Fictional Dream © 2006 (8 ottobre 2006)
I La:sadie’s-Dir en grey (Tooru “Kyo” Niimura - vocalist/Kaoru
Niikura - prima chitarra e leader/Daisuke “Die” Andou - seconda chitarra e
chorus/Toshimasa “Toshiya” Hara - Basso [nei La:sadie’s, Kisaki]/Shinya Terachi
- batteria e percussioni) sono uno dei più famosi gruppi di musica hard rock/visual-kei
giapponese.L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna relazione di
tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
*****
Esistono luoghi in cui le stagioni non hanno
senso, perché ovunque volgerai lo sguardo non ne troverai che una. Così Toshiya,
che viene dal freddo e dalla neve di Nagano, non vi dirà mai che è nato all’alba
di una nuova primavera, perché quella promessa di rinascita per lui non ha
senso. C’era la neve anche quel giorno, come ce n’è sempre stata nei suoi
ricordi; probabilmente è questo che gli ha insegnato a essere tanto tiepido e
vulnerabile ai sentimenti dell’altro.
Un bisogno di compensazione di un segno opposto al mio.
Dove sono nato, nei fatti, è la stagione del gelo a non
esistere, o a presentarsi come un accidente occasionale, quasi imprevedibile.
Una porta opposta al Kanto, per una dimensione che odora di arance, di mare e di
sole. Anche se sono nato in inverno, dunque, non vi dirò che è così, perché di
quell’inverno non mi sono neppure accorto.
Nessun giapponese vi dirà che Osaka è una bella città, perché
non è vero. Non è bella una città portuale, fatta di brutte facce e di angiporti
e di una parlata sbracata e larga, da guappi di periferia, ma Osaka non è
neppure solo questo. Se nasci nella parte giusta del mondo, in fin dei conti,
non c’è mai niente di troppo brutto o troppo squallido perché tu possa
lamentartene. Dunque non posso farlo neppure io.
I miei genitori sono ricchi. La mia vita è sempre stata ben
illuminata, anche lontano dai riflettori, e poi Osaka è la mia città, e come
tutto quello cui posso premettere un possessivo sapendo che nessuno potrà
togliermene il diritto, ho il dovere di averne cura.
Sono nato a Osaka che gli anni Settanta erano di fatto già
finiti. Delle tensioni politiche del passato, delle contestazioni degli studenti
e di qualunque altro ideale autentico avesse influenzato i ragazzi di appena un
decennio prima, non avrei mai saputo niente, e neppure mi interessava. Non
sapevo nemmeno che a mia volta avrei assistito a una rivoluzione e ne avrei
fatto parte, perché non sono mai stato il tipo da interessarsi a quello che si
svolgeva oltre le definite pareti dell’ego.
Sarebbe facile dire che tutto nasca dal fatto che non ho
avuto né fratelli, né sorelle, dunque quella strana solitudine in cui mi piace
vivere non è che il prodotto di una viziata unicità, ma sarebbe poco. Troppo
poco.
La verità è che una volta gli altri mi piacevano abbastanza,
poi, da un giorno all’altro, mi sono pure venuti a noia, e me ne sono liberato
senza pensare di poter tornare indietro.
Lo pensavo, però, ed è una presunzione pericolosa, un po’
come credere che tutti quelli di Osaka debbano essere per forza gli amici del
mondo intero e parlare come yakuza o dare confidenza a chiunque. Non è così che
vanno le cose.
La mia vita, in un certo senso, anzi, cambiò proprio perché
incontrai qualcuno che, senza assomigliarmi per niente, per certi versi la
pensava come me.
All’epoca frequentavo ancora il liceo. Ero abituato a
starmene per conto mio, in una torre d’avorio in cui non osava entrare davvero
nessuno. Ero più alto della media e molto più sottile. Qualche volta mi
scambiavano per una ragazza. Anche quando l’equivoco pareva chiarito, in ogni
caso, non mancavano di fissarmi in modo strano, o lasciare bigliettini nel mio
armadietto – bigliettini che stracciavo e buttavo via senza darmi neppure la
pena di leggerli. Non ero interessato né ai ragazzi né alle ragazze, eppure ero
innamorato ugualmente. Penso di poterlo dire, perché un sentimento così forte e
quasi doloroso non l’ho più provato per nessun altro – se non per Miyu, ma Miyu
è qualcosa di molto diverso.
Non era la follia di una fangirl e neppure un desiderio
contorto e malato per qualcosa che, a guardarlo da fuori, forse aveva persino
quelle sfumature. Per me non era né un uomo né una donna: Yoshiki era proprio
come Dio. La sua bellezza, la sua forza, il modo unico con cui riusciva a filare
l’intera architettura sonora di pezzi epocali contava per me più di quanto non
potesse esserlo un bacio vero o un abbraccio. Gli altri non potevano darmi
emozioni che somigliassero a quanto provavo guardandolo o ascoltandolo: la
dimostrazione totale e profonda esistesse una matrice originale della musica e
che fosse possibile estrarla con caparbietà e violenza e determinazione. Era
femmineo ed esile come me, ma suonava lo strumento più duro di tutti; fu così
che chiesi ai miei genitori la prima batteria e l’ottenni come avevo ottenuto un
qualunque giocattolo. Questa volta facevo sul serio, però. L’unico modo perché
si accorgesse di me era che suonassi tanto forte da raggiungere le sue orecchie.
A quel punto proprio non avrei saputo immaginare altro, poteva anche darsi che
morissi di felicità. Non mi sembrava importante.
Era la metà degli anni Novanta. Osaka era diventata una città
famosa per le sue indie, che diventavano major in un niente e sfioravano il
milione di copie vendute. A me non importava, come non m’importava di nulla che
fosse diverso dal mio unico obiettivo: diventare come Yoshiki. O meglio di
Yoshiki.
Dicevano che fosse incredibile la forza con cui ci davo
dentro, se a vedermi nessuno mi avrebbe dato un briciolo di fiducia. Il problema
degli adolescenti o dei ragazzi – erano quasi sempre tutti più vecchi di me –
con cui suonavo, era che non credevano sul serio in quel che facevano. La musica
serviva al più per rimorchiare, o vedere se non capitava per sbaglio di
diventare famosi. Non c’era nessuno avesse un sogno come il mio o appena simile:
essere ascoltati persino da Dio.
Per questo, anche se cominciavo a farmi un nome e suonavo con
un mucchio di gruppi diversi, non c’era nessuna di quelle band sentissi davvero
mia. Erano un passo e poi un altro passo e un passo ancora verso una specie di
perfezione da raggiungere e poco importava se Yoshiki aveva lasciato il Giappone
per l’America: l’avrei costretto a tornare, prima o poi. L’avrei costretto a
realizzare che non era rimasto solo, ma che qualcuno l’avrebbe sempre ricordato
come in quell’ultimo clamoroso concerto su cui aveva pianto il Giappone. E anche
io – di tristezza e tradimento e angoscia, ma anche gioia, perché quel vuoto che
si era aperto si sarebbe riempito, prima o poi.
E sarei stato proprio io a farlo.
Quel pomeriggio, a dirla tutta, avrei dovuto frequentare un
corso di recupero per i miei disastrosi voti in inglese, ma era un autunno dai
colori brillanti e talmente belli contro un cielo dall’azzurro irreale, che non
avevo affatto voglia di chiudermi in uno stanzino triste, pieno di ragazzini che
puzzavano di noia e fumo di qualche sigaretta proibita. Portavo i capelli
lunghi, ma ero tanto tranquillo e riservato che nessuno dei professori si
lagnava davvero (all’inizio ci avevano provato però, perché i capelloni non
erano tollerati. All’inizio. Poi avevano capito che non sarei tornato indietro.
Per diventare come Yoshiki dovevo sentirmi come lui. Fino all’ultimo pezzo),
perché riuscivo anche a rendermi invisibile e irraggiungibile, pensando che in
fondo quello non era lo sfondo giusto per la storia che stavo scrivendo.
Portavo i capelli lunghi, avevo lineamenti più minuti ed
eleganti di quelli di molte ragazze, involgarite dal trucco pesante o dal
fondotinta scuro, ma avevo un dan di Kung-fu abbastanza alto per difendermi se
qualcuno avesse pensato di darmi troppo fastidio.
I pochi amici che avevo pensavano che fossi un indovinello
senza risposta. Per mio conto pensavo che nessuno di loro avesse un modello
abbastanza speciale da realizzare quanto fossero mediocri.
Ecco, a togliermi l’aria era proprio l’infernale piattume in
cui galleggiavo, tra coetanei che scimmiottavano questo e quello, ma al dunque
non avevano il coraggio di essere altro che bulli da quattro soldi o carne per
quegli stessi teppisti.
Dunque era autunno; l’aria aveva quel tepore stanco che
faceva già pensare alle piogge, ma rassicurava senza estenuarti. Non avevo
un’idea precisa in merito a quel che avrei potuto fare per passare un po’ di
tempo, ma una meta sicura c’era sempre. L’Asashi music era diventato quasi
infrequentabile, da che Ogawa, il commesso più strano di tutti – un capellone
rompipalle con due occhiali che sembravano fondi di bottiglia – era diventato
tetsu dei Laruku. Dava da pensare come cambiassero gli apprezzamenti tra il
prima e il dopo; non mi risultava che avessi mai sentito dire da nessuno che
Tetsuya fosse bellissimo, quando invece lo store era ora invaso da fangirl di
qualunque specie. Era pur vero che speravano di trovarci quel nanerottolo del
cantante – che non avrebbe stonato tra le Morning Musume – ma era abbastanza
irritante lo stesso. Che i Dead End fossero il simbolo di Osaka mi stava pure
bene, ma quel gruppo con un nome impronunciabile... Mio Dio! E nessuno, intanto,
si ricordava più degli X-Japan.
Borbottavo tra me quelle considerazioni, quando una voce si
sovrappose alla mia per darmi ragione. Era un timbro molto pieno e molto
modulato, che nelle inflessioni ricordava la parlata di Osaka, sebbene
possedesse le sfumature più educate della gente di Kyoto, il vero cuore della
tradizione. Già all’epoca sfoggiava l’hair-style spericolato di chi non si cerca
negli stereotipi e nelle mode, e una quantità di piercing che mi rendeva
solidale con la sua povera carne.
Anche se dovevo cercarlo molto più in basso del mio solito
punto di fuga, la sua aura era immensa. Davvero. Forse perché ero solo un
ragazzino impressionabile – eppure anche Kyo era ancora minorenne, a ben vedere.
Un minorenne ch’era scappato di casa, che aveva fatto un provino con gli X-Japan
e suonava con Kiyoharu, però – ma mi venne spontaneo chiedermi se per caso non
fosse qualcuno già famoso, qualcuno che militava magari con qualche indie
fotografata da Vicious.
Senz’altro non aveva nulla a che vedere con gli adolescenti
che frequentavo e la cui anima anticonformista si limitava al rubare i vestiti
delle sorelle per suonare. Era un tipo davvero speciale, ma nell’accezione
migliore del mondo. Qualcuno che riusciva a calamitare su di sé uno sguardo
particolare.
“Bandscores degli X. Almeno qualcuno ha un po’ di gusto da
queste parti,” disse con un tono monocorde, ma abbastanza consistente da
raccogliere la disapprovazione di un paio di cretine che volevano sapere se era
vero che tetsu fosse nascosto nel seminterrato del locale – al suo posto, quale
fosse la verità, io l’avrei fatto. Prima che riuscissi a rendermene conto – il
che giustifica che la conversazione fosse durata più di un paio di minuti – mi
ritrovai a discutere dei miei gusti e dei miei obiettivi musicali con uno
sconosciuto dall’aria inquietante, che annuiva di quando in quando, salvo
interrompersi all’improvviso per giocherellare con la ferraglia che gli
seviziava i lobi o grattarsi quei capelli disastrati. Per proprio conto si era
trascinato fin lì – aveva detto proprio così: trascinato – perché doveva
cambiare le corde della propria chitarra e non c’era un altro cazzo di buco –
sempre a citarlo in modo testuale – non le avesse terminate.
“Fai il chitarrista?” gli chiesi. Kyo – così mi disse di
chiamarsi. Potrei dire di aver scoperto il suo nome di battesimo solo quando
firmammo il nostro primo contratto – si concesse qualche secondo per rispondere
e, a ben vedere, replicò a modo suo, con la verità e un enigma al contempo.
“Dipende. Per ora sì.” Per ora sì. Se non mi avesse
intimidito un po’ quel suo aspetto tutt’altro che rassicurante, forse avrei
dovuto porgli qualche domanda in più. Qualcosa come ‘Che vuol dire dipende?
Perché per ora?’ ma era assurda tutta la meccanica della conversazione; un
po’ troppo per arroccarsi su questioni di principio, posto poi che non mi
interessavano in modo particolare. Ognuno era libero di sognare come voleva,
insomma. Per altro, poi, fu lo stesso Kyo a chiarire e a chiarirmi la
situazione: faceva il roadie per i Kuroyume, all’occorrenza, cioè, supportava la
band di Kiyoharu. A quel punto avrei dovuto portargli rispetto anche se fosse
stato un kohai, per quanto pure l’espressione più adulta del suo sguardo mi
dicesse ch’era poco probabile.
Davanti a me c’era qualcuno che aveva davvero esperienza,
gusti e obiettivi finalmente simili a quelli che mi sforzavo di raggiungere.
L’aura intensa e speciale di chi non si sarebbe accontentato di mordere solo le
briciole della torta, ma l’avrebbe inghiottita intera e nulla di meno. Mi annotò
il proprio numero di telefono su un brandello di quello che aveva tutta l’aria
d’esser stato qualche secolo prima il menu di un’okonomiyakiya e me lo porse
senza troppe cerimonie. Davanti al mio sguardo disorientato, ma eloquente,
spiegò in poche parole, come se si trattasse di qualcosa di scontato.
“Mi sembri un tipo sveglio. Magari posso rimediarti i
biglietti per qualche concerto.”
Ringraziai un po’ confuso, senza sapere bene come
comportarmi. Senz’altro non avrei mai detto che quella fosse una gentilezza
convenzionale, ma non v’era proprio nulla in lui che meritasse un simile
apprezzamento. A riceverlo, poi, posso anche supporre che l’avrebbe preso come
un’offesa o qualcosa del genere.
Tornai a casa stringendo un pugno di spartiti che neppure
avevo pensato fosse meglio occultare, e con un’aria tanto perplessa da suscitare
la curiosità della donna delle pulizie. Per fortuna i miei non erano ancora
rincasati, sicché non avrei dovuto preoccuparmi poi troppo delle conseguenze di
una guardia insolitamente bassa. A giustificare l’assenza di quel pomeriggio
avrei pensato in un secondo tempo. Il mio istinto mi diceva ci fosse qualcosa
nell’aria, qualcosa di grave e importante e forse persino bello. Qualcosa, però,
che viveva ancora a uno stato embrionale e non si lasciava leggere per quel che
sarebbe diventato.
Una farfalla. Uno scorpione. Un po’ d’aria.
Non pensai mai, in ogni caso, di sollevare il telefono e
provare a contattare uno sconosciuto attraente ed eccentrico come un pesce
tropicale. Era qualcuno che mi avrebbe per certo traghettato nel futuro, ma non
volevo forzare la manovra. Se doveva capitare qualcosa, insomma, sarebbe
successo, prima o poi. Yoshiki non aveva agito proprio così, ma sospetto che i
miei genitori non mi avrebbero assecondato, se avessi chiesto loro di
alleggerirsi un po’ il conto in banca per fare di me una rockstar. Quale fosse
la verità, in ogni caso, non avevo la minima intenzione di abbandonare la scena
underground di Osaka, perché era l’unico luogo in cui avrei potuto trovare la
corrente giusta per diventare qualcuno; soprattutto partecipavo ad audizioni su
audizioni. Non avevo ancora diciotto anni, ma credenziali significative.
Alla prima occhiata pensavano che fossi solo visual e un
arredo scenico di prestigio, poi mi sedevo ai piatti e li costringevo ad
ascoltare e a vedere tutto il resto, senza scompormi mai, senza un sorriso di
troppo, né quelle frasi fatte di sfida e ripicca buone per un manga, ma inutili
nella vita vera. Là contava solo chi pestava più forte. Più a lungo. Con più
tecnica. Contavo io e nient’altro.
A sedici anni suonavo con i Siva. Scherzando, c’era chi mi
chiamava ‘la signora in nero’, per gli abiti lugubri che andavano allora
e l’inevitabile cono d’ombra in cui finivi infognato in quelle live-house da due
soldi. A una delle nostre serate assistette anche Kyo. Fu così che lo rividi e
la marcia per le stelle cominciò davvero.
Ancora prima che ci dessimo allo sperimentalismo cromatico
sui miei capelli – sarebbe accaduto un anno più tardi, quando già militavo nella
formazione che avrebbe deciso di tutto il mio futuro – diventammo amici in
un’accezione che potrei davvero chiamare tale , qualcosa di diverso senz’altro
dall’indifferenza con cui guardavo tutto e tutti. Del resto, se frequenti gli
stessi posti, se ti piace la stessa musica e finisci con il gingillarti pure
sempre con le stesse persone, è inevitabile che capiti qualcosa del genere.
Di Kyo amavo quella sua intelligenza profonda, per quanto
pure obliqua, quel suo modo di non essere mai scontato né banale, persino
l’impossibilità di prevedere di quale colore avrebbe avuto i capelli il giorno
dopo. Mi piaceva soprattutto il fatto che fosse uno che sapeva anche stare per
contro proprio, senza toglierti l’ossigeno, né confondere l’amicizia con una
specie di simbiosi. Riuscivo a condividere qualcosa senza sentirmi soffocare. Ci
riuscivo perché ero determinato e perché accanto avevo qualcuno che valeva
altrettanto e si muoveva accanto a me, nella stessa direzione, ma con un suo
stile.
Kyo sapeva suonare tanto il basso che la chitarra, ma aveva
soprattutto una voce eccezionale. L’aveva educata facendo l’imitazione del ‘capo’,
come chiamava a volte Mori, per quanto lo rispettasse quasi quanto il
sottoscritto rispettava Yoshiki. A tratti sembrava il solo a non realizzare
quanto terribile e potente fosse il suo dono. A scuola era un disastro, come
scoprii da una di quelle confessioni di passaggio che sono tanto più vere quanto
meno intenzionali, a casa ancora peggio e non poteva senz’altro dire di aver
ricevuto un’istruzione canonica, se a quindici anni si era messo a suonare per
vivere; eppure quel che scriveva e come lo scriveva suggeriva tutt’altro. Era
difficile dire se fossero poesie – e dunque cercassero un altro modo per
dipingere qualcosa che già esisteva – oppure visioni, buone a creare qualcosa
che solo lui poteva vedere, ma erano sempre composizioni piene di una potenza
che non avevo mai trovato né sui libri di scuola, né in molta della musica che
pure apprezzavo. Mi venne naturale pensare di poter fare accanto a lui una parte
di quel cammino, perché era pure grazie alla sua presenza che avevo rinnovato il
mio già solido entusiasmo verso un mondo di luci e note. Quando mi propose di
presentarci insieme ai provini per gli Haijin Kurobara Zoku, dunque, non mi posi
neppure il problema se fosse o meno una buona idea, ma lo feci e basta.
Per quanto poco mi convincesse il gruppo, bastava il fatto
che ci fosse lui, con il suo carisma e la sua determinazione, a dirmi che quella
era la direzione giusta. Dovevo fidarmi della corrente – quanto al resto,
restavo quello di sempre, e non mi affidavo mai del tutto a nessuno. Anche con
Kyo non posso dire che si fosse istaurato un qualunque rapporto di confidenza,
perché per primo evitava di lasciarsi coinvolgere dagli altri. Quando ho
realizzato che avesse però derogato alla regola per Toshimasa, confesso
d’esserci rimasto un po’ male. È stato quasi, in un certo senso, mi fossi
sentito tradito, perché c’ero da prima, ma non avevo mai goduto di certi
privilegi; poi, però, mi sono anche detto che Toshiya era il primo a sforzarsi
di farsi conoscere e conoscere davvero gli altri, mentre per mia parte – come
per quella telefonata che non avevo mai fatto – aspettavo sempre con la mano
tesa, dietro le solide pareti di una torre d’avorio.
Persino quando l’offerta d’amicizia è arrivata, senza schermi
e senza condizioni, mi sono rifiutato di vederla e d’accoglierla. Forse c’è nel
mio passato qualcosa che devo espiare o non ho il coraggio di chiamare per nome.
Forse sono un codardo che ha paura di ottenere, perché sa pure di non essere un
buon perdente.
Lo realizzai quando alla signora in nero si accostò un
diavolo rosso, ch’era caldo come il fuoco delle sue corde, ma non abbastanza,
forse, da resistere alla mia neve. A ben vedere può anche darsi che sia vero che
sono nato in inverno e che quel freddo mai espresso nella terra di sole in cui
sono nato sia diventato poi il mio.
Tutto accadde quando si chiuse la parentesi con gli Haijin.
Avevo diciassette anni e i miei genitori non mi davano tregua, perché pensassi
soprattutto a diplomarmi con voti decorosi, anziché tirar tardi la notte per
frequentare individui poco raccomandabili. Non so se mi avessero mai visto con
Kyo, ma di sicuro non era qualcuno che li avrebbe dissuasi da un’opinione
frettolosa, eppure condivisibile. Per certi versi, dunque, una pausa era quel
che mi serviva, per quanto pure non sia durata che qualche mese: abbastanza da
farmi chiudere la parentesi scolastica con un atto di ribellione di quelli che
un genitore non dimentica.
Kyo e io ne parlavamo dalla sera del mio compleanno, ma solo
a esami finiti presi davvero il coraggio a due mani e gli dissi: “D’accordo. Ora
sono pronto.”
Ci chiudemmo in bagno con due flaconi dall’odore orribile e
dalla consistenza ch’era quasi peggio. Se non avessi avuto ancora il cuore pieno
della memoria rassicurante dei boccoli d’oro di Yoshiki, in ogni caso, mi sarei
probabilmente dato alla fuga.
Cosa sarebbe stato dei miei poveri capelli?
“Sei sicuro che funziona?” gli chiesi titubante, mentre Kyo,
la cui ultima preoccupazione era decidere se forarsi ancora le orecchie, anziché
le labbra o il naso, indossava guanti sterili e mascherina per proteggersi
dall’acido. Mi rispose con un grugnito dei suoi, prima di cacciarmi con forza la
testa sotto il getto d’acqua fredda del lavandino; soprattutto, senza darmi
neppure la possibilità di dare un ultimo sguardo al bel nero dei miei capelli
prima che assumessero chissà quale sfumatura vergognosa.
Divenni di un castano ramato, tendente al biondo, forse solo
per la generosa intercessione di Yoshiki – che non mancai mai di invocare in un
silenzioso rosario – mentre Kyo sforbiciava qua e là le punte per rendere il
tutto il più artistico possibile.
“Ecco. Ora hai l’aspetto che ci vuole a fare la rockstar,”
considerò con la soddisfazione dell’artista, prima di uscire dalla finestra come
faceva di solito.
Forse aveva ragione, perché la reazione dei miei genitori fu
estremamente eloquente.
“Shin-chan! Ma cosa hai fatto!” urlò mia madre – che pure, di
quando in quando, mi dava lezioni di make-up, prima di correre a piangere in
camera. Qualche mese più tardi, Kisaki, il bassista del vecchio gruppo, decise
di chiamare ancora una volta Kyo e il sottoscritto alle armi, per un gruppo
indie destinato a lasciare il segno – soprattutto nella mia storia.
I La:sadie’s.
Non era solo, però. C’era anche un suo amico.
Rosso.