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Autore: Callie_Stephanides    05/12/2010    0 recensioni
Una storia di amicizia, una storia di crescita, una storia di incomprensioni, una storia di speranza.
Sullo sfondo, il ferroso mare di Osaka.
[...] Avremmo potuto essere una bella coppia?
La verità è che i sentimenti somigliano spesso a una roulette, e solo il croupier sa dove finirà la sfera, oppure lo ignora anche lui, ma finge perché il gioco continui.
Sul rosso e sul nero [...]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Die, Shinya, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Fictional Dream © 2006 (8 ottobre 2006)
I La:sadie’s-Dir en grey (Tooru “Kyo” Niimura - vocalist/Kaoru Niikura - prima chitarra e leader/Daisuke “Die” Andou - seconda chitarra e chorus/Toshimasa “Toshiya” Hara - Basso [nei La:sadie’s, Kisaki]/Shinya Terachi - batteria e percussioni) sono uno dei più famosi gruppi di musica hard rock/visual-kei giapponese.L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.

*****

Esistono luoghi in cui le stagioni non hanno senso, perché ovunque volgerai lo sguardo non ne troverai che una. Così Toshiya, che viene dal freddo e dalla neve di Nagano, non vi dirà mai che è nato all’alba di una nuova primavera, perché quella promessa di rinascita per lui non ha senso. C’era la neve anche quel giorno, come ce n’è sempre stata nei suoi ricordi; probabilmente è questo che gli ha insegnato a essere tanto tiepido e vulnerabile ai sentimenti dell’altro.
Un bisogno di compensazione di un segno opposto al mio.
Dove sono nato, nei fatti, è la stagione del gelo a non esistere, o a presentarsi come un accidente occasionale, quasi imprevedibile. Una porta opposta al Kanto, per una dimensione che odora di arance, di mare e di sole. Anche se sono nato in inverno, dunque, non vi dirò che è così, perché di quell’inverno non mi sono neppure accorto.
Nessun giapponese vi dirà che Osaka è una bella città, perché non è vero. Non è bella una città portuale, fatta di brutte facce e di angiporti e di una parlata sbracata e larga, da guappi di periferia, ma Osaka non è neppure solo questo. Se nasci nella parte giusta del mondo, in fin dei conti, non c’è mai niente di troppo brutto o troppo squallido perché tu possa lamentartene. Dunque non posso farlo neppure io.
I miei genitori sono ricchi. La mia vita è sempre stata ben illuminata, anche lontano dai riflettori, e poi Osaka è la mia città, e come tutto quello cui posso premettere un possessivo sapendo che nessuno potrà togliermene il diritto, ho il dovere di averne cura.
Sono nato a Osaka che gli anni Settanta erano di fatto già finiti. Delle tensioni politiche del passato, delle contestazioni degli studenti e di qualunque altro ideale autentico avesse influenzato i ragazzi di appena un decennio prima, non avrei mai saputo niente, e neppure mi interessava. Non sapevo nemmeno che a mia volta avrei assistito a una rivoluzione e ne avrei fatto parte, perché non sono mai stato il tipo da interessarsi a quello che si svolgeva oltre le definite pareti dell’ego.
Sarebbe facile dire che tutto nasca dal fatto che non ho avuto né fratelli, né sorelle, dunque quella strana solitudine in cui mi piace vivere non è che il prodotto di una viziata unicità, ma sarebbe poco. Troppo poco.
La verità è che una volta gli altri mi piacevano abbastanza, poi, da un giorno all’altro, mi sono pure venuti a noia, e me ne sono liberato senza pensare di poter tornare indietro.
Lo pensavo, però, ed è una presunzione pericolosa, un po’ come credere che tutti quelli di Osaka debbano essere per forza gli amici del mondo intero e parlare come yakuza o dare confidenza a chiunque. Non è così che vanno le cose.
La mia vita, in un certo senso, anzi, cambiò proprio perché incontrai qualcuno che, senza assomigliarmi per niente, per certi versi la pensava come me.
All’epoca frequentavo ancora il liceo. Ero abituato a starmene per conto mio, in una torre d’avorio in cui non osava entrare davvero nessuno. Ero più alto della media e molto più sottile. Qualche volta mi scambiavano per una ragazza. Anche quando l’equivoco pareva chiarito, in ogni caso, non mancavano di fissarmi in modo strano, o lasciare bigliettini nel mio armadietto – bigliettini che stracciavo e buttavo via senza darmi neppure la pena di leggerli. Non ero interessato né ai ragazzi né alle ragazze, eppure ero innamorato ugualmente. Penso di poterlo dire, perché un sentimento così forte e quasi doloroso non l’ho più provato per nessun altro – se non per Miyu, ma Miyu è qualcosa di molto diverso.
Non era la follia di una fangirl e neppure un desiderio contorto e malato per qualcosa che, a guardarlo da fuori, forse aveva persino quelle sfumature. Per me non era né un uomo né una donna: Yoshiki era proprio come Dio. La sua bellezza, la sua forza, il modo unico con cui riusciva a filare l’intera architettura sonora di pezzi epocali contava per me più di quanto non potesse esserlo un bacio vero o un abbraccio. Gli altri non potevano darmi emozioni che somigliassero a quanto provavo guardandolo o ascoltandolo: la dimostrazione totale e profonda esistesse una matrice originale della musica e che fosse possibile estrarla con caparbietà e violenza e determinazione. Era femmineo ed esile come me, ma suonava lo strumento più duro di tutti; fu così che chiesi ai miei genitori la prima batteria e l’ottenni come avevo ottenuto un qualunque giocattolo. Questa volta facevo sul serio, però. L’unico modo perché si accorgesse di me era che suonassi tanto forte da raggiungere le sue orecchie. A quel punto proprio non avrei saputo immaginare altro, poteva anche darsi che morissi di felicità. Non mi sembrava importante.
Era la metà degli anni Novanta. Osaka era diventata una città famosa per le sue indie, che diventavano major in un niente e sfioravano il milione di copie vendute. A me non importava, come non m’importava di nulla che fosse diverso dal mio unico obiettivo: diventare come Yoshiki. O meglio di Yoshiki.
Dicevano che fosse incredibile la forza con cui ci davo dentro, se a vedermi nessuno mi avrebbe dato un briciolo di fiducia. Il problema degli adolescenti o dei ragazzi – erano quasi sempre tutti più vecchi di me – con cui suonavo, era che non credevano sul serio in quel che facevano. La musica serviva al più per rimorchiare, o vedere se non capitava per sbaglio di diventare famosi. Non c’era nessuno avesse un sogno come il mio o appena simile: essere ascoltati persino da Dio.
Per questo, anche se cominciavo a farmi un nome e suonavo con un mucchio di gruppi diversi, non c’era nessuna di quelle band sentissi davvero mia. Erano un passo e poi un altro passo e un passo ancora verso una specie di perfezione da raggiungere e poco importava se Yoshiki aveva lasciato il Giappone per l’America: l’avrei costretto a tornare, prima o poi. L’avrei costretto a realizzare che non era rimasto solo, ma che qualcuno l’avrebbe sempre ricordato come in quell’ultimo clamoroso concerto su cui aveva pianto il Giappone. E anche io – di tristezza e tradimento e angoscia, ma anche gioia, perché quel vuoto che si era aperto si sarebbe riempito, prima o poi.
E sarei stato proprio io a farlo.
Quel pomeriggio, a dirla tutta, avrei dovuto frequentare un corso di recupero per i miei disastrosi voti in inglese, ma era un autunno dai colori brillanti e talmente belli contro un cielo dall’azzurro irreale, che non avevo affatto voglia di chiudermi in uno stanzino triste, pieno di ragazzini che puzzavano di noia e fumo di qualche sigaretta proibita. Portavo i capelli lunghi, ma ero tanto tranquillo e riservato che nessuno dei professori si lagnava davvero (all’inizio ci avevano provato però, perché i capelloni non erano tollerati. All’inizio. Poi avevano capito che non sarei tornato indietro. Per diventare come Yoshiki dovevo sentirmi come lui. Fino all’ultimo pezzo), perché riuscivo anche a rendermi invisibile e irraggiungibile, pensando che in fondo quello non era lo sfondo giusto per la storia che stavo scrivendo.
Portavo i capelli lunghi, avevo lineamenti più minuti ed eleganti di quelli di molte ragazze, involgarite dal trucco pesante o dal fondotinta scuro, ma avevo un dan di Kung-fu abbastanza alto per difendermi se qualcuno avesse pensato di darmi troppo fastidio.
I pochi amici che avevo pensavano che fossi un indovinello senza risposta. Per mio conto pensavo che nessuno di loro avesse un modello abbastanza speciale da realizzare quanto fossero mediocri.
Ecco, a togliermi l’aria era proprio l’infernale piattume in cui galleggiavo, tra coetanei che scimmiottavano questo e quello, ma al dunque non avevano il coraggio di essere altro che bulli da quattro soldi o carne per quegli stessi teppisti.
Dunque era autunno; l’aria aveva quel tepore stanco che faceva già pensare alle piogge, ma rassicurava senza estenuarti. Non avevo un’idea precisa in merito a quel che avrei potuto fare per passare un po’ di tempo, ma una meta sicura c’era sempre. L’Asashi music era diventato quasi infrequentabile, da che Ogawa, il commesso più strano di tutti – un capellone rompipalle con due occhiali che sembravano fondi di bottiglia – era diventato tetsu dei Laruku. Dava da pensare come cambiassero gli apprezzamenti tra il prima e il dopo; non mi risultava che avessi mai sentito dire da nessuno che Tetsuya fosse bellissimo, quando invece lo store era ora invaso da fangirl di qualunque specie. Era pur vero che speravano di trovarci quel nanerottolo del cantante – che non avrebbe stonato tra le Morning Musume – ma era abbastanza irritante lo stesso. Che i Dead End fossero il simbolo di Osaka mi stava pure bene, ma quel gruppo con un nome impronunciabile... Mio Dio! E nessuno, intanto, si ricordava più degli X-Japan.
Borbottavo tra me quelle considerazioni, quando una voce si sovrappose alla mia per darmi ragione. Era un timbro molto pieno e molto modulato, che nelle inflessioni ricordava la parlata di Osaka, sebbene possedesse le sfumature più educate della gente di Kyoto, il vero cuore della tradizione. Già all’epoca sfoggiava l’hair-style spericolato di chi non si cerca negli stereotipi e nelle mode, e una quantità di piercing che mi rendeva solidale con la sua povera carne.
Anche se dovevo cercarlo molto più in basso del mio solito punto di fuga, la sua aura era immensa. Davvero. Forse perché ero solo un ragazzino impressionabile – eppure anche Kyo era ancora minorenne, a ben vedere. Un minorenne ch’era scappato di casa, che aveva fatto un provino con gli X-Japan e suonava con Kiyoharu, però – ma mi venne spontaneo chiedermi se per caso non fosse qualcuno già famoso, qualcuno che militava magari con qualche indie fotografata da Vicious.
Senz’altro non aveva nulla a che vedere con gli adolescenti che frequentavo e la cui anima anticonformista si limitava al rubare i vestiti delle sorelle per suonare. Era un tipo davvero speciale, ma nell’accezione migliore del mondo. Qualcuno che riusciva a calamitare su di sé uno sguardo particolare.
“Bandscores degli X. Almeno qualcuno ha un po’ di gusto da queste parti,” disse con un tono monocorde, ma abbastanza consistente da raccogliere la disapprovazione di un paio di cretine che volevano sapere se era vero che tetsu fosse nascosto nel seminterrato del locale – al suo posto, quale fosse la verità, io l’avrei fatto. Prima che riuscissi a rendermene conto – il che giustifica che la conversazione fosse durata più di un paio di minuti – mi ritrovai a discutere dei miei gusti e dei miei obiettivi musicali con uno sconosciuto dall’aria inquietante, che annuiva di quando in quando, salvo interrompersi all’improvviso per giocherellare con la ferraglia che gli seviziava i lobi o grattarsi quei capelli disastrati. Per proprio conto si era trascinato fin lì – aveva detto proprio così: trascinato – perché doveva cambiare le corde della propria chitarra e non c’era un altro cazzo di buco – sempre a citarlo in modo testuale – non le avesse terminate.
“Fai il chitarrista?” gli chiesi. Kyo – così mi disse di chiamarsi. Potrei dire di aver scoperto il suo nome di battesimo solo quando firmammo il nostro primo contratto – si concesse qualche secondo per rispondere e, a ben vedere, replicò a modo suo, con la verità e un enigma al contempo.
“Dipende. Per ora sì.” Per ora sì. Se non mi avesse intimidito un po’ quel suo aspetto tutt’altro che rassicurante, forse avrei dovuto porgli qualche domanda in più. Qualcosa come ‘Che vuol dire dipende? Perché per ora?’ ma era assurda tutta la meccanica della conversazione; un po’ troppo per arroccarsi su questioni di principio, posto poi che non mi interessavano in modo particolare. Ognuno era libero di sognare come voleva, insomma. Per altro, poi, fu lo stesso Kyo a chiarire e a chiarirmi la situazione: faceva il roadie per i Kuroyume, all’occorrenza, cioè, supportava la band di Kiyoharu. A quel punto avrei dovuto portargli rispetto anche se fosse stato un kohai, per quanto pure l’espressione più adulta del suo sguardo mi dicesse ch’era poco probabile.
Davanti a me c’era qualcuno che aveva davvero esperienza, gusti e obiettivi finalmente simili a quelli che mi sforzavo di raggiungere. L’aura intensa e speciale di chi non si sarebbe accontentato di mordere solo le briciole della torta, ma l’avrebbe inghiottita intera e nulla di meno. Mi annotò il proprio numero di telefono su un brandello di quello che aveva tutta l’aria d’esser stato qualche secolo prima il menu di un’okonomiyakiya e me lo porse senza troppe cerimonie. Davanti al mio sguardo disorientato, ma eloquente, spiegò in poche parole, come se si trattasse di qualcosa di scontato.
“Mi sembri un tipo sveglio. Magari posso rimediarti i biglietti per qualche concerto.”
Ringraziai un po’ confuso, senza sapere bene come comportarmi. Senz’altro non avrei mai detto che quella fosse una gentilezza convenzionale, ma non v’era proprio nulla in lui che meritasse un simile apprezzamento. A riceverlo, poi, posso anche supporre che l’avrebbe preso come un’offesa o qualcosa del genere.
Tornai a casa stringendo un pugno di spartiti che neppure avevo pensato fosse meglio occultare, e con un’aria tanto perplessa da suscitare la curiosità della donna delle pulizie. Per fortuna i miei non erano ancora rincasati, sicché non avrei dovuto preoccuparmi poi troppo delle conseguenze di una guardia insolitamente bassa. A giustificare l’assenza di quel pomeriggio avrei pensato in un secondo tempo. Il mio istinto mi diceva ci fosse qualcosa nell’aria, qualcosa di grave e importante e forse persino bello. Qualcosa, però, che viveva ancora a uno stato embrionale e non si lasciava leggere per quel che sarebbe diventato.
Una farfalla. Uno scorpione. Un po’ d’aria.
Non pensai mai, in ogni caso, di sollevare il telefono e provare a contattare uno sconosciuto attraente ed eccentrico come un pesce tropicale. Era qualcuno che mi avrebbe per certo traghettato nel futuro, ma non volevo forzare la manovra. Se doveva capitare qualcosa, insomma, sarebbe successo, prima o poi. Yoshiki non aveva agito proprio così, ma sospetto che i miei genitori non mi avrebbero assecondato, se avessi chiesto loro di alleggerirsi un po’ il conto in banca per fare di me una rockstar. Quale fosse la verità, in ogni caso, non avevo la minima intenzione di abbandonare la scena underground di Osaka, perché era l’unico luogo in cui avrei potuto trovare la corrente giusta per diventare qualcuno; soprattutto partecipavo ad audizioni su audizioni. Non avevo ancora diciotto anni, ma credenziali significative.
Alla prima occhiata pensavano che fossi solo visual e un arredo scenico di prestigio, poi mi sedevo ai piatti e li costringevo ad ascoltare e a vedere tutto il resto, senza scompormi mai, senza un sorriso di troppo, né quelle frasi fatte di sfida e ripicca buone per un manga, ma inutili nella vita vera. Là contava solo chi pestava più forte. Più a lungo. Con più tecnica. Contavo io e nient’altro.
A sedici anni suonavo con i Siva. Scherzando, c’era chi mi chiamava ‘la signora in nero’, per gli abiti lugubri che andavano allora e l’inevitabile cono d’ombra in cui finivi infognato in quelle live-house da due soldi. A una delle nostre serate assistette anche Kyo. Fu così che lo rividi e la marcia per le stelle cominciò davvero.
Ancora prima che ci dessimo allo sperimentalismo cromatico sui miei capelli – sarebbe accaduto un anno più tardi, quando già militavo nella formazione che avrebbe deciso di tutto il mio futuro – diventammo amici in un’accezione che potrei davvero chiamare tale , qualcosa di diverso senz’altro dall’indifferenza con cui guardavo tutto e tutti. Del resto, se frequenti gli stessi posti, se ti piace la stessa musica e finisci con il gingillarti pure sempre con le stesse persone, è inevitabile che capiti qualcosa del genere.
Di Kyo amavo quella sua intelligenza profonda, per quanto pure obliqua, quel suo modo di non essere mai scontato né banale, persino l’impossibilità di prevedere di quale colore avrebbe avuto i capelli il giorno dopo. Mi piaceva soprattutto il fatto che fosse uno che sapeva anche stare per contro proprio, senza toglierti l’ossigeno, né confondere l’amicizia con una specie di simbiosi. Riuscivo a condividere qualcosa senza sentirmi soffocare. Ci riuscivo perché ero determinato e perché accanto avevo qualcuno che valeva altrettanto e si muoveva accanto a me, nella stessa direzione, ma con un suo stile.
Kyo sapeva suonare tanto il basso che la chitarra, ma aveva soprattutto una voce eccezionale. L’aveva educata facendo l’imitazione del ‘capo’, come chiamava a volte Mori, per quanto lo rispettasse quasi quanto il sottoscritto rispettava Yoshiki. A tratti sembrava il solo a non realizzare quanto terribile e potente fosse il suo dono. A scuola era un disastro, come scoprii da una di quelle confessioni di passaggio che sono tanto più vere quanto meno intenzionali, a casa ancora peggio e non poteva senz’altro dire di aver ricevuto un’istruzione canonica, se a quindici anni si era messo a suonare per vivere; eppure quel che scriveva e come lo scriveva suggeriva tutt’altro. Era difficile dire se fossero poesie – e dunque cercassero un altro modo per dipingere qualcosa che già esisteva – oppure visioni, buone a creare qualcosa che solo lui poteva vedere, ma erano sempre composizioni piene di una potenza che non avevo mai trovato né sui libri di scuola, né in molta della musica che pure apprezzavo. Mi venne naturale pensare di poter fare accanto a lui una parte di quel cammino, perché era pure grazie alla sua presenza che avevo rinnovato il mio già solido entusiasmo verso un mondo di luci e note. Quando mi propose di presentarci insieme ai provini per gli Haijin Kurobara Zoku, dunque, non mi posi neppure il problema se fosse o meno una buona idea, ma lo feci e basta.
Per quanto poco mi convincesse il gruppo, bastava il fatto che ci fosse lui, con il suo carisma e la sua determinazione, a dirmi che quella era la direzione giusta. Dovevo fidarmi della corrente – quanto al resto, restavo quello di sempre, e non mi affidavo mai del tutto a nessuno. Anche con Kyo non posso dire che si fosse istaurato un qualunque rapporto di confidenza, perché per primo evitava di lasciarsi coinvolgere dagli altri. Quando ho realizzato che avesse però derogato alla regola per Toshimasa, confesso d’esserci rimasto un po’ male. È stato quasi, in un certo senso, mi fossi sentito tradito, perché c’ero da prima, ma non avevo mai goduto di certi privilegi; poi, però, mi sono anche detto che Toshiya era il primo a sforzarsi di farsi conoscere e conoscere davvero gli altri, mentre per mia parte – come per quella telefonata che non avevo mai fatto – aspettavo sempre con la mano tesa, dietro le solide pareti di una torre d’avorio.
Persino quando l’offerta d’amicizia è arrivata, senza schermi e senza condizioni, mi sono rifiutato di vederla e d’accoglierla. Forse c’è nel mio passato qualcosa che devo espiare o non ho il coraggio di chiamare per nome. Forse sono un codardo che ha paura di ottenere, perché sa pure di non essere un buon perdente.
Lo realizzai quando alla signora in nero si accostò un diavolo rosso, ch’era caldo come il fuoco delle sue corde, ma non abbastanza, forse, da resistere alla mia neve. A ben vedere può anche darsi che sia vero che sono nato in inverno e che quel freddo mai espresso nella terra di sole in cui sono nato sia diventato poi il mio.
Tutto accadde quando si chiuse la parentesi con gli Haijin. Avevo diciassette anni e i miei genitori non mi davano tregua, perché pensassi soprattutto a diplomarmi con voti decorosi, anziché tirar tardi la notte per frequentare individui poco raccomandabili. Non so se mi avessero mai visto con Kyo, ma di sicuro non era qualcuno che li avrebbe dissuasi da un’opinione frettolosa, eppure condivisibile. Per certi versi, dunque, una pausa era quel che mi serviva, per quanto pure non sia durata che qualche mese: abbastanza da farmi chiudere la parentesi scolastica con un atto di ribellione di quelli che un genitore non dimentica.
Kyo e io ne parlavamo dalla sera del mio compleanno, ma solo a esami finiti presi davvero il coraggio a due mani e gli dissi: “D’accordo. Ora sono pronto.”
Ci chiudemmo in bagno con due flaconi dall’odore orribile e dalla consistenza ch’era quasi peggio. Se non avessi avuto ancora il cuore pieno della memoria rassicurante dei boccoli d’oro di Yoshiki, in ogni caso, mi sarei probabilmente dato alla fuga.
Cosa sarebbe stato dei miei poveri capelli?
“Sei sicuro che funziona?” gli chiesi titubante, mentre Kyo, la cui ultima preoccupazione era decidere se forarsi ancora le orecchie, anziché le labbra o il naso, indossava guanti sterili e mascherina per proteggersi dall’acido. Mi rispose con un grugnito dei suoi, prima di cacciarmi con forza la testa sotto il getto d’acqua fredda del lavandino; soprattutto, senza darmi neppure la possibilità di dare un ultimo sguardo al bel nero dei miei capelli prima che assumessero chissà quale sfumatura vergognosa.
Divenni di un castano ramato, tendente al biondo, forse solo per la generosa intercessione di Yoshiki – che non mancai mai di invocare in un silenzioso rosario – mentre Kyo sforbiciava qua e là le punte per rendere il tutto il più artistico possibile.
“Ecco. Ora hai l’aspetto che ci vuole a fare la rockstar,” considerò con la soddisfazione dell’artista, prima di uscire dalla finestra come faceva di solito.
Forse aveva ragione, perché la reazione dei miei genitori fu estremamente eloquente.
“Shin-chan! Ma cosa hai fatto!” urlò mia madre – che pure, di quando in quando, mi dava lezioni di make-up, prima di correre a piangere in camera. Qualche mese più tardi, Kisaki, il bassista del vecchio gruppo, decise di chiamare ancora una volta Kyo e il sottoscritto alle armi, per un gruppo indie destinato a lasciare il segno – soprattutto nella mia storia.
I La:sadie’s.
Non era solo, però. C’era anche un suo amico.
Rosso.

   
 
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