Disclaimer: i
personaggi sono di Amano Akira, il divertimento sadico invece è il mio
8D
Genere: what if?, nato dalla
mia mente contorta che ha fatto il ragionamento “Dino sa il
giapponese” > Dino deve averlo imparato da bambino > E se fosse
andato in Giappone e avesse incontrato Kyoya?
Nota: la prima D18 dopo
appena due settimane di scoperta della coppia, finora sempre ignorata
praticamente XD Perciò siate pure crudeli con i commenti all'IC <3
Dedica: ad Alex e Lita, che
sono due maledette e mi hanno convertita alla coppia. Spero vi possa piacere
<3
Sai Kyoya...
credo di aver sognato un ricordo di quand'ero bambino.
«Romario, Romario! Quello è il monte con il
nome buffo!» sentì pronunciare mentre guidava, gli occhi fissi
sulla strada. Ciò non gli impedì di sorridere divertito
dall'ingenuità dell'affermazione, tipica di un bambino.
«Questo è il monte più famoso del
Giappone, non prenderlo in giro Dino.» lo richiamò suo padre,
seduto sul sedile anteriore del passeggero, il tono morbido di un rimprovero bonario.
Suo figlio Dino, zazzera bionda scompigliata e sguardo
animato dalla curiosità per un posto mai visto, doveva aver colto
sì e no – con molta fortuna – due parole di tutta la frase.
Si allontanò dal finestrino, sistemandosi nello
spazio tra due sedili anteriori, sporgendosi quindi verso il guidatore:
«Romario, se abbiamo tempo lo andiamo a visitare?» domandò
entusiasta, osservando l'uomo pieno di aspettativa.
Romario sorrise accondiscendente: «Se avremo tempo e
il permesso di vostro padre.» acconsentì, nonostante le due
condizioni. Probabilmente Dino doveva considerare il permesso del genitore cosa
fatta, perché si lasciò cadere all'indietro verso il proprio
sedile, un sorriso allegro sulle labbra.
«Dino, ascolta.» ne attirò l'attenzione
l'uomo, osservandolo dallo specchietto retrovisore: «La persona da cui
stiamo andando è qualcuno con cui devo lavorare. Per te sarà una
buona occasione di vedere come la Mafia è diversa in alcune parti del
mondo rispetto a come la vedi in Italia.» gli fece presente, mentre il
figlio annuiva sebbene impegnatissimo a giochicchiare con qualcosa fra le mani.
I dubbi su quanto fosse opportuno portare un bambino come
Dino a contatto con la mafia giapponese c'erano stati, ma a livello istintivo;
perché, se ci si pensava razionalmente, Dino era figlio proprio di un
mafioso: tuttavia, le riserve più sensate erano state se non fosse
magari troppo presto presentarlo ad una mafia straniera, di un Paese lontano e
molto diverso dall'Italia che il più piccolo conosceva.
Il padre del biondo, tuttavia, aveva tranquillizzato i suoi
uomini. Hibari-san – il capo yakuza che andava ad incontrare –
aveva due figli: un primogenito, di due anni più grande di Dino che come
quest'ultimo sarebbe succeduto al padre, e un secondogenito più piccolo
dell'erede dei Cavallone e che sarebbe stato invece esterno alla questione
della successione.
A quel punto, quindi, erano semplicemente partiti.
Il Boss dei Cavallone aveva spiegato – sebbene senza
termini duri o brutali – ogni cosa di quel viaggio al figlio, perché
questi non cadesse dalle nuvole una volta lì. Ed ora Romario guidava la
macchina diretta alla casa di “Hibari-san” come il Boss lo
chiamava, senza pronunciare il nome in rispetto dell'usanza giapponese di non
rivolgersi con tanta familiarità ad una persona la cui conoscenza era
basata su un “rapporto di lavoro”, o qualcosa che certamente vi
assomigliava.
Dino mantenne lo sguardo fuori dal finestrino, spostandolo
dall'altro lato quando la vettura prese a rallentare fino a fermarsi.
Lo sguardo si riempì di meraviglia di fronte alla
casa enorme ed in stile inconfondibilmente orientale, quando il biondo se la
ritrovò davanti scendendo dalla macchina.
Furono accolti da due uomini che a Dino ricordarono quelli
di casa sua, perché in abiti occidentali: la cosa lo fece sorridere,
mentre suo padre rivolgeva ai due qualche parola in giapponese – Dino fu
fiero di riconoscere un saluto e il “benvenuto” di quegli uomini!
Allungò una mano a prendere quella di Romario al
proprio fianco, come suo padre si era raccomandato di fare. Si mosse seguendo
la figura del proprio genitore, sempre qualche passo avanti a lui, che a sua
volta veniva guidato dagli uomini di prima per i vari corridoi che – agli
occhi curiosi di Dino – sembravano tutti perfettamente identici.
Li fecero accomodare in una stanza ampia e perfettamente
arredata; un tavolino spiccava al centro e – dietro di esso – era
seduto in posizione tipicamente giapponese un uomo dall'aspetto austero: i
capelli nerissimi e lisci, gli occhi scuri e freddi, indossava un kimono
maschile invernale adatto alla stagione e teneva la schiena perfettamente
dritta. A Dino sembrò molto buffo ma, poiché suo padre si era
raccomandato di essere molto rispettoso, non disse nulla e si impegnò a
non fare smorfie particolari.
L'uomo chinò il capo verso il Boss dei Cavallone,
dandogli il benvenuto a sua volta come poco prima avevano fatto i suoi uomini.
Suo padre rispose imitandone la gestualità, presentando quindi suo
figlio. Dino, sentendo pronunciare dal padre il proprio nome, chinò a sua
volta il capo; nel farlo nascose un sorrisetto divertito: quegli inchini erano
strani, sembravano racconti dove c'erano principi e cavalieri che si
inchinavano alle dame! - ehi... ma era lui o Hibari-san la dama, in quel caso?
Il giapponese ne parve compiaciuto.
«Vostro figlio?» domandò il Boss italiano
all'altro in un giapponese fluido.
«È a lezione, a scuola in questo
momento.» riferì l'altro: «Lui non è ancora
rientrato.» specificò – cosa che Dino, con il suo giapponese
molto elementare, non comprese – lasciando intendere che il
secondogenito era invece già rientrato.
Dino perse quasi subito l'attenzione sul discorso, non
capendone che poche parole fra le più semplici: probabilmente Hibari-san
lo notò, perché gli rivolse un'occhiata per poi spostare lo
sguardo su suo padre.
Pronunciò qualcosa verso di lui, che Dino non seppe
tradurre ma che intuì non riguardasse lo stesso discorso che i due
adulti avevano intrapreso poco prima. Forse fu il tono a suggerirglielo, e il
padre che si voltava verso di lui a confermarlo.
«Romario, accompagna Dino nell'altra stanza.»
disse il Boss al sottoposto, che eseguì quasi nell'immediato, dopo un
congedo rispettoso rivolto al padrone di casa.
Dino era stato accompagnato in una stanza che, se non per le
dimensioni ridotte, non differiva particolarmente dall'altra.
Ciò che attirò l'attenzione del biondo non fu
l'arredamento, né qualche particolare in più rispetto a quella in
cui aveva lasciato suo padre e Hibari-san; a stupirlo fu l'inaspettata presenza
di un bambino. Ad un primo sguardo si notavano immediatamente le origini
giapponesi: i capelli, la cui frangia copriva appena gli occhi scuri, erano
neri e lisci come quelli del capofamiglia. Indossava un kimono con, sopra di
esso, un indumento in più rispetto al padre – Dino aveva notato
che, rispetto all'Italia, in Giappone l'inverno faceva davvero freddo!
Stava seduto compostamente, sfogliando un libro scritto con
tutti quei loro simboli strani e non dimostrava più di sette o otto
anni: Dino inclinò istintivamente il capo di lato incuriosito, mentre
Romario gli faceva cenno di entrare, incoraggiante.
Così fece il biondo, sistemandosi seduto a grambe
incrociate – l'altra posizione era un sacco scomoda! - e si prese del
tempo per osservare l'altro bambino, ingenuamente in attesa del suo saluto.
Ma nonostante la sua aspettativa, l'altro non proferì
parola nemmeno dopo che Romario ebbe lasciato la stanza per tornare dal Boss.
Dino pensò inizialmente che il moro stesse studiando, e attese
pazientemente. Almeno finché non gli sfuggì uno sbadiglio e con
esso arrivò una consapevolezza improvvisa: magari era timido!
«Cosa leggi?» chiese in un giapponese stentato
in cui si coglieva perfettamente l'accento straniero, ma tutto sommato
comprensibile per l'altro. Tuttavia, Dino pensò di aver sbagliato
qualcosa quando non ricevette risposta, né alcun segno di essere stato
sentito addirittura.
Forse, pensò, non
sente? - fu lo stupido quanto ovvio pensiero che formulò come
spiegazione. Ma non si sarebbe arreso! Avrebbe parlato più forte e da più
vicino!
«Co-sa leg-gi?» sillabò quindi, scandendo
meglio e a voce un pochino più alta dopo essersi avvicinato a lui. Lo
sforzo si rivelò presto vano e di nuovo il moro non solo non rispose, ma
non batté ciglio. Dino gli rivolse un'occhiata demoralizzata che
durò qualche istante, dopo il quale il biondo – testardo –
decise di tentare di nuovo.
Se non lo sentiva era un problema, certo, ma se leggeva
significava che ci vedeva: magari poteva comunicare a gesti!
Fu così che agitò piano una mano più o
meno davanti al suo viso.
Niente.
Gli tirò un lembo della manica del kimono.
Niente.
Non poteva fare altro che tentare il tutto per tutto: si
sdraiò sul pavimento composto da tatami e strisciò fino a
sistemare la testa praticamente sulle gambe del ragazzino. Il quale, avendo lo
sguardo in parte abbassato per leggere il libro, si ritrovò –
involontariamente, ma questo Dino non poteva saperlo – a rivolgergli
un'occhiata. Piccola attenzione che fu più che sufficiente per far
incurvare le labbra del biondo in un sorriso felice e soddisfatto.
«Finalmente mi hai...»
«Smetti di disturbarmi.» commentò
laconico il moro lasciando la presa sul libro e facendolo cadere – seppur
non da chissà quale altezza – sul viso del biondo.
Il cui commento più sensato fu un: «Awww»
dolorante, mentre le mani venivano portate una a spostare il libro, l'altra a
massaggiare il naso – con fare esagerato dovuto più alla sorpresa
del gesto che altro, sì.
Non si perse comunque d'animo, fissando lo sguardo castano
sul moro e tendendogli una mano: «Piacere, io sono Dino Cavallone! Tu
come ti chiami?» chiese amichevole, rivolgendogli un sorriso
incoraggiante, probabilmente già dimentico della sua teoria sulla
sordità dell'altro.
Il più piccolo fissò la mano perplesso,
tornando poi al viso del più grande: «Hibari Kyoya.» disse
solamente, chinando appena la testa e tornando quindi al suo libro.
Dino non fece in tempo a rallegrarsene, che il moro si
richiuse in un silenzio assoluto che durò per tutto il resto del tempo
finché Romario non venne a recuperarlo per andare via. Lo seguì
dopo aver salutato Kyoya – la cui risposta era stato niente di più
di uno sguardo fugace a dire il vero – fino a raggiungere suo padre in
macchina per tornare all'albergo dove alloggiavano durante quel loro soggiorno.
Mogio per la mancata conversazione con il ragazzino che lo
aveva, a conti fatti, ignorato per la maggior parte del tempo ad eccezione di
quella breve presentazione, l'umore di Dino migliorò considerevolmente
quando venne a sapere che Hibari-san si sarebbe recato all'albergo dove stavano
per parlare nuovamente con suo padre. E che, su richiesta di quest'ultimo aveva
acconsentito di buon grado a portare i figli con sé.
Il giorno dopo sarebbe di certo riuscito a fare amicizia con
Kyoya!
Corrugò la fronte in un'espressione che, sul viso da
bambino, risultò più buffa che altro.
Romario soffocò un principio di risata divertita in
un incurvarsi di labbra semplice, osservando il ragazzino: «Siete
così impaziente?» lo prese, a conti fatti, bonariamente in giro
con fare quasi paterno, suscitando anche l'ilarità del Boss che doveva
aver notato la stessa cosa.
Dino annuì senza minimamente celare l'aspettativa che
aveva nell'attesa che Hibari-san e figli arrivassero a fargli visita come era
stato deciso il giorno precedente; seduto a gambe incrociate, le dita della
mano destra giochicchiavano con il calzino fissandolo come nascondesse una
verità mistica.
Il biondo quasi saltò su quando sentì
annunciare dall'altra parte dello shoji – erano in un albergo
tradizionale, quindi bussare sarebbe stato difficile – una visita; poco
dopo entrarono in sequenza Hibari-san e subito dietro di lui Kyoya. Dino
notò che l'altro figlio non era presente.
«Mia moglie insiste perché nostro figlio
maggiore riceva un'educazione tradizionale dove l'ha ricevuta lei. Saranno
quindi lontani per alcuni giorni. Ci scusiamo, e ho portato il nostro
secondogenito sperando che possa essere all'altezza del compito di tenere
compagnia a vostro figlio. Speriamo inoltre che questo non offenda né
voi, Cavallone-san, né Dino-kun.» pronunciò pacatamente il
giapponese.
Il Boss italiano annuì, e tradusse una parte del
discorso a Dino; se Hibari-san si era aspettato un acconsentire seccato dovette
ricredersi quando il biondo assunse un'espressione a dir poco entusiasta.
Biascicò un: «Grazie molte!» sinceramente
grato, muovendosi in avanti per poi allungare una mano verso Kyoya,
tendendogliela – nella speranza che l'accettasse, pronunciando poi un
«Kyoya, Kyoya, andiamo a giocare di là, vieni!»
Il moro non parve particolarmente convinto; sembrò
anzi spaesato, ma non si oppose – a Dino sfuggì la presa sulla
spalla dell'altro, debole ma significativo messaggio del padre – e lo
seguì.
Dino lo guidò nella stanza dove dormiva con il
genitore, divisa da quella in cui erano i due uomini, che era ora sgombra dai
futon essendo ancora pomeriggio.
Gli fece cenno di sedersi, facendolo lui per primo, sempre a
gambe incrociate differentemente dalla posizione corretta che assunse il
più piccolo.
«Cosa vuoi fare?» indagò Dino,
osservandolo in attesa: tutto quell'entusiasmo si doveva principalmente al
fatto che Kyoya era il primo bambino con cui interagiva in Giappone, dov'era
stato altrimenti circondato sempre da soli adulti.
«Quello che vuoi.» fu la risposta neutra di
Kyoya. Dino fu preso in contropiede dalle sue parole, ma non si perse d'animo:
«Non conosco i giochi giapponesi. Quali sono?» domandò
curioso. Forse, se avessero fatto dei giochi che il moro conosceva e in cui era
bravo, si sarebbe sentito più a suo agio!
Kyoya parve confuso dalla sua domanda, e aggrottò
appena le sopracciglia, come se fosse combattuto fra l'accettare la proposta o
rifiutare: suo padre però aveva detto molto chiaramente che quegli
ospiti erano importanti, e che era già stata una mancanza il non aver
fatto presenziare il fratello maggiore di Kyoya. In virtù di ciò
– aveva detto suo padre – era importante che Kyoya stesso facesse
del suo meglio per rimediare a quell'inconveniente senza contraddire il giovane
italiano.
Perciò, alla fine e con un broncio leggero, il moro
propose un gioco di carte abbastanza semplice; dopo quasi mezz'ora tuttavia
Kyoya borbottò qualcosa che, se l'avesse sentita sua padre dopo tutte le
raccomandazioni fatte, gli sarebbe costata una punizione.
All'ennesimo errore di Dino che sembrava dimenticare
metà delle regole ogni volta che era il suo turno – e sì
che Kyoya aveva impiegato ben dieci minuti a cercare di spiegargliele
con parole a lui comprensibili – si lasciò sfuggire uno sbuffo
seccato, accompagnato da un: «Ma sei stupido?» un po' brusco per la
verità.
Dino questo lo capì perfettamente, e fece
un'espressione buffissima a metà fra un broncio e un tentativo di
ribattere forse. Tentativo che si risolse in un orgogliosissimo: «Kyoya
sei cattivo.» bofonchiato fissandolo per qualche istante e tornando poi
alle carte, testardo.
Ad interromperli un'ora dopo – ora in cui Dino aveva
smesso di contare le sconfitte clamorose per amor proprio o un principio di
esso, probabilmente – fu Romario che rientrava nella loro stanza con un
vassoio: su di esso c'erano due tazze belle fumanti, dei piccoli recipienti che
contenevano quasi sicuramente zucchero e affini, e una più che generosa
porzione di biscotti per entrambi.
Dino alzò il viso, puntando il naso verso l'aria
proprio come un cagnolino e annusando. Dopo qualche istante, decretò un:
«Latte!» mentre Romario si chinava per poggiare il vassoio sul
tavolino vicino ai due ragazzini.
Il biondo si sporse verso la tazza per accertarsi di averne
indovinato il contenuto: del latte caldo era in entrambi i contenitori.
Avvicinò le mani alla parte superiore in ceramica, quella che scottava
meno ma che era piacevolmente calda.
«Aww, è caldo, Kyoya!» esclamò,
come a suggerire anche all'altro di fare lo stesso visto il freddo, nonostante
l'ambiente interno fosse chiaramente riscaldato. Ma il moro sembrava troppo
occupato a decodificare il liquido caldo che doveva fungere da merenda; lo vide
storcere il naso poco convinto e lo trovò terribilmente carino.
Forse – si disse Dino – Kyoya non aveva mai
preso del latte a merenda? Forse non si usava in Giappone? O magari...?
«...Non mi piacciono le cose che scottano.»
borbottò. Dino non poté trattenere un sorriso sincero e
intenerito: era come avere un fratellino più piccolo di cui prendersi
cura, e per lui era qualcosa di sconosciuto essendo figlio unico.
Lasciò la propria tazza, prendendo quella di Kyoya
fra le mani sotto lo sguardo perplesso dell'altro. La portò vicina alle
labbra, soffiando sul contenuto con attenzione, per raffreddarlo. Ripeté
l'operazione più volte, l'espressione sul volto del moro che si era
fatta sorpresa quando aveva compreso l'intento dell'altro. Quel biondo italiano
era strano; suo fratello certe cose non le faceva mai e lui, Kyoya, aspettava
semplicemente che si freddasse da solo.
«Ecco!» lo riportò alla realtà
Dino, porgendogli la tazza incoraggiante.
Kyoya la prese tra le mani, osservandola guardingo ancora
per qualche istante, per poi sorseggiarne un po' del contenuto finalmente. Dino
lo osservava con aspettativa, studiandone le espressione e si ritenne soddisfatto
anche solo dall'assenza di sguardi schifati o versi strani. Il moro
fissò qualche secondo il latte e infine spostò la propria
attenzione su Dino: «Buono.» borbottò impacciato –
così parve al biondo.
Il quale allungò una mano a prendere un biscotto
– rigorosamente al cioccolato, eh! - per avvicinarlo al viso dell'altro
in un innocente e palese tentativo di imboccarlo.
Kyoya fissò il biscotto come se da un momento
all'altro dovessero spuntargli gambe e braccia, ma la giusta temperatura del
latte doveva averlo convinto dell'affidabilità di Dino in qualche modo;
si sporse quindi in avanti, addentando il biscotto dalla mano del biondo,
ritirandosi indietro l'attimo dopo. Quando fu certo che il moro aveva finito
tutto il latte nella tazza – lui, Dino, era stato il primo a fare piazza
pulita della merenda – allungò nuovamente la mano, stavolta
direttamente verso Kyoya.
Arrivò quindi a posarla fra i capelli scuri, che
scompigliò appena con un: «Bravo Kyoya! Era buono, vero?»
articolò nel suo giapponese fin troppo buffo per un madrelingua, seppur
bambino. Ma Kyoya in quel momento era troppo occupato ad imbronciarsi in un
leggero ed infantile imbarazzo, per riprendere l'italiano o correggerlo.
Dino ci aveva pensato per un sacco di tempo: da quando Kyoya
e suo padre, il giorno prima, erano andati via e da quando la mattina si era
svegliato.
Quello sarebbe stato l'ultimo giorno in Giappone, dal
momento che l'indomani lui, suo padre e Romario sarebbero ripartiti; il Boss
dei Cavallone aveva quasi concluso gli accordi per i quali aveva viaggiato fin
lì, ed avrebbe concordato il tutto definitivamente quello stesso giorno.
Di conseguenza quella sarebbe stata l'ultima occasione di vedere e salutare
Kyoya, e neanche a dirlo il biondo si era impuntato sul lasciargli un ricordo
bellissimo che durasse fino a quando si sarebbre rivisti – cosa di cui
Dino era, ovviamente, convinto.
Aveva pensato e ripensato a cosa fare, alla
possibilità di regalargli qualcosa, o ad un gioco italiano da insegnare
al moro, ma non aveva ancora trovato la cosa giusta almeno fino a quando non si
era quasi fatta ora di andare nuovamente alla casa che li aveva ospitati due
giorni prima.
Durante il viaggio in macchina, era stato colto
dall'illuminazione; giunti a destinazione, appena Kyoya era rientrato nel suo
campo visivo lo aveva praticamente trascinato via – forse con un saluto
un po' frettoloso ad Hibari-san, ma non scortese nella sua spontaneità.
«Kyoya, Kyoya!» ne richiamò l'attenzione,
come se l'averlo trascinato in giardino non l'avesse attirata abbastanza di per
sé; il moro lo fissò dubbioso, ma Dino nell'entusiasmo del
momento non gli diede modo di fare domande: «Ho letto una cosa su un
libro, voglio provare a farla!» disse, anche se non fu di molto
più chiaro.
«...Cos'è?» domandò perplesso il
moro, non riuscendo ad immaginare cosa l'altro potesse aver pensato.
Dino, orgogliosamente, rispose: «Costruiamo una
capsula del tempo!» in un modo tale che, nel suo immaginario di bambino,
Kyoya lo figurò per una manciata di secondi come un cagnolino che stava
scodinzolando in attesa che il padrone gli lanciasse la palla per giocare. O un
biscottino.
«Una capsula del tempo?» fece eco, osservandolo
non troppo convinto.
«Sì! È una scatola, e dentro ci mettiamo
delle cose importanti. Poi la chiudiamo, e la apriamo di nuovo fa un po' di
tempo!» spiegò, mantenendo lo sguardo entusiasta sul più
piccolo. Questi, sebbene avesse capito di cosa si trattasse, sembrava perplesso
comunque: «E a che serve?» domandò, ma non nel senso
dell'utilizzo vero e proprio.
Sembrava più che non ne vedesse proprio la
necessità.
Fu forse l'unica risposta che avrebbe potuto calmare –
per non dire demolire – l'allegria del biondo che, spiazzato, si
ritrovò a mormorare un impacciato: «Uhm... ricordi...
credo.» nemmeno lui sicuro di quello che stava dicendo a quel punto, o
che potesse essere una cosa gradita.
Ridacchiò piano: Kyoya era un bambino silenzioso,
quindi forse cose come quella non gli piacevano. O magari non gli piaceva
proprio lui, Dino, che faceva sempre molto chiasso per cose di poca importanza
ai suoi occhi.
«Ma non fa nulla, possiamo anche fare altro.» si
affrettò quindi ad aggiungere.
Stava appunto già prendendo in considerazione cosa
avrebbero potuto fare, archiviando quella sua iniziale proposta, che si
sentì tirare la manica.
Abbassando appena lo sguardo incontrò l'espressione
incuriosita di Kyoya, i lineamenti incredibilmente rilassati rispetto alla sua
solita espressione – cosa che non aveva mai avuto modo di vedere nei
giorni precedenti.
«Voglio fare una capsula del tempo.»
asserì, sorprendendo non poco Dino.
Il biondo sorrise felice, forse capendo che Kyoya oltre che
per curiosità lo stava forse facendo dopo averlo visto abbattuto
all'idea di un rifiuto.
E come c'era forse da aspettarsi, Dino lo abbracciò:
«Grazie Kyoya!» esclamò allegro, scostandosi quasi subito.
«Hai una scatola?» chiese quindi, mettendosi al
lavoro per la costruzione della loro capsula. Kyoya annuì, guidandolo in
casa alla ricerca dell'oggetto. Trovatolo, lo porse al biondo: «Cosa ci
mettiamo?» chiese il più piccolo, osservando l'altro che a quella
domanda portò una mano in tasca a cercare qualcosa.
«Ho letto che va bene tutto. Vogliamo metterci dei
regali, Kyoya?» domandò a sua volta.
«Dei regali?» fece eco il moro, vedendosi
porgere dal biondo qualcosa di colorato che, ad un'occhiata più attenta,
si rivelò essere un cioccolatino, la carta lucida e di un colore arancio
brillante che lo avvolgeva.
«Te lo regalo.» asserì con un certo
orgoglio il biondo, aspettando che l'altro lo prendesse. Così fece
Kyoya, osservandolo.
Dopo qualche istante di silenzio si alzò, andando a
recuperare chissà cosa; quando tornò da Dino aveva carta e penna
in mano. Si poggiò sul primo ripiano disponibile per scrivere, sotto lo
sguardo incuriosito di Dino stavolta. Dopo poco gli porse il foglio, sul quale
il più grande vide degli ideogrammi di cui non avrebbe saputo dire il
significato. Fu Kyoya a chiarirglielo: «Quello è il tuo
nome.» spiegò semplicemente, sorprendendo per l'ennesima volta in
quella sola mattinata il biondo; il quale fu ancora più stupito di
scorgere un leggero rossore sul viso del moro.
Piegò il foglio con cura, e lo posò sul fondo
della piccola scatola, invitando poi Kyoya a fare lo stesso con il cioccolatino
– non prima di aver riscritto in piccolo il nome di Dino sulla carta, per
ricordo appunto.
Chiusero quindi la scatola con cura e cercarono un punto del
giardino di casa Hibari dove sotterrarla.
«E ora?» domandò Kyoya quando ebbero
finito.
«Tra dieci anni apriamola insieme!»
esclamò Dino allegro, allungando il mignolo verso Kyoya e prendendo
direttamente quello del moro con il proprio: «È una promessa,
eh?»
Aprì gli occhi lentamente, intontito, e la prima cosa
che vide – peraltro senza registrare mentalmente di cosa si trattasse
– furono dei capelli scuri.
Sbatté un paio di volte le palpebre, e avvertì
anche del calore piuttosto vicino, che identificò in un altro corpo
quando – abbassando appena il viso – riconobbe quello di Kyoya
placidamente addormentato.
La testa poggiata alla sua spalla, Kyoya dormiva stretto
nell'abbraccio del biondo, lo stesso in cui Dino lo aveva accolto dopo la loro
prima volta la sera prima, e dal
quale l'altro non sembrava essersi liberato per tutto il tempo in cui entrambi,
stanchi, avevano dormito.
Dino arrossì appena, registrando pienamente quanto
accaduto la notte passata; per quanto lo rendesse innegabilmente felice, non
poteva quasi crederci.
Kyoya adesso era suo, in un senso più intimo di una
qualsiasi cotta adolescenziale.
Lo fece sorridere il pensiero di quel sogno strano, di
qualcosa che doveva ammettere di aver rimosso e di non ricordare affatto.
Sempre ammesso che non fosse uno scherzo della sua mente; ma, se invece si
fosse trattato proprio di un ricordo, il primo incontro con Kyoya avrebbe
assunto un significato diverso, anche se importante tanto quanto l'averlo
incontrato su un tetto di una scuola media per renderlo semplicemente un
Guardiano più forte.
Azzardò a muovere ancora un poco la testa per poterlo
guardare bene senza rischiare di svegliarlo né sciogliere
quell'abbraccio in cui, forse, era lui a stare meglio fra i due; Kyoya non
permetteva mai – ok, quasi mai dati i recenti risvolti – a
nessuno di vedere un suo lato anche solo vagamente vulnerabile. Non debole,
perché di base di Hibari Kyoya avresti potuto dire qualsiasi cosa ma non
quello.
Non era lui il tipo che si lasciava abbracciare, che
rilassava i lineamenti a quel modo, che dava al proprio silenzio una
connotazione placida anziché omicida. Non era lui che dormiva accanto a
qualcuno senza preoccuparsi di fare attenzione persino nel sonno ai rumori che
lo circondavano – perché alla lunga Dino aveva capito che
sì, indubbiamente Kyoya aveva il sonno leggero, ma spesso fingeva di
svegliarsi a causa di un rumore per non permettere a nessuno di vederlo dormire.
Probabilmente, aveva poi capito dopo qualche tempo, la
considerava una dimostrazione di fiducia e al tempo stesso di quella
vulnerabilità alla quale non voleva essere associato.
Istintivamente strinse l'abbraccio: significava che si
fidava, almeno di lui, o semplicemente non lo reputava un pericolo?
«Mmhngh.» sentì mormorare e gli venne da
ridere, ma si trattenne al meglio: piuttosto osservò Kyoya che, in quel
momento, stava aprendo lentamente gli occhi svegliandosi – anche se aveva
ormai fatto sua la teoria secondo la quale, a dispetto di quanto avveniva
fisicamente, il moro non si svegliasse mentalmente mai prima di un'ora.
Abbondante.
Kyoya portò lo sguardo all'altezza di quello di Dino,
che per un breve istante pregò come prima cosa di essere riconosciuto:
sia mai che lo picchiava perché, troppo assonnato, non inquadrava di chi
si trattasse.
Il biondo sorrise, un incurvarsi di labbra dolce che senza
dubbio non rivolgeva ad altri che a Kyoya. Il moro non disse nulla, e Dino
decise che l'assenza di una tonfata nel letto era un buon segno; si sporse
leggermente in avanti, baciandogli scherzosamente la punta del naso:
«Buongiorno.» lo salutò, il tono un po' arrochito dal sonno.
Il moro non rispose, limitandosi ad osservarlo per una
manciata di secondi prima di sporgersi a sua volta, andando a strusciare
– ebbene sì, questo verbo poteva essere applicato anche ad Hibari
Kyoya a quanto pareva – contro il collo dell'altro, in un gesto quasi
infantile.
E Dino non poté astenersi da un: «Aww.»
mezzo sussurrato, al quale seguì uno stringersi dell'abbraccio,
addossandosi al moro quasi completamente.
«Sei appiccicoso.» borbottò Kyoya. Dino
arrossì – effettivamente erano crollati nel letto,
perciò...
«Scusami» pronunciò con tono colpevole:
«se vuoi vado a lavarmi e– »
Pugno, seppur leggero, nello stomaco.
«Ahi.» si lamentò, cercando con sguardo
interrogativo quello del moro, che però affondò maggiormente la
faccia sotto la coperta se possibile: «Cretino, intendevo che mi stai
troppo addosso.» borbottò.
Dino fu per qualche istante perplesso e solo dopo,
nonostante sapesse che non era consigliabile, si sciolse in una risata leggera
e divertita.
«Ma Kyoya, era fraintendibile.» lo prese
bonariamente in giro, quasi frastornato dalla felicità data dalla
situazione e da cosa li aveva portati ad essa. Il moro non gli diede risposta
per diverso tempo, tanto che Dino temette ad un certo punto che si fosse
addormentato di nuovo.
A smentirlo fu il moro, che mosse le gambe sfregandole
involontariamente contro le sue: «Hai freddo, Kyoya?»
domandò con premura, scostandosi appena da lui per cercarne una conferma
sul volto piuttosto che una verbale. Il moro scosse la testa, lasciando il
più grande perplesso; nel dubbio, tuttavia, Dino portò un braccio
a sistemare la coperta sopra di loro, specialmente su Kyoya, assicurandosi che
fosse ben coperto – non sapeva se l'altro fosse freddoloso o meno, ma nel
dubbio male non avrebbe potuto fargli.
Ripristinò quindi l'abbraccio, con espressione
stupidamente soddisfatta.
«Sai Kyoya» prese quindi la parola, senza
aspettare una qualsiasi risposta dell'altro che desse segno di aver sentito:
«credo di aver sognato un ricordo di quand'ero bambino.»
rivelò.
Kyoya non si mosse, né fece sospiri seccati, e Dino
lo prese per un via libera.
«Ho sognato di un viaggio che ho fatto in Giappone da
bambino insieme a mio padre. Ti ho incontrato – eri un bambino
carinissimo! - e abbiamo costruito insieme una capsula del tempo. Solo che non
riesco a ricordare in che punto del tuo giardino la sotterravamo nel sogno. Peccato,
perché se fosse vero sarebbe carino ritrovarla, non credi?» disse,
per poi tacere.
Kyoya alzò appena le spalle: «Se lo dici
tu.» fu il suo unico commento, ma il biondo era ormai troppo abituato per
sentirsi offeso da quell'atteggiamento che sembrava dare poca importanza alle
sue parole.
«Kyoya, mica sarai imbarazzato?» lo prese in
giro; l'altro alzò il viso in sua direzione – ahi ahi,
pensò Dino – rivolgendogli un sorrisetto strafottente e
avvicinandosi fino ad arrivare ad una distanza esigua dal viso dell'altro. Ne
sfiorò le labbra, pronunciando un «Ti piacerebbe.» a seguito
del quale morse il labbro inferiore.
Per vendetta, ovvio no?
Il rumore del getto d'acqua della doccia, data la vicinanza
del bagno – comunicante con la loro stanza – riempiva in parte il
silenzio che l'assenza di Dino aveva fatto calare lì dove stava Kyoya.
Raggomitolato in un modo tutto suo in quella benedetta
coperta che aveva lo stesso odore del biondo, lo sguardo verso il soffitto, non
pensava a nulla in particolare.
Mosse la testa per voltare il viso lateralmente, in modo che
nel suo campo visivo rientrasse un lato della stanza: parte dei vestiti erano
finiti a terra per ovvi motivi, ma la giacca che aveva tolto quando erano
rientrati era ben sistemata sullo schienale della sedia che stava in angolo.
Avrebbe decisamente dovuto tenere quell'idiota biondo
lontano dall'indumento; era improbabile che accadesse, ma non ci teneva affatto
che l'altro trovasse il suo porta documenti e vi trovasse una stupida carta
arancione con sopra un nome scritto storto e con calligrafia infantile.