lavoro assai delicato, in cui servivano intuizione, sensibilità, capacità di mediazione, competenze specifiche in vari settori del marketing e, prima di tutto, entusiasmo condiviso col cliente per l’obiettivo da raggiungere, cioè il cuore e la mente del potenziale consumatore. Era in fondo un gran gioco di “guardie e ladri”, in cui azienda e agenzia cercavano di trovare la chiave per aprire il portafoglio dei consumatori, e questi di trovare quel prodotto che avrebbe soddisfatto al meglio e col minor spreco di danaro quel bisogno intimo, di cui talvolta nemmeno sospettavano l’esistenza, ma che ricerche sempre più sofisticate avevano fatto emergere agli occhi dei produttori. L’unica cosa che piaceva poco a Francesco era l’uso preponderante, ma purtroppo imprescindibile, di termini specialistici in lingua inglese: target, test, budget, copy, story-board e mille altri. Lo facevano sentire come l’adepto di una setta segreta, dal linguaggio criptato e incomprensibile ai più
Ma, infine, era ben contento del suo lavoro, guadagnava bene, era stimato e poteva aspettarsi interessanti sviluppi di carriera.
Non poteva dire lo stesso per il resto della sua vita privata.
Era sempre stato un ragazzo timido, al liceo e all’università aveva guardato con invidia i suoi compagni collezionare conquiste femminili, mentre lui si era innamorato di una ragazza che, dopo poco più di un anno, l’aveva lasciato solo con il suo amore ancora vivo ma ormai solitario. Lui aveva sempre idealizzato la donna, povera preda delle fameliche voglie dei maschi; non concepiva il fare sesso, per lui esisteva solo il fare l’amore, ma per farlo, bisognava, appunto, essere innamorati e ricambiati Così, dopo quel primo grande, indimenticabile amore, ci mise un bel po’ a trovare un nuovo amore ricambiato: una bella e brava ragazza della media borghesia meneghina, che aveva sull’amore le stesse idee antiquate che aveva lui. Aveva smesso gli studi dopo il liceo ed in pratica aspettava solo d’essere la buona moglie dell’unico uomo della sua vita e la brava madre dei suoi figli.
In realtà, a parte la comunanza di alcuni valori essenziali, Ilaria e Francesco non avevano molto da dirsi, lei non praticava alcuno sport, leggeva riviste femminili, non faceva pazzie per viaggiare e aveva una cerchia di amicizie piuttosto snob e noiose. A metterla in politichese, lei era una rappresentante della destra più conservatrice, mentre Francesco guardava a sinistra, contro i suoi propri interessi e i propri genitori.
Tuttavia si sposarono, si amarono, ebbero una figlia, Patrizia, detta Patty.
Non sapremo mai se un giorno lui l’avrebbe tradita, perché il destino non lo permise. Colpì con imprevista durezza quel fin lì tranquillo focolare domestico, facendo slittare la Mini Cooper di Ilaria, mentre scendeva dalla montagna nella Bergamasca, dove passava l’estate con Patty e dove Francesco la raggiungeva per il weekend. Dopo aver sbattuto di qua e di là della strada, l’auto senza controllo s’era incuneata violentemente nel vano motore  di un camion che risaliva in quel preciso momento la stessa montagna. Ilaria era spirata sul colpo, Patty il giorno dopo, all’ospedale.
Francesco rimase come inebetito per settimane. Tutto l’ordine della sua vita era stato sconvolto, il suo totale abbandonarsi ai sentimenti d’amore verso Ilaria e Patty
 – oh, dolce, piccola Patty che, come arrivava a casa, gli correva incontro gridando: papi, papi –  si era trasformato in lama rovente, a squarciargli senza sosta lo stomaco, a mozzargli il respiro, a ronzargli continuamente in testa, ad oscuragli la vista, a disseccargli la voce. Parenti ed amici s’erano affannati intorno a lui, dapprima per consolarlo, poi per stimolarlo a guardare di nuovo alla vita che continuava. Ma ad aiutarlo davvero fu principalmente il lavoro. In agenzia, dove tornò una settimana dopo l’incidente, lo accolsero con un grande abbraccio collettivo, ma subito dopo cominciarono a trattarlo come se nulla fosse accaduto, a chiamarlo di qua e di là nelle varie riunioni; anche se dapprima era presente col corpo ma assente con il cervello, dopo pochi giorni si ritrovò a dare ogni tanto il suo parere, ad accettare il contraddittorio e da lì prese avvio la convalescenza. Anche sua sorella Paola fu efficace nel riportarlo in carreggiata: nella prima settimana lo ospitò a casa sua, poi lo fece tornare nel suo appartamento ma per un paio di settimane prese lei il controllo della casa, dando ordini alla domestica, pagando i conti, facendo la spesa. Poi lo lasciò solo, pur vegliando da lontano, con frequenti telefonate alla fidata domestica.
Francesco si riprese, anche se era palese che qualcosa nel suo sguardo era mutato, v’era un certo che di malinconico, d’incupito, anche il sorriso era meno marcato, la postura meno elastica.
Aveva 35 anni ed era di nuovo solo. Peggio che solo, perché aveva ormai anche timore ad abbandonarsi di nuovo al sentimento, perché aveva imparato quale dolore esso può arrecare quando, per qualche motivo,  viene tradito, cancellato, distrutto. Piangeva Ilaria, ma soprattutto non si dava pace per Patty, così ridente, fresca, innocente, un fiore che si stava aprendo con lo scintillio della rugiada sui petali delicati.
Ora, mentre in tarda serata apriva la porta del suo appartamento, dopo la riuscita presentazione delle proposte di campagna stampa ai nuovi clienti, Francesco aveva già compiuto 40 anni, da cinque era solo con sé stesso, non aveva più abbracciato una donna, tanto che ogni tanto si chiedeva se sarebbe ancora stato capace di fare l’amore. Di donne, non fosse che per lavoro, ne incontrava tante, quasi sempre belle, eleganti,  intelligenti, ma anche aggressive, ben consce del proprio valore, poco disponibili all’amore, ma molto al sesso, proprio il contrario delle sue convinzioni. Donne piacevoli con cui passare una giornata con gli amici comuni o una serata al teatro o al concerto, ma che presto diventavano impegnative, competitive, indurivano i tratti del loro viso e restringevano le palpebre dei loro begli occhi. A quel punto lui si stancava e se ne tornava a casa, ai suoi libri e alla sua musica classica, che sempre gli davano serenità e pace.
Anche quella sera trovò in frigorifero il piatto di salumi misti che aveva chiesto alla domestica di preparare e che gustò, accompagnandolo con un bicchiere di ottimo vino rosso leggero. Poi si sedette sulla sua poltrona, dopo aver messo un disco di Mozart, l’amata sinfonia Jupiter, aprì il libro che stava leggendo, “Incontri con uomini straordinari” di tale Gurdjieff, che gli era stato consigliato da un collega d’ufficio e che gli piaceva davvero molto. Così, in pochi minuti, si ritrovò ben lontano dalle pareti domestiche, a vagare nelle lande terrificanti del deserto del Gobi.
 
4. Serata d’autunno
 
Il semaforo, uno degli innumerevoli che costellavano la strada fra la sua casa e l’ufficio, era eterno, non si schiodava dal rosso fisso. Francesco si guardava in giro, prigioniero, circondato da una muraglia di strutture di ferraglia rombanti, in attesa di scattare, come fossero purosangue alla partenza del Derby. Era il secolo dell’automobile, si diceva, ma, almeno nelle grandi città, l’automobile aveva ormai perso ogni dignità di mezzo moderno di locomozione per divenire, appunto, semplice ferraglia, priva di personalità e appeal. Magari quelle stesse automobili, che in città si spostavano a scatti come se avessero il parkinson, sulle strade di montagna assumevano ancora la parvenza di possenti destrieri che valicavano montagne e gole profonde con incedere fluido ed elegante; oppure, quando percorrevano ampi e lunghi ponti poco trafficati, sembravano leggere come gabbiani, così in alto sulle acque domate.
Purtroppo, però, Francesco viveva in una metropoli e, sia che prendesse la sua auto, sia che optasse per l’autobus, il tram o la metropolitana, sempre inscatolato in una cella di ferro si sentiva. Ed era anche ben conscio che respirava, sempre e comunque, aria malsana, neanche vivesse, oggi, in una delle antiche paludi bonificate dal trentennale regime di pessima memoria.
In quel plumbeo autunno, tutte queste sensazioni si dilatavano intorno a lui, rendendo la giornata lunga, interminabile, estenuante.
Eppure Francesco aveva amato l’autunno, quando da giovane trascorreva i mesi prima di natale a studiare, talvolta con un compagno d’università, nella casa di montagna che i genitori affittavano di anno in anno per tutto il periodo ottobre- marzo. L’autunno si esprimeva lì con mille colori, densi come le pennellate di van Gogh, e dava alla natura un senso di maturità piena: non più delicata e fresca come in primavera, ma forte, vibrante e vitale, come fosse un uomo di 40 anni; come avrebbe dovuto essere oggi lui. Solo che la natura ritrovava sempre quello che invece a lui  mancava da tempo, il complemento adeguato a sé stesso. Purtroppo in città, ormai, l’autunno era una non-stagione, così come le altre, imprigionate tutte in un contesto del tutto antitetico all’armonia del cosmo.
Così rimuginando, Francesco, alle 8 di mattina, saltellava di semaforo in semaforo verso i luminosi, moderni ed asettici uffici dell’Agenzia.
Alla stessa ora, Sara scendeva dall’autobus, a cento metri dall’appartamento dei Marangoni. Vi mancava da una settimana, da quando la signora Marangoni le aveva detto che, per favorire la convalescenza del marito, sarebbero andati per una settimana a Salsomaggiore, uno dei loro luoghi preferiti per passare periodi di ristoro. Sara ne aveva approfittato per tornare in Veneto a rivedere la famiglia, che intanto si era  arricchita di un bel bambino roseo e paffuto, figlio della sorella.
Quando tornava a Portogruaro, Sara veniva assalita da pensieri contradditori. Certo non vi era la frenesia della città, certo era facile spostarsi da un luogo all’altro, certo il prossimo era davvero prossimo, perché inevitabilmente ci si ritrovava tutti nella piazza principale durante il mercato settimanale od il sabato in mattinata. Ma era anche vero che gli spazi erano ristretti a pochi vie e qualche piazzale, che non c’era modo di sfuggire al controllo della comunità tutta, e che ,in generale, le sorprese, di qualsiasi tipo, erano rare. Milano era come una foresta, semibuia, densa di rumori e pericoli ma anche eccitante e piena d’imprevisti, talvolta positivi; Portogruaro era come una silenziosa radura circondata da bassi cespugli, di cui ben presto si conosceva ogni ciuffo d’erba ed ogni pietra ed il cui orizzonte non celava sorprese nemmeno in lontananza.
A Milano, Sara non era particolarmente felice, ma pensava che a Portogruaro non lo sarebbe stata di più.
Entrò nel bar per farsi un cappuccino con la brioche, che al mattino era sempre fresca e croccante e rimase in piedi, davanti al bancone, guardando il viavai di gente, tante facce già viste di persone sconosciute.
Poi, all’improvviso, la faccia di una persona conosciuta, anche se non se ne ricordava più il nome, qualcosa con la effe, forse Federico.
“Buon giorno, Sara”, lui il nome lo ricordava.
“Buon giorno, signore”, rispose lei, imbarazzata.
“Suvvia, non si ricorda? Mi chiamo Francesco, Francesco Giussani, ai suoi ordini!”.
“Mi scusi, sa, avevo in mente Federico, ma non ne ero sicura”.
“Beh, anche Federico è un nome d’origine germanica, come Francesco. Uno significa “ricco di pace”, l’altro “libero”. Lei quale sceglierebbe?”.
“Non so, “ricco di pace” suona bene, ma mi dà l’impressione che anche i cadaveri possano essere considerati tali, mentre “libero” lascia spazio ad ogni avventura; sceglierei “libero”.
“Brava, è proprio il mio nome”.
Intanto Francesco aveva fatto segno ad Emilio che voleva lo stesso di Sara; lei a sua volta gli domandò:
“Visto che sa tutto sui nomi, il mio, Sara, cosa significa?”
“Facile, è un nome d’origine ebraica, forse si ricorda di Sara, moglie di Abramo. E significa “principessa”. Lei è nobile, non lo sapeva?”
“No, non lo sapevo; ed in più, pur essendo nobile, devo scappare a prendere servizio, che sono già in ritardo. Arrivederci”.
“Senta, a proposito di arrivederci… Le posso offrire un tè, qui, stasera, alle 5 e mezza?”.
Sara rimase di stucco a udire questa proposta. Di colpo sentì mille pensieri ed interrogativi affastellarsi nella mente, ma non c’era tempo di vagliarli.
“Ma.., sì.., certo.., va bene, alle 5 e mezzo”.
“Grazie, e allora davvero arrivederci”.
“Sì, arrivederci”.
Se Sara era rimasta di stucco, Francesco, mentre pagava la consumazione, era allibito. Ma quando mai aveva voluto, pensato, desiderato invitare per un tè quella graziosa, ma per il resto del tutto estranea, signora. Un tè!!! Neanche fossero al Ritz di Londra! E poi qui, al bar, con tutti i colleghi che andavano e venivano per farsi un drink o flirtare con la segretaria. La sua bocca aveva pronunciato parole che certamente non erano sue, erano di qualcun altro, che in qualche modo aveva preso il controllo delle corde vocali; forse il famoso Super-Io freudiano, o l’inconscio personale teorizzato da Jung.
Stava di fatto che ormai bisognava ballare e pazienza, un tè non aveva mai fatto male a nessuno.
Sara non pensava a niente. Era ben conscia che era tutto un errore e sapeva che tutto si sarebbe risolto da sé. E poi un tè non aveva mai fatto male a nessuno.
Arrivato in ufficio e più tranquillo, Francesco cercava di analizzare freddamente l’accaduto, Doveva essere successo qualcosa che aveva tirato fuori dal suo essere quelle parole d’invito; ma che cosa? Ripassò, per quanto ricordava, il breve dialogo, e pensò di aver capito: quella battuta sulla pace dei cadaveri dimostrava che la signora Sara era spiritosa e quindi intelligente; in più, quei brevi colloqui con lei erano sempre stati piacevoli, piani, senza grida, senza aggressività, come amava lui. Il fatto che facesse la domestica a ore non significava nulla, poteva anche essere una laureata in fisica nucleare che non trovava lavoro. Lo avrebbe scoperto presto.
Alle 5 e mezzo quasi si scontrarono all’entrata del bar.
“Lei è proprio puntualissima”, disse Francesco, ” non sa che le signore dovrebbero farsi desiderare un po’?”.
“Può darsi, ma il mio carattere è questo, sono puntuale e detesto i ritardatari”.
“Allora mi è andata bene”. Poi Francesco aggiunse:
“Senta, Sara, per quella proposta per il tè, pensavo..”
Lei lo interruppe subito:
“Non si preoccupi, pareva anche a me un’idea balzana, però La ringrazio lo stesso”.
“Ma no, cosa ha capito”. Francesco si scostò per far passare una persona che voleva entrare in bar. “Volevo dire.., se non ha altri impegni stasera, magari accetterebbe, invece che il tè, una cena in riva al lago di Como. E’ una bella serata, è presto e conosco una simpatica trattoria dove si mangia bene”.
“Ma Lei ha indosso gli stivali delle sette leghe? Al mattino mi offre il tè, al pomeriggio la cena, e stasera?!”
“Ho una collezione di rarissime stampe erotiche orientali, forse…Sto scherzando, eh!”.
Francesco alzò le braccia, come per arrendersi.
“Anzi, chiarisco subito, stasera non farò alcuna avance”
”Non so bene cosa siano queste avans, ma mi fido, vada per la cena, basta non fare troppo tardi, perché domani alle sei e mezza devo alzarmi”.
Così partirono, a bordo della bella berlina Volvo dai sedili in pelle chiara. Sara in fondo era più tranquilla, ora, che Francesco aveva promesso, almeno per quella serata, di non creare implicazioni notturne. Nei film americani vedeva che alla fine della serata, lui accompagnava lei a casa e c’era sempre quel momento d’imbarazzo, o finto imbarazzo, in cui lui pensava di baciare lei, lei non sapeva come fare a dire no senza offendere lui, oppure viceversa.
Anche lui era più tranquillo, almeno per quella serata non avrebbe dovuto fare la parte del Don Giovanni, che proprio non era nelle sue corde.
Mentre correvano verso Como, parlando del tempo, o degli ultimi fatti di cronaca nera, Francesco aveva anche modo di valutare l’aspetto di Sara, a cui fino a quel  momento non aveva fatto molto caso.
Gli occhi azzurri li aveva già visti da vicino, freschi e luminosi, gli erano subito piaciuti per la sensazione di franchezza che emanavano. Il loro colore contrastava piacevolmente col biondo miele dei capelli corti.
Più sotto, un naso, come dire, importante, un poco alla Dante Alighieri, che sovrastava una bocca con labbra grandi, piene, ben disegnate, che custodivano una fila di bianchi denti regolari.
Non era alta, Sara, circa uno e sessanta, per nulla grassa, ma comunque ben messa, un seno alto, difficile da nascondere, caviglie forti anche se non grosse, alla fine di gambe che scendevano armoniosamente dalla bella rotondità del sedere.
Il tutto vestito da una pelle chiara, rosea, con, sulle braccia , una finissima peluria chiara, visibile solo in controluce. Insomma, un bel corpo che faceva da colonna ad un viso intrigante.
Naturalmente anche Sara, mentre parlava del film che aveva appena visto in tv, gettava occhiate verso il guidatore. Piuttosto alto, almeno uno e ottanta, leggermente stempiato, capelli castani corti, tagliati da poco, gli occhi verdi o grigioverdi, con grandi sopraciglia. Naso regolare, bocca sottile, con il labbro superiore leggermente sporgente, come hanno i bambini imbronciati, ma con rughe d’espressione laterali che facevano pensare che sorridesse spesso.
Magro, con bel portamento. Insomma, in linea di massima, un uomo non particolarmente bello, ma elegante ed interessante. Forse la cosa di lui che più le piaceva era la voce, calda, calma, carezzevole.
La serata fu come lui se l’era immaginata e lei aveva sperato. La bella terrazza coperta sul lago fece da cornice alla conversazione, che portò, a poco a poco, i due a raccontarsi alcuni fatti della loro vita. Così lui seppe che lei era divorziata, lei che lui era vedovo ed ancora addolorato, specie per la perdita della figlia Patty. Lei seppe che lui aveva molto viaggiato, che parlava abbastanza bene quattro lingue, che la sua famiglia era benestante ma non ricca, perché suo padre e suo nonno avevano sempre lavorato come dipendenti d’azienda, sia pure ad alti livelli dirigenziali, che lui amava giocare a golf e a tennis, ma che lo faceva raramente. Lui seppe che lei aveva fatto solo la quinta elementare, che aveva lavorato per anni come operaia – e lei gli mostrò le mani già abbastanza consumate da quel duro lavoro – e che negli ultimi due anni da domestica, in casa Marangoni, aveva visto che esistevano mondi ben diversi dal suo, in cui valevano comportamenti e formalità di cui lei non aveva mai sentito parlare. Con parenti e amici, anche a Milano, parlava di solito il dialetto e che l’italiano l’aveva imparato principalmente tramite la radio e la televisione.
“Ma sa che parla davvero bene l’italiano”, disse Francesco, ”ha un vocabolario persino più ricco del mio, usa talvolta parole più precise, non avrei mai pensato che non avesse fatto almeno il liceo”.
“Se si parla dei casi della vita, del sentimento delle persone, della quotidianità, della natura, allora me la cavo. Ma se mi chiede di Napoleone, non so nemmeno chi sia, se mi parla della Romania, non so nemmeno dove sia”.
“Già, la cultura. Io la vedo così: quando nasciamo, la cultura nella testa di ognuno è uguale a zero, mentre invece fin dall’inizio v’è differenza nel potenziale intellettivo, voglio dire, nel grado d’intelligenza. Diciamo che ognuno di noi ha nel cervello uno spazio che riempie a mano a mano con le conoscenze, le esperienze, gli studi che fa: lo spazio della cultura. E’ chiaro che io e Lei lo abbiamo riempito di cose diverse, io di storia , geografia, arte, matematica, economia, lei di natura, di animali, di tradizioni agricole, di conoscenza delle malattie, di parole giuste per esprimere compassione e partecipazione, e così via. Mica detto che la mia raccolta sia più interessante e utile della sua per vivere nella società e per essere, non dico felici, ma almeno sereni.” S‘interruppe. ”Mi scusi, forse la sto annoiando con questi discorsi?”.
“Ma no, per niente, continui, per favore”.
“Per quanto riguarda l’intelligenza, non credo che Lei abbia da invidiare nessuno, anzi; in più, mi sembra che abbia il merito di non aver inquinato l’intelligenza con la furbizia, che quasi sempre, come la mala erba, prende il sopravvento sulla intelligenza e rende gli individui subdoli e inaffidabili.”
“Sarà come dice Lei. Ma quando mi capita di ascoltare le conversazioni degli ospiti di casa Marangoni, non capisco assolutamente nulla e mi sembra di essere un pesce fuor d’acqua o di star servendo il tè a dei marziani”
“Le sembro un marziano?”
“No”, disse Sara, con tono convinto, ”con Lei sto bene, ma bisogna vedere quanto può durare questo tipo di conversazione”.
“Quanto vogliamo noi”, replicò Francesco.”Lei può aprire una porta sul mio mondo, io una sul suo, e ognuno di noi trovare interessante ciò che troverà. L’importante è farlo senza imposizioni, con calma e vera curiosità. Secondo me c’è solo una cosa che bisogna sforzarsi ad imparare, ed è vedere ed apprezzare la bellezza, in tutti i suoi aspetti, sia quella dell’animo, sia quella delle cose. Credo che per questo ci serva sempre una guida, che può essere la scuola, la famiglia o gli amici”
“Perché è così importante la bellezza?”, chiese Sara, incuriosita.
“Questo è un discorso complicato e troppo serio, Le dispiace se lo rimandiamo alla prossima volta?”.
“Lei pensa che ci sarà una prossima volta?”, chiese Sara, mentre gli dava le indicazioni per arrivare a casa sua attraverso le vie buie di Cinisello Balsamo.
Francesco non rispose. Segui le indicazioni, a destra, a sinistra, poi la seconda a destra; si fermò davanti al portone segnalato da Sara, l’entrata di un tipico palazzotto grigio di periferia.
Spenta l’auto, si voltò verso Sara e disse:
“Per me è stata una piacevole serata, e ho lasciato apposta senza risposta la sua domanda sulla bellezza. Quindi dobbiamo per forza rivederci, non trova?”.
“Sì, certo, se non so cos’è la bellezza, non riesco più a vivere”, disse Sara, ridendo.”Combineremo un giorno al bar”.
“Va bene, però mi dia il suo numero di telefono, in modo che possa far vedere agli amici che anch’io ho cuccato”.
“Mi dispiace, non ho telefono. Mi dia Lei il suo, che ho anch’io delle amiche curiose”.
Dopo un attimo d’incertezza, Francesco le scrisse su un pezzo di carta i numeri telefonici di casa e dell’ufficio, dicendole:
“Mi dice almeno il suo cognome?”.
“Oh Dio, non gliel’ho detto? Zanon, Sara Zanon, molto veneto”.
“Ecco, ora non mi scappa più”
“A meno che io non Le abbia fatto un bidon, dandole quel cognome Zanon!”
“Non credo. Grazie, Sara. Buona notte e arrivederci, presto spero”.
“Grazie a lei, Francesco, E’ stata anche per me una bella e insolita serata. Buona notte”.
Si diedero la mano, poi Sara scese alla vettura e aprì il portone. Francesco attese che lei lo ebbe richiuso dietro di sé, e poi ripartì, sentendosi piacevolmente rilassato.
 
5. Le svolte dei destini
 
Nei giorni successivi, Francesco scese più volte al bar, ma non incontrò mai Sara; solo la vide un paio di volte da lontano che entrava o usciva dal portone dei Marangoni. Non se ne preoccupò, sapeva che prima o dopo si sarebbero incrociati al bar. Inoltre era oberato di lavoro ed aveva altri pensieri per la mente.
Però, nelle settimane successive, non solo non la incrociò al bar, ma nemmeno la scorse nei paraggi, e la cosa gli dispiacque, aveva voglia di passare un’altra serata piacevole con quella donna così diversa dalle sue conoscenze abituali. Cominciava a sperare in una telefonata, ma ci credeva poco.
Non poteva immaginare che Sara era lontana, ritornata al suo paese, dopo essersi licenziata dal lavoro presso i Marangoni e disdetto l’appartamentino di Cinisello Balsamo. La sua vita, infatti, aveva preso improvvisamente una piega imprevista.
Laura, la sorella di Sara, fin da pochi giorni dopo il parto, aveva dato segni di soffrire di depressione post-partum, con pianti frequenti, crisi d’ansia, tristezza inspiegabile. Tutti avevano sperato che, come capita nella maggior parte dei casi, nel giro di un paio di settimane, la crisi fosse superata. Invece non era stato così, Il medico aveva consigliato una cura con antidepressivi e di conseguenza era stato interrotto l’allattamento del bimbo. Parenti ed amici si erano attivati per dare una mano, specie con il neonato Giovanni, ma i tempi si allungavano e tutti erano in qualche modo impegnati con il loro lavoro e la loro famiglia. Sara perciò prese la drastica decisione di tornare a Portogruaro, per stare vicino alla sorella e prendersi cura, insieme a lei, del bambino. E proprio non le passò per la mente di avvertire Francesco, in quel momento l’ultimo dei suoi pensieri. Si trasferì armi e bagagli in casa della sorella, avvertì parenti e amici d’informarla se si fosse presentata l’occasione di un lavoro part-time, meglio se al mattino, ed incominciò una nuova vita, in attesa che la sorella guarisse del tutto. Le avevano detto che poteva volerci anche un anno.
La nuova vita era abbastanza noiosa, lunghe chiacchierate con la sorella, badare al bimbo che piangeva spesso per continue colichette, ripagare l’ospitalità della sorella stirando e facendo da mangiare. Qualche visita ai parenti era l’unico svago. Poi un giorno incrociò, sul “liston”, che sarebbe la via principale della cittadina, il suo ex, Sante.
“Ciao, Saretta, come stai?”, disse Sante, avvicinandosi.
“Bene, Sante”, rispose Sara.
“Ho sentito che sei tornata per rimanere, è vero?”.
“Sto dando una mano a Laura, forse sai che ha avuto un bimbo”.
“Sì, lo so; mi hanno detto anche che non sta tanto bene”.
“Sì, un po’ di stress da parto, passerà presto”.
“Poi tu che fai, torni a Milano?”.
”Vedremo, penso di sì”.
“A me ci pensi mai?” chiese Sante, che aveva ben compreso che tesoro aveva avuto fra le mani e perso malamente.
“Perché dovrei? E’ storia passata e finita; immagino che avrai già trovato un’altra cuoca e stiratrice”.
“Non ho trovato nessuno, perché a te voglio ancora bene. Forse ho sbagliato a lasciarti spesso sola in casa, a passare più tempo con gli amici che con te, ma la lezione è stata dura e credo d’aver imparato”.
“”Forse ho sbagliato…, credo d’aver imparato...” Non ne sei sicuro nemmeno tu. E poi non si tratta tanto d’imparare, si tratta di amare e rispettare, e tu né mi ami, né mi rispetti”.
“Potremo riprovare; non ci sono qui altre donne come te, lo so, me ne sono reso conto e proprio per questo hai tutto il mio rispetto; quanto ad amare, forse non sono bravo a mostrarlo, ma io ti penso spesso e ti desidero ancora oggi come sei anni fa, quando abbiamo fatto l’amore per la prima volta”.
“Il problema, Sante, è che sono io che non ti amo più. Tu e mio marito avete deluso ogni mia speranza d’amore ed oggi non ci credo più, all’amore. Degli uomini posso fare a meno, ma mi pesa molto il non avere figli a cui dare tutta la tenerezza che sento dentro e che non so a chi offrire”.
“Dammi una possibilità. Non ti chiedo di metterti di nuovo con me, ma almeno usciamo qualche volta insieme. Se sono cambiato e se una volta ti sono piaciuto, forse potrò piacerti di nuovo. E di figli sento anch’io la mancanza, ma sai non abbiamo tanto tempo davanti a noi, Saretta”.
“La gente parlerebbe, non crederebbe a semplici uscite in amicizia e mi ritroverei invischiata nuovamente. Meglio di no, Sante”.
“Non mi arrendo facilmente, Sara, vedrai che ti convincerò”, disse Sante, con tono diverso, quasi minaccioso. Poi salutò e se andò.
Sara rimase un attimo immobile, guardando quell’omone di poco più di quarant’anni che si allontanava, con i capelli brizzolati tutti arruffati e l’andatura nervosa e pesante.
Non si può tornare indietro, pensava, anche se è davvero troppo presto per rinunciare ad avere una vita normale di coppia. Per un attimo pensò anche a come fosse diverso rispetto a Sante quel signore di Milano, Francesco. E a che maleducata era stata a non dirgli niente del suo ritorno a Portogruaro. Poi si riscosse e continuò per la strada verso la casa della sorella.
A Milano, Francesco era alle prese con un dilemma ben diverso. Il direttore generale dell’agenzia, il suo capo, insomma, aveva dato le dimissioni, perché assunto con un più lauto stipendio da un’agenzia concorrente di Torino. Francesco sapeva bene che il più papabile, per quella poltrona, all’interno dell’agenzia, era lui stesso, e temeva che gliela offrissero. Sì, temeva, perchè Francesco sapeva che il compito di direttore generale era ben diverso da quello che piaceva a lui. Il DG doveva gestire operativamente l’agenzia, fare i bilanci, licenziare o assumere personale, rappresentare l’agenzia nelle riunioni di settore piuttosto che ai convegni internazionali e altri compiti similari, ma aveva ben poco a che fare con prodotti, clienti, campagne pubblicitarie, comunicazione, insomma con il cuore dell’attività dell’agenzia stessa, cioè quel tipo di lavoro che invece Francesco amava. Però, se un dirigente rifiuta una promozione così significativa ed importante, si brucia per sempre, non solo in seno all’agenzia, ma anche nei confronti delle aziende concorrenti. Appare come un dirigente senza coraggio, che ha paura di responsabilità crescenti, e non, invece, come un dirigente innamorato di un certo tipo di lavoro e non di un altro. Ecco il dilemma di Francesco. Dopo aver saputo delle dimissioni del DG, si arrovellò per un giorno ed una notte interi, poi prese una decisione: doveva parlarne con l’amico DG dimissionario. Così il giorno dopo bussò alla sua porta.
“Scusa, Dario, hai un minuto?”.
“Certo, Francesco, entra, sono subito da te”.
Dopo aver finito di firmare delle carte, Dario gli chiese:
“Dimmi, c’è qualche problema?”.
“Non so, lo voglio chiedere a te”.
“Cioè?”.
“Vedi, il fatto che tu te ne vada mi dispiace per due motivi. Primo, perché con te ho sempre lavorato bene, con grande soddisfazione, credo reciproca. Secondo, perché qualcuno mi dice che al tuo posto potrei essere designato io”.
“Sì, è più che probabile. Ma perchè dovrebbe dispiacerti?”.
“Perché non mi piace il lavoro di DG. Bisogna esserci tagliati a discutere con gli azionisti nei consigli d’amministrazione, a tagliare teste, ad aggiustare bilanci eccetera. Io non ci sono tagliato, a me piace avere contatto diretto con problemi di comunicazione e con i clienti. Se ci fosse da prendere la direzione generale di questo tipo di operatività, sarei ben felice, ma la parte prettamente amministrativa e di rappresentanza proprio non mi piace.
Ma, se mi venisse offerto, sarebbe difficile dire di no e probabilmente non farei felice né me stesso né l’azienda.”
“Capisco. Anzi, ti capisco benissimo. Un po’ come te la pensavo anch’io, quando ho accettato quest’incarico. Ma non in modo così drastico come fai tu. Cosa pensi di fare?”.
“Una soluzione per me potrebbe essere di andare via anch’io, ad assumere una posizione più o meno analoga a quella che ho qui ora in un'altra agenzia. Penso che troverei facilmente un posto”.
“Sì, lo penso anch’io. Ma sarebbe una grossa perdita per questa agenzia, tu sei davvero bravo. Il presidente mi ha chiesto un parere su come sostituirmi, ma è ovvio che anche lui pensa a te. Se sei d’accordo, io potrei proporgli una soluzione di questo tipo: nominare te direttore generale operativo business, e trovare un direttore generale amministrativo. Tutti e due rispondereste alla presidenza.
Ci sarebbe forse un maggior costo per l’agenzia, ma non così elevato. Che ne pensi?”.
“Sarebbe formidabile e molto stimolante per me. Lo credi possibile?”.
“Ci posso provare”.
“Grazie, Dario”.
“Alla peggio verrai a lavorare con me!”.
“A Torino? Preferirei di no”.
“Ok, ti farò sapere”.
“Ciao, Dario, grazie ancora”. Così dicendo, Francesco usci dall’ufficio rinfrancato.
In poche settimane, le cose si aggiustarono come aveva suggerito Dario. Francesco, con la promozione, si ritrovò soddisfatto ma ancora più oberato di lavoro. Nei suoi pensieri sembrava proprio non esserci più posto per Sara.
 
6. Alla ricerca della dama perduta
 
Ma non era così. Il ricordo di Sara, piccolo ologramma mentale, era custodito in quell’area remota del cervello, fra coscienza ed inconscio, sulla riva del fiume dell’oblio. Era lì e talvolta agiva; per esempio, quando Francesco entrava nel bar, talvolta la sua testa girava a destra e a manca, a cercare una zazzera bionda e luminosi occhi azzurri. Un gesto, di cui Francesco nemmeno si rendeva conto. Poi un mattino, l’azione dell’ologramma fu più decisa: mentre Emilio gli serviva al tavolo il cappuccino con la solita brioche, Francesco si ritrovò a chiedergli:
“Senta, Emilio. Qualche mese fa ho conosciuto qui una signora bionda, con occhi azzurri, che mi ha detto di fare la domestica a ore in un palazzo qui vicino, verso l’incrocio. Non l’ho più vista. Lei l’ha presente?”.
“Ma certo, la signora Sara, veniva spesso qui, al mattino o alla tardo pomeriggio. Non è più a Milano. L’ultima volta che è venuta mi salutò dicendomi che tornava al paese, in Veneto, perchè la sorella non stava bene”.
“Ah, ecco”, disse Francesco turbato da quell’inaspettata notizia, ”peccato, era molto simpatica. Grazie, Emilio”.
“Si figuri”.
E così Sara se ne era andata senza nemmeno avvertirlo; forse per un’emergenza, ma avrebbe potuto telefonargli anche dopo. Quel fatto, stranamente, irritò Francesco, che ci ripensò più volte durante i giorni successivi. Va detto che Francesco, quando si metteva in testa una cosa, non si rasserenava finché non l’avesse realizzata, e anche rapidamente. Ora voleva trovare Sara e chiederle perché s’era comportata così maleducatamente, da lei non se lo sarebbe aspettato.
Ed il suo cervello cominciò a macinare piani.
I dati in suo possesso: Sara Zanon, di Portogruaro. Portogruaro: vicino a Latisana, dove aveva sede il cliente vinicolo di recente acquisizione. Ergo: il prossimo incontro con il cliente, già previsto nella settimana successiva, invece che a Milano, sarebbe potuto avvenire a Latisana, magari di lunedì, così lui avrebbe avuto tempo, nel weekend,  per cercare e incontrare Sara.
Col cliente non ci fu alcun problema, fu ben felice di risparmiarsi il viaggio e l’incontro fu fissato a Latisana per il lunedì successivo.
Restava il problema di trovare Sara. Gli sembrava improbabile che in così poco tempo un numero telefonico a suo nome fosse inserito nel elenco telefonico. L’agenzia aveva le guide telefoniche di tutte le principali città italiane, anche quella di Venezia e provincia. Chiese alla sua segretaria di portargliela e, sotto Portogruaro, cercò Zanon,.
Ce n’erano almeno una trentina, e, come previsto, nessuna Sara. Gli restava l’opzione di chiamare degli Zanon a caso, sperando d’incappare in qualche parente. Cominciò subito.
“Sì..?”.
“Buon giorno, cerco Sara Zanon”.
“Ha sbagliato numero”. Click. Buca.
“Pronto?”.
“Buon giorno, cerco Sara Zanon”.
“Qui non c’è nessuna Sara”.
“Per caso conosce Sara?”.
“No, mi spiace”.
“Mi scusi, allora”.
“Prego”. Click. Buca.
Andò così per altre due telefonate. Poi:
“Pronto”.
“Buon giorno, cerco Sara Zanon”.
“Guardi che non abita qua, sta da sua sorella Laura”.
“Lei per caso potrebbe darmi il suo numero?”.
“Mi dispiace, non lo so, non siamo parenti, solo conoscenti.”.
“Ma non c’è nessuna Laura Zanon sul elenco telefonico”.
“Sarà sotto il nome del marito”.
“Lei sa come si chiama?”.
“So che di nome si chiama Ferruccio, ma non so il cognome”.
“Va bene, signora, la ringrazio, buon giorno”.
“Buon giorno”. Click. Una traccia.
Ferruccio non era certo un nome frequente. Chiamò la stagista che da qualche settimana era ospite dell’agenzia.
“Come va, signorina? Come trova l’esperienza in agenzia?”.
“Bellissima, meglio di quel che m’aspettavo, siete fortunati a fare un lavoro così interessante e vario”.
“Sono d’accordo con lei. Senta, ho bisogni di un favore, ci vogliono occhi buoni”.
“Mi dica”, rispose la ragazza.
“Vede quest’elenco telefonico di Portogruaro, una città del Veneto? Ho bisogno che lei mi scriva tutti i  numeri telefonici ed il cognome dei signori che hanno nome Ferruccio, non dovrebbero essere tanti, ci vuole solo pazienza e, appunto, occhi buoni, perché i caratteri sono abbastanza piccoli. Io adesso ho una riunione, può lasciare i dati dalla mia segretaria”.
“Senz’altro, lo faccio subito”.
“Grazie”.
Quando finì la riunione, la segretaria gli consegnò un foglio con tre nomi e relativo numero telefonico.
Lo mise sulla scrivania, davanti a lui, e lo guardò a lungo.
Era l’ultima possibilità per fermarsi, per fermare quella ricerca di cui non capiva bene il motivo e che gli appariva un poco infantile.
La notte porta consiglio, ci penserò domani, si disse e se ne andò a casa, lasciando il foglietto sulla scrivania.
 
7. Io so cos’è la bellezza
 
Durante la notte non ci pensò affatto; in realtà, nel suo intimo, la sua decisione era stata presa già da tempo. Infatti, il mattino seguente, dopo aver sbrigato le faccende più urgenti, si chiuse in ufficio e prese in mano il telefono, chiamando il primo Ferruccio dell’elenco.
“Pronto?”
La sua voce!
“Buon giorno, cerco la signora Sara”.
“Sono io, chi parla?”.
“Sono Francesco, si ricorda, a Milano?”.
“Si..., certo. Buon giorno. Cosa..?”
“Lo sa che sono arrabbiato con Lei?”.
“Perché non Le ho telefonato? Non m’è sembrato il caso”.
“Perché no? Non è stata gentile. Ho dovuto attivare FBI, SISDE e Cia per rintracciarLa!”.
“E perché tutta questa necessità di trovarmi?”.
“Non lo so, ma ho voglia di rivederLa. Inoltre, abbiamo da finire un discorso, ricorda?”.
“Che discorso?”.
“Sulla bellezza. Le avevo detto non rispondevo apposta per avere motivo di reincontraLa”.
“Sì, ora ricordo. Ma ormai sono a Portogruaro e non so se e quando tornerò a Milano”.
“Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna! Ho un incontro di lavoro a Latisana lunedì prossimo. Pensavo di venire a Portogruaro sabato, così mi potrà fare da guida nella sua cittadina”.
“Scherza?”.
“Sono serissimo, Sara, se no perché l’avrei cercata?”.
“Ma…non so che dire… mi sembra così strano”.
“Senta, Sara, non mi piace tirare le cose per le lunghe. Se non ha piacere di rivedermi, dica no e non mi sentirà più. In caso contrario mi dica dove possiamo incontrarci”.
C’era stato un piccolo cambiamento nel tono di voce di Francesco e Sara ne fu scossa.
“Non s’arrabbi. Va bene. Al sabato mattino non posso, ho trovato un lavoro a ore. Va bene alle tre del pomeriggio?”.
“Va benissimo, faccio un’abbondante colazione alle 11 e poi parto. Alle tre, dove?”.
“Direi nella piazza principale, dove c’è un monumento con il cavallo”.
“Ottimo. Senta, mi può consigliare un albergo?”.
“Sempre in centro c’è lo Spessotto, è molto comodo”.
“Grazie, Sara. Allora a presto”.
“Sì, a presto, buon giorno”.
“Buon giorno”. Click. Missione compiuta.
Sara mise giù la cornetta lentamente, sotto lo sguardo incuriosito della sorella.
“Chi era ?“, chiese Laura.
“Un signore di Milano, che passa di qua sabato e vuole vedermi”.
“Non mi hai mai detto niente di signori a Milano!”.
“Non c’è niente da dire, siamo usciti una volta sola, è una cosa senza senso”.
“Perché? Se ti ha cercata vuol dire che tu gli piaci”.
“Senti, lui è un megadirigente, sapientone, e io sono una domestica ignorante. Non gli avevo nemmeno detto che ero tornata qua.”.
“Però! E’ vecchio, brutto e antipatico?”.
“No. E’ gentile. Ha circa quarant’anni. E’ rimasto vedovo qualche anno fa e ha perso anche una figlia di quattro anni, insieme alla moglie. Ne soffre ancora molto.”.
“E cerca consolazione con te?”.
“Non mi sembra il tipo, ma non si sa mai”.
“Come va con Sante?”.
“Ogni volta che mi vede mi chiede di uscire, non ne posso più. L’ultima volta gli ho anche risposto male, ma lui è sicuro di convincermi”.
“C’era rimasto proprio male quando l’hai lasciato e sei andata via. E’ uno che crede che le donne lo ammirino, e invece non ne ha più trovata una, dopo di te”. Poi Laura aggiunse:
“Allora dovrai andare dalla parrucchiera, prima di sabato!”.
“Dici?”.
“Certo, è sempre bene lasciare almeno un buon ricordo”.
Fortunatamente Laura stava meglio e Sara aveva potuto accettare un lavoro a ore presso una famiglia, che la teneva impegnata per tre mattine alla settimana. Era ancora troppo presto per pensare se tornare a Milano o no, ci volevano ancora alcuni mesi per essere sicuri che Laura avesse superato la sua depressione.
Come aveva detto alla sorella, Sante la pressava continuamente perché uscisse con lui, ma proprio la sua molesta insistenza rafforzava il suo rifiuto. Era arrivato persino ad aspettarla sottocasa per dirle che lui aveva diritto a riprovarci, che lei era stata troppo severa e poco comprensiva nei suoi confronti. Lei gli aveva detto che al momento non era interessata a creare un nuovo rapporto con un uomo e che la lasciasse in pace una buona volta.
A Francesco, sino a quel giorno, non aveva più pensato, lo aveva giusto considerato una conoscenza casuale e fugace, anche se piacevole.
La sua telefonata l’aveva colta totalmente di sorpresa.
Il sabato pomeriggio, mentre si vestiva per andare all’appuntamento nella piazza col cavallo di marmo, si guardava allo specchio e non capiva cosa potesse trovarci di così interessante Francesco in quel viso irregolare e in quel corpo ben diverso da quello delle flessuose modelle che apparivano nelle riviste ed in televisione e che lui avrebbe potuto facilmente incontrare a Milano.
Gli farò fare un giro per i portici, pensò, poi si vedrà.
Alle tre in punto arrivò in vista del cavallo e lo vide subito, che si guardava attorno a cercarla.
“Eccomi”, disse Sara, arrivandogli alle spalle.
“Oh, buon giorno, beato che si rivede”, rispose Francesco, tendendole la mano.
“Ancora arrabbiato?”.
“Penso che accetterò le sua scuse, ad una condizione”.
“Sarebbe?”.
“Che passiamo ad un più semplice “tu”.
“Ha sempre su gli stivali delle sette leghe, vedo!?”.
“Sarebbe un no?”.
“Ma no, è un si, ma guardi,..guarda, che farò fatica”.
“Spero di no. Ok, archiviata la fuga, cosa facciamo ora?”.
“Portogruaro è carina, se Le piace, scusa, ti piace camminare, possiamo fare un giro lungo i portici. Ci sono tanti palazzi antichi, anche se non saprei dirLe,  dirti,  di che periodo”.
“Benissimo, approfittiamo finché c’è luce”.
Così presero a passeggiare per la città, chiacchierando di ciò che era accaduto in quei mesi in cui non si erano più sentiti. A poco a poco, il “tu” divenne più naturale anche per Sara, che si ritrovò a raccontare senza remore i problemi di sua sorella, la simpatia del piccolo Giovanni,
il suo nuovo lavoro.
“Ora potremo bere quel famoso tè”, disse Francesco verso le cinque. Così si accomodarono in uno dei bar della piazza centrale.
Francesco capiva sempre più chiaramente perché aveva sentito tanto desiderio di rivedere quella signora che conosceva appena. Da lei irradiava un aura rasserenante, i suoi gesti erano aggraziati, pacati, i suoi occhi esprimevano onestà morale e la sua figura, pur lontana dai canoni estetici dominanti, esprimeva una decisa femminilità, che aspettava solo di potersi rivelare con spontaneità. Per stare bene con Sara, bastava essere un uomo moralmente onesto come lo era lei come donna.
Sara non pensava a nulla di particolare, solo sentiva che stava bene, il darsi del “tu” aveva ridotto la distanza intellettuale che la intimoriva; sentiva che poteva permettersi di essere semplicemente sé stessa, senza crearsi inutili problemi.
Verso le sei concordarono che ognuno sarebbe andato al proprio alloggio, lui all’albergo Spessotto, lei da sua sorella. Si sarebbero ritrovati poi alle sette e mezza per andare a cena. Francesco insistette per andare a prenderla a casa, non lontana dal centro-città e lei alla fine accettò:
”Così ti faccio conoscere Giovanni, il mio amore”, disse Sara.
Quando suonò il campanello, gli venne ad aprire una signora somigliantissima a Sara, solo più giovane.
“Ah, buona sera, dottore. Si accomodi”.
“Grazie, signora, ma la prego, lasciamo stare in pace i dottori. Mi chiamo Francesco, posso chiamarla Laura?”.
“Sì, certo. Ecco Ferruccio mio marito. Saaaraa!!
“Venga, Francesco”, disse Ferruccio, un bel giovane, dal viso aperto e modi sicuri.”Ecco, questo è Giovanni”.
Il piccolo dormiva pacifico in un piccola sdraietta
“Un vero cappellone!”, disse Francesco sorridendo.
“Spero che Lei accetti un calice di prosecco?”, chiese Ferruccio, ”da noi è usanza. Si accomodi su quella poltrona”.
“Volentieri. Buona sera, Sara”, aggiunse Francesco all’entrante Sara.
“Buona sera, ti sei riposato un po’?”.
“Ho letto il giornale”.
“Cosa ne pensa della nostra cittadina?”, chiese Laura, che lo guardava con occhi pieni di curiosità ed interesse.
“Bella, mi piacciono le città con i portici, sembra che vogliano abbracciare i loro abitanti, danno calore. Ci sono poi dei palazzi rinascimentali davvero belli”.
Dopo che ebbero bevuto l’aperitivo, Ferruccio domandò a Sara:
”Dove andate a mangiare?”.
Intervenne subito Francesco:
“Ho chiesto in albergo, mi hanno dato due o tre possibilità. Io propenderei per un locale tipico, dove mi hanno detto che si mangia bene e che si trova incassato nelle mura cittadine, mi pare a San Giovanni”.
“Ah, ho capito. Sì, non è male, è un posto tranquillo, una cucina famigliare condita con un pizzico di fantasia; sai dov’è, Sara?”, chiese Ferruccio.
“Sì, non ci sono mai stata, ma so qual è”.
Dopo aver salutato Laura e Ferruccio, s’avviarono verso San Giovanni, una bella camminata nella serata piuttosto fredda. Trovarono senza problemi il locale e anche un tavolo ancora libero.
Fecero l’ordinazione e poi si guardarono.
“Mi hai detto che mi hai cercata solo perché dovevi finire il discorso sulla bellezza. Ti ascolto”, disse Sara, con un leggero sorriso sulle labbra.
“Speravo si scansare l’argomento, perché non sono molto preparato, anche se davvero penso che sia fondamentale, per sperare in un mondo migliore, essere capaci di riconoscere e godere la bellezza”.
”Avrei detto che per un mondo migliore ci volesse il bene, non la bellezza”.
“Ma è proprio questo il punto; secondo me chi apprezza la bellezza è automaticamente sulla via che porta al bene. Chi ammira la bellezza della natura, la bellezza delle parole, dei sentimenti, dei comportamenti, dell’arte vera in genere, significa che ama l’armonia e non vi è armonia nel male. Il male può essere affascinante, ma difficilmente è bello e armonioso”.
“Se ricordo bene, però, mi avevi detto che la bellezza va imparata e che ci vuole una guida per poterlo fare”.
“Sì, la percezione della bellezza è solo in minima parte istintiva. Gli animali non gustano la bellezza, possono talvolta avvertire disarmonie nel contesto in cui si trovano, è una capacità che fa parte dei loro strumenti per la sopravvivenza. La percezione e il gusto della bellezza in senso lato sono invece un fatto culturale, a cui solo l’uomo ha accesso, e possono essere un piacere fine a sé stesso, senza una particolare utilità pratica. Farsi rapire dalla bellezza di un paesaggio è una capacità solo umana e marca davvero la distanza fra noi e gli altri esseri viventi sul pianeta”.
“Ma non è che qualcuno t’insegna ad ammirare un paesaggio; tutti sono capaci di dire: che bel paesaggio”.
“Apprezzare la bellezza non è semplicemente dire mi piace o non mi piace. Non è solo guardare, ma è soprattutto vedere. Se io ti guardo, mi dico: bella donna. Ma in verità non ho detto nulla di te. Se guardo con attenzione e con desiderio di capire, allora vedo che hai degli occhi azzurri pieni di luce e limpidezza, vedo che ti muovi con grazia, vedo che tutto il tuo corpo esprime, nella sua gestualità,  un’interiore sollecitudine verso il prossimo, vedo che hai una pelle chiara che deve essere bella da accarezzare. Ora sì che ho visto e goduto davvero della tua bellezza”.
Parlando di Sara, Francesco si era come acceso, aveva alzato la voce e gli occhi brillavano. Sara lo guardava e pensava - ma cosa dice questo qui?- ed era preoccupata per i clienti degli altri tavoli, che sicuramente ora udivano le parole di Francesco.
“Ssst, Francesco, abbassa la voce”.
“Cosa?..scusa, ogni tanto mi infervoro. Comunque hai capito cosa voglio dire: guardare oltre, vedere”.
“Sì, sì, ho capito, ma ora cambiamo discorso. Domani…”.
“Ho già pensato a domani, se hai tempo e sei d’accordo”, disse Francesco, tornando ad un volume di voce normale,”mi piacerebbe andare a vedere le grotte di Postumia, m’hanno detto che sono stupende”.
“Vedo che insegui sempre la bellezza”. replicò Sara, ”Domani sera, alle sei, devo essere a casa, perché Laura e Ferruccio devono uscire”.
“Va benissimo. Sei mai stata a Postumia?”.
“No”
“Allora è fatta. Il giro delle grotte inizia alle 12, alle sei siamo sicuramente di ritorno”.
Continuarono a mangiare tranquilli, ma Sara risentiva nella mente le parole che Francesco aveva detto su di lei, parole che nessuno le aveva detto mai. Mentre lo ascoltava parlare del suo lavoro, cercò anche lei di “vedere” Francesco. E vide che lui emanava bontà, semplicità, affidabilità. Seppe che lui si serviva della sua intelligenza e cultura per rendere gli altri partecipi della bellezza, come la chiamava lui e non per tenersela tutta per sé. Seppe che Francesco era un uomo che le piaceva e non la intimoriva.
Erano ormai gli ultimi clienti rimasti ai tavoli del settore  ristorante, mentre lungo il bancone del bar, s’avvicendavano coppie nottambule e uomini solitari.
Francesco, con un segno, chiese il conto, poi si rivolse a Sara:
“Ti riaccompagno a…?”.
Un trambusto ed una voce alterata lo interruppero. Un uomo dall’aria stravolta, con lunghi cappelli brizzolati scompigliati, s’era fermato davanti al loro tavolo, su cui aveva appoggiato una mano, mentre agitava l’altra davanti al volto di Sara:
“Eccola, quella che affermava di non volere più avere uomini intorno. Chi è questo damerino, uno di fuori, eh, che viene a rubarci le donne, perché ha i soldi. E tu, brutta troia, mi hai piantato solo per soldi, eh, ti faccio vedere io chi sono”
Così dicendo, Sante, perché era lui l’energumeno che s’era improvvisamente materializzato davanti a loro, afferrò il coltello che Sara aveva usato per tagliare la costata che aveva appena mangiato e l’alzò per colpirla. Francesco, che per un attimo era rimasto come folgorato da ciò che vedeva e sentiva, si riscosse e s’intromise fra Sante e Sara, cercando di afferrare la mano armata dello sconosciuto; ma la lama gli penetrò nell’avambraccio, poi Sante la risollevò e colpì con forza Francesco appena sotto il collo. Francesco cadde in ginocchio accanto al tavolo, mentre Sante fuggiva, gridando frasi incomprensibili. Il sangue coprì in un attimo la camicia e la giacca di Francesco, che era ormai riverso a terra, senza sensi. Sara si chinò su di lui urlando e piangendo di paura e vergogna, mentre l’oste raccattava tovaglioli puliti per fermare il sangue e gridava alla cuoca, accorsa al rumore e alle grida, di chiamare il 118 per un’ambulanza e la polizia. In quindici secondi era avvenuta una mutazione radicale dello scenario, come a teatro, fra un atto e l’altro delle tragedie.
L’oste non aveva perso la testa, e i suoi tovaglioli avevano funzionato, il sangue era ormai solo un rivolo; l’ambulanza arrivò dopo pochi minuti e gli infermieri chiesero a tutti di allontanarsi. Tagliando via lembi di giacca e camicia, poterono vedere una ferita da taglio lunga ma non troppo profonda e, mentre caricavano Francesco sulla barella, rassicurarono Sara:
“Ha preso solo muscoli, la giacca ha attutito il colpo. Gli faranno tanti punti, ma sarà presto come nuovo, signora”.
Intanto i poliziotti, arrivati poco dopo l’ambulanza, si facevano raccontare dall’oste l’accaduto e seppero anche il nome dell’aggressore, abituale cliente del bar. Dissero a tutti di tenersi a disposizione e corsero via, a cercare di catturare Sante, prima che combinasse altri guai, magari anche contro sé stesso.
A Sara fu permesso di salire sull’ambulanza, accanto a Francesco, che stava riprendendo conoscenza.
Era sconvolta e piena di vergogna e anche profondamente disperata. Per la prima volta, dopo anni, provava interesse per una persona che sembrava essere a sua volta interessata a lei, ed ecco che un uomo accecato dall’egoismo, dall’invidia e dalla gelosia aveva introdotto la tragedia nella sua vita tranquilla. E riportato il dramma nella vita di Francesco, come se non ne avesse avuto già abbastanza nel suo passato.
Sara prese la mano di Francesco e gli sussurrò, piangendo:
”Mi dispiace, mi dispiace, io…,io…,non so…”.
Lui le strinse leggermente la mano e, a fatica, sussurrò a sua volta, voltandosi verso di lei:
“Io…lo..sò”. Tacque un attimo.
“Per..me..la…bellezza…del…mondo…sei…tu”.
Sara lo guardò con occhi velati, tese la mano verso la sua guancia per una leggera carezza, poi si chinò e gli diede un bacio, il primo, sulla punta del naso.
 
 
 
 
  
  
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