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Autore: Mapi D Flourite    09/12/2010    3 recensioni
[Hughes/Roy, onesided]
«[...] Questo fine settimana sarò fuori città. Devo andare a Central.»
Riza aggrotta le sopracciglia e si stringe i fogli al petto, apparentemente colta alla sprovvista. «Central? Non me l'aveva detto.»
«In realtà l'ho saputo anch'io solo oggi.»
«Qualcosa di grave? Ha bisogno che l'accompagni?»
Qualcosa di grave? Se non fosse consapevole delle ripercussioni, probabilmente scoppierebbe a ridere. «Dipende dal punto di vista,» scherza, stringendosi nelle spalle. «Ha telefonato Hughes, sta mattina: a quanto pare ha finalmente deciso di farle la proposta. Si sono ufficialmente fidanzati.»
[La fic contiene riferimenti precisi all'OVA 4 "Yet another man's battlefield". Vi avverto, perché se non l'avete visto non capirete granché. ♥]
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Roy Mustang
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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SCHEMAEFP2

E quando sarò davanti a lui, sorriderò





La faccia è tirata, gli occhi sembrano incassati dentro le palpebre e le labbra sono strette in una linea dura, così sottile che è impossibile capire se tendano di più alla smorfia disgustata o al ghigno.
Roy si guarda, sulla superficie lucida dello specchio, e involontariamente le sue mani si contraggono attorno alla ceramica fredda del lavandino al quale è aggrappato, senza il quale non riesce a stare in piedi, mentre l'espressione non cambia, resta immobile a fissarlo, un'enorme fotografia di un istante congelato che sembra non voler finire mai.
Hai gli occhi da assassino.
La voce di Hughes gli rimbomba nella testa e, quasi meccanicamente, lui solleva il suo sguardo sui suoi occhi; sono scuri – bui – segnati – esausti, quasi in fin di vita. Ha ragione la sua testa, pensa, ha ragione la voce che si sente dentro. E per la seconda volta nella sua vita si rende conto che, al momento della resa dei conti, non esiste davvero differenza tra l'uccidere e l'essere ucciso, perché gli occhi di chi muore diventano il peso e la condanna di chi ha ammazzato.
La prima volta, è stata a Ishbar. Lui ha ucciso, quella volta, con un semplice schiocco di dita, mentre adesso, tappato in quel bagno deserto in cui riesce soltanto a sentire l'odore della candeggina, è lui che muore, sempre per un gesto della mano, solo perché ha sollevato la cornetta del telefono – ma il suo assassino non è lì a guardarlo in faccia, non si ricorderà del suo viso che muore. Probabilmente, il suo assassino non scoprirà mai di averlo ucciso.
Abbassa lo sguardo, incapace di sopportare ulteriormente la vista di quell'espressione che non cambia, e finalmente curva gli angoli della bocca verso l'alto, mimando un ghigno divertito sotto le palpebre pesanti che gli sembra gli siano cadute sulla faccia, tanto fanno male.
Patetico, pensa. Veramente patetico.
Serra i denti, la mascella, e scuote il capo, ripetendo ad alta voce tutto quello che gli attraversa la mente, come se in quel modo gli risulti più facile liberarsi del peso che sente dentro, della morsa che gli attanaglia lo stomaco.
«Era ovvio che sarebbe successo,» mormora, e la sua voce gli arriva stanca, straniera, sporca. Innaturale. Si aggrappa ancora di più a quel lavandino che – lo sa – finirà per cedere, se non cederanno prima le sue ginocchia. «Non aveva senso aspettare ancora. Non c'era motivo, per aspettare ancora.»
Stringe le labbra e inspira a fondo, mentre il sasso che ha in gola gli blocca il fiato, impedendogli quasi di respirare. Scuote ancora il capo, lentamente, stancamente, da una parte all'altra, mentre il ghigno sulla sua bocca si allarga, sempre di più, e lui non può fare niente per trattenerlo, per impedirglielo.
«Che cosa diavolo speravo?» si chiede, senza sapere neanche da dove nasca quella domanda che non ha sentito arrivare nemmeno nella sua mente. Non c'era mai stato un dubbio, un indizio equivocabile, mai neanche una lontana, remota speranza che qualcosa potesse cambiare, che ad un certo punto quella strada che aveva intrapreso e deciso di percorrere fino alla fine avrebbe deviato nella sua direzione, finendo con l'incontrarsi con la sua in modi che avevano poco a che fare con ciò che avevano diviso e condiviso fino a quel momento. Mai, nemmeno una volta, si era ritrovato a pensare che la risposta a quella domanda che non gli avrebbe mai fatto si sarebbe trasformata da un tacito no ad un sì anche solo sussurrato nel suo orecchio.
Serra i pugni, quando aggrapparsi al lavandino non è più abbastanza, con così tanta forza da farsi sbiancare le nocche, e stringe gli occhi con più forza per impedire al sasso di salire ancora di più verso le sue labbra.
«Che cosa diavolo speravo?» ripete, la voce sottile come un filo, lo stesso filo a cui – se ne rende conto soltanto adesso – era rimasto aggrappato fino a quel momento con tutte le sue forze e che si era spezzato con la stessa facilità con cui adesso si spezza il suo respiro.
Tu vorrai proteggere il Paese, ma io voglio proteggere la donna che amo, gli aveva detto, l'espressione così seria da far tremare perfino le pareti della buca in cui erano finiti. Inspirò. Era uno scherzo, il suo di allora, soltanto uno scherzo, non ne aveva mai dubitato; era stato soltanto la prima volta che lo aveva sentito pronunciare il nome di lei – e aveva visto il suo viso, i suoi occhi brillare come mai avevano fatto prima di allora – che si era reso conto che quella donna straordinaria di cui non aveva fatto che parlargli fin dal primo giorno, quella donna della quale aveva visto l'ombra avvicinarsi solo da lontano per poi svanire nel nulla, evanescente, mai veramente reale, era arrivata, finalmente.
Eppure, nonostante tutto, una parte di lui non era ancora stata davvero capace di darsi per vinta. Forse lui non sarebbe stato in grado di trattenerla, aveva pensato, giù, in fondo alla sua anima. Forse non è destino. Forse lei è davvero troppo anche per lui – e bugie su altre bugie, pretesti e ancora bugie per non affrontare quella realtà che aveva davanti agli occhi, quella realtà vera e tangibile e troppo dolorosa per essere accettata.
«Che idiota,» sbotta, con quel poco fiato che ha in gola, e nello stesso momento in cui quei pensieri si formulano nella sua mente non riesce a trattenere un fremito di disgusto verso se stesso.
«Dovrei essere felice per lui» si dice, a voce alta perché quella parole si imprimano meglio nella sua mente, sollevando per un solo secondo lo sguardo sullo specchio. «Non starmene qui a sperare che, alla fine, qualcosa vada storto. Che razza di amico di merda sono?» Tace un momento, forse perché non ha più fiato o, forse, perché in quel momento non ha davvero la forza di fingere che tutto si riduca  soltanto a quello. «È finita come doveva finire,» mormora tra i denti, mentre ogni istante passato con lui gli ritorna alla mente come un caleidoscopio del quale solo lui è in grado di definire i colori. Quanti momenti, c'erano stati, quante occasioni. Nascosti a parlare di niente in tutti i ritagli di tempo che avevano a disposizione, a tutte le ore, ammassati l'uno sull'altro in qualche furgone pieno di gente che non sentiva e che non voleva sentire, gettati alla rinfusa su un campo di battaglia, l'uno come unico sostegno dell'altro quando mancava ancora troppo al campo e l'avamposto del nemico era ancora troppo vicino.
Lo sa, gli sarebbe bastato un solo silenzio, per parlare. Un momento, sul morire della parola, in cui si erano fermati a riordinare le idee, in cui non c'era più nient'altro da aggiungere: sarebbe stato sufficiente aprire le labbra e parlare, buttarsi da quel baratro immenso con la speranza di trovarci una rete insperata e, forse, le cose sarebbero potute andare diversamente.
O, dopotutto, forse no.
«Doveva andare così,» dice, cercando di rassicurarsi, di spegnere quel dubbio che lo divora da dentro. «Poteva andare solo così.»
Rilassa le spalle, per la prima volta, e ora non gli importa più che il lavandino possa cedere. «Doveva andare così,» ripete, schiacciando i gomiti, le mani, le nocche rossastre. «E in fin dei conti, che razza di amore da due soldi sarebbe, il mio? Non si dovrebbe essere felici, per la persona che si dice di amare? Felici che si sia tutto risolto per il meglio e che potranno finalmente vivere la loro vita in santa pace, insieme, come è giusto che sia?» Inspira a fondo, cercando inutilmente di fermare le labbra che tremano. «Dovrei essere contento che lui abbia ottenuto tutto ciò che voleva, non starmene chiuso in questo maledetto bagno a piangermi addosso!»
Le palpebre gli bruciano, per quanto le stringe, mentre sente il petto gonfiarsi ogni secondo di più, fino quasi al punto di sentirlo scoppiare. Alza la testa, lo sguardo e torna di nuovo a fissare il suo riflesso nello specchio che, ora, gli restituisce un'espressione diversa – tragicamente diversa. «Se lui fosse al mio posto, sarebbe felice per me,» sussurra e la sua voce gli giunge da così lontano che per un momento gli pare che sia stato solo il suo riflesso a parlare. «Io non sono mai stato tanto forte.»
Quando era toccato a lui, Hughes lo era stato, invece. Senza sforzarsi, può ancora ricordare le sue parole, il suo viso distrutto, il calore delle sue mani strette al suo bavero, mentre cercava di farsi largo in quell'Inferno con la sola forza di qualche parola scritta e del pensiero di avere a casa una donna che lo aspettava, una donna che lo amava e che lui amava così tanto da non volere in alcun modo che rimanesse coinvolta nel dolore che gli aveva causato portarsi sulla coscienza tutte quelle morti.
Ciò che è accaduto qui, lo affronterò da solo. E quando sarò davanti a lei, sorriderò.
Abbassa di nuovo il capo sul petto, troppo esausto per tenerlo ancora sollevato, mentre per l'ennesima volta si dà dell'idiota e del codardo e si domanda perché non riesca a fare di più – eppure lo sa, cosa dovrebbe fare. Lo sa benissimo.
Rilassa le mani, allentando la presa, e appoggia i palmi caldi sulla ceramica, inspirando a fondo. È l'unica cosa che gli resta da fare, pensa. L'unica. «Trenta secondi,» sussurra alla fine, quando è riuscito a racimolare abbastanza forza per compiere quel passo. «Solo altri trenta secondi per affrontare tutto questo. E quando sarò davanti lui, farò del mio meglio per essere felice.» Quando sarò davanti a lui, sorriderò.
E rimane immobile, le gambe molli e il capo chino quasi con ostinazione sul suo petto, perché se sollevasse gli occhi adesso non potrebbe in alcun modo fingere che le due lacrime che gli solcano le guance appartengano solo al suo riflesso.



Quando pochi minuti più tardi ritorna in ufficio, il viso è disteso, sorridente, gli occhi brillanti. Si siede alla scrivania allungando le gambe e appoggiando le spalle contro lo schienale, mentre prende dal tavolo un plico di fogli a cui getta soltanto una rapida occhiata: «Sottotenente?»
La donna solleva il capo nella sua direzione, un sopracciglio appena inarcato: «Sì?»
«Questi per quando vanno consegnati?»
Sospirando, lei si avvicina alla scrivania e legge rapidamente i fogli che lui ha in mano prima di rispondergli: «Entro lunedì sera, martedì al massimo, signore.»
Lui annuisce. «Allora, se non chiudiamo entro sta sera ce ne occuperemo lunedì.»
«Invece sarebbe utile che lei facesse un po' di straordinari, questo fine settimana.»
Roy scuote il capo e suo malgrado il sorriso si smorza un poco. «Niente da fare. Questo fine settimana sarò fuori città. Devo andare a Central.»
Riza aggrotta le sopracciglia e si stringe i fogli al petto, apparentemente colta alla sprovvista. «Central? Non me l'aveva detto.»
«In realtà l'ho saputo anch'io solo oggi.»
«Qualcosa di grave? Ha bisogno che l'accompagni?»
Qualcosa di grave? Se non fosse consapevole delle ripercussioni, probabilmente scoppierebbe a ridere. «Dipende dal punto di vista,» scherza, stringendosi nelle spalle. «Ha telefonato Hughes, sta mattina: a quanto pare ha finalmente deciso di farle la proposta. Si sono ufficialmente fidanzati.»
«Era ora!» grida qualcuno dal fondo della stanza e Riza si rilassa, lasciando che un sorriso le illumini il volto. «Ho capito,» gli dice, sistemando i documenti sul tavolo proprio davanti a lui. «Allora è bene che si metta a lavorare sodo, prima della fine della giornata. Così quando è in viaggio non sarà ossessionato dal rimorso di avere ancora un mare di lavoro qui in ufficio.»
Roy ride, sollevando le spalle, e gli sembra strano come quel gorgogliare che fanno le sue corde vocali gli giunga così spontaneo.
«E, signore?»
«Sì?»
«Faccia le congratulazioni al Maggiore Hughes da parte mia.»
Lui rimane a guardarla in silenzio, il sorriso congelato sulle labbra, mentre in cuor suo continua a ripetersi che quella è l'unica strada da percorrere e che, arrivato a quel punto, deve arrivare fino in fondo. «Sì,» le dice. «Lo farò di certo.»
Costi quel che costi.






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N/A
Fanfiction scritta per la challenge su Bingo Italia con il prompt Fidanzamento della mia tabellina. ♥
Che vi devo dire? A parte che, è chiaro, io e l'Introspezione non andiamo d'accordo, quindi sebbene io abbia riletto sta cosa diciotto volte, almeno, non so dirvi se abbia o meno un senso. Insomma, no, ecco, davvero. Spero che non faccia troppo schifo. ;__; (Però se state leggendo qui vuol dire che almeno uno di voi è arrivato in fondo alla storia... ma che caro! *_*)
Poi, be', che io abbia un debole per il onesided da parte di Roy è scontato. Metteteci pure l'OVA della Brotherhood su di loro che è un inno al onesided (non fate domande, io ho delle teorie mie XD) e capite subito da dove nasce questa schifezza. ;P Il che, inoltre, spiega perché di base io mi sia completamente ispirata a quello e al volume 15 di FMA, nello scrivere sta robetta...
Ma è una mia impressione o queste note non hanno un briciolo di senso?
Insomma, va be', poco altro.
Per le offese, le minacce di morte, i "ritirati" e "guarda che esistono altri fandom oltre a FMA, eh! Scrivi su quelli!", prego rivolgersi al banco recensioni. Per il resto... Tanto amore. ♥


  
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