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Autore: EffieSamadhi    10/12/2010    1 recensioni
“Ne faccia quello che crede. Allora, intende arrestarmi, adesso?”
“Lei ha ucciso un uomo.”
“Questo non risponde alla domanda che le ho fatto.”
Questa volta fu lui a distogliere lo sguardo. “Non l’arresterò, sergente Harrison. Non oggi.” Si alzò, infilando la pen drive nel taschino interno della giacca. “Si costituisca.”

Prima Classficata al contest "Presidente" indetto da NonnaPapera! sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Leroy Jethro Gibbs
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Talk About The Passion

“Ti fanno credere che la Patria sia l’unica cosa che conta, e poi ti chiedono di annullare te stesso.”

Questo aveva detto, sospirando.

E poi: “Ho ucciso io il colonnello Gatwick. Avanti, mi arresti.”

Lui era rimasto a guardarla con gli occhi spalancati, incredulo. Diane Harrison sembrava una ragazzina: invece aveva ventisette anni ed era un sergente dei marines. E gli stava mostrando i polsi.

“Faccia il suo lavoro, agente Gibbs. Mi arresti” aveva ripetuto, a voce più bassa, ma senza perdere la sua determinazione.

“Perché?”

Lo guardò senza capire, abbassando impercettibilmente le braccia. “Perché ho ucciso un mio superiore” rispose, con un tono che sottolineava l’ovvietà della domanda.

“No, voglio sapere perché ha ucciso il colonnello Gatwick.”

Le braccia del sergente Harrison tornarono a distendersi lungo i fianchi della ragazza. Scosse la testa, senza nascondere un sorriso. “Mi creda, è una storia piuttosto lunga e complicata.”

“Io ho tempo. Inoltre, non posso arrestarla senza aver verificato il movente. Per quanto ne so, potrebbe addossarsi la colpa per coprire qualcun altro.”

Diane Harrison gli voltò le spalle. Un paio d’ore prima, lo aveva chiamato per chiedergli un colloquio. Si erano incontrati al parco. Gibbs era arrivato con cinque minuti d’anticipo, e l’aveva trovata già lì. Il tempo di un saluto, e lei aveva detto quella frase. E aveva confessato un omicidio.

Improvvisamente, si voltò a guardarlo. Aveva gli occhi grigi. Non lo aveva notato, prima. Non che prestasse attenzione a queste cose. “Le va di camminare?” gli domandò, a bruciapelo.

Gibbs accettò in silenzio. Iniziarono a calpestare ogni centimetro dei sentieri che attraversavano il parco, mentre qualche foglia ingiallita cadeva volteggiando dagli alberi. Non c’era nessuno, oltre a loro.

“Allora, perché ha ucciso il colonnello Gatwick?”

“Lei è stato in guerra, agente Gibbs.”

Non era un domanda, ma lui si sentì in dovere di rispondere. “Esatto.”

“Lei è stato in Kuwait, io in Afghanistan. Sa quanto sia difficile affrontare certe cose. Lontani dalla famiglia, lontani dagli amici… eppure, nonostante tutto, ci si sente a casa. Stai combattendo per il tuo Paese, e ti senti bene.”

Gibbs affondò le mani nelle tasche e le lanciò un’occhiata.

“Il tuo Paese è la sola cosa per cui pensi valga la pena vivere… e morire. E faresti di tutto per la tua patria. Non ci penseresti due volte, prima di uccidere un nemico. Fa parte della tua natura. Sei un soldato, devi combattere.”

Semper fidelis” sussurrò lui, apparentemente senza motivo.

“Già, semper fidelis” ripeté lei. “Devi obbedire ad ogni ordine dei tuoi superiori. Se ti ordinano di giustiziare un uomo perché ha inneggiato ad Al Qaeda e ha minacciato il tuo Paese, devi obbedire. Se ti ordinano di perquisire un sospettato, devi obbedire. Se ti ordinano di uccidere donne e bambini innocenti, devi obbedire.”

“E’ questo che hanno fatto? Le hanno chiesto di uccidere donne e bambini?”

Una lunga pausa. Il silenzio fu rotto soltanto dallo scricchiolio delle foglie che si rompevano sotto i loro passi lenti.

“Eravamo di stanza a Kandahar. Il colonnello Gatwick disse di aver ricevuto ordini dall’alto, e che avremmo dovuto attaccare un villaggio di dissidenti. Solo che non erano dissidenti. Erano pastori, quasi tutti analfabeti. Passavano le loro giornate a lavorare e pregare. La maggior parte di loro non avevano mai nemmeno sentito parlare di Al Qaeda, di Bin Laden, della jihad. Per loro noi americani non eravamo nemici. Credo non sapessero nemmeno chi fossimo.”

Fece una pausa per lasciarlo rispondere, ma lui tacque.

“C’era una bambina, si chiamava Samira. Doveva avere otto, nove anni. Quando passavamo per il villaggio, usciva sempre per guardarci. Le piacevano le nostre divise. Credo mi trovasse simpatica, perché si avvicinava sempre a me. O forse era perché ero l’unica donna. Non lo so. Non è che parlassimo molto: lei non sapeva l’inglese, e io sapevo le due o tre frasi necessarie a farci comprendere dalla popolazione. Però mi piaceva. Aveva un sorriso a dir poco meraviglioso.” Fece un’altra breve pausa. “Credo che se avessi una figlia, mi piacerebbe chiamarla come lei.”

“Samira è morta, vero?”

Il sergente Harrison annuì. “Lei è stata la prima della sua famiglia ad essere uccisa” bisbigliò, la voce rotta dalla commozione.

Gibbs realizzò che si erano fermati: quando era successo? Si voltò a guardare ancora gli occhi grigi del sergente Harrison, e li trovò pieni di lacrime. Milioni di domande gli attraversavano la mente, ma non riusciva ad afferrarne una e ad esprimerla.

“Mi sono rifiutata di prendere parte al massacro” continuò Diane, la voce di nuovo ferma come pochi minuti prima, ricominciando a camminare. “Per questo sono stata rimandata a casa. Avrà letto la mia scheda.”

“C’è scritto che è rimasta ferita in uno scontro a fuoco.”

Diane scosse la testa. “Il colonnello Gatwick sapeva di non potermi denunciare per insubordinazione, perché a mia volta avrei denunciato il massacro. Preferì mandarmi a casa con questa scusa, sicuro che non avrei parlato.”

“E così è stato” completò lui, con voce piatta.

Diane annuì. “E’ stato così per tre anni.”

“E poi che cos’è successo? Improvvisamente la sua coscienza si è svegliata?”

Si erano di nuovo fermati. Diane batté le palpebre, e una lacrima, la prima di quel pomeriggio, le rigò la guancia. Voltò rapidamente la testa, lasciando che i capelli le coprissero la guancia. “Per tre anni…” iniziò con voce tremante, interrompendosi subito. “Per tre anni” riprese, dopo essersi schiarita la voce, “ho sognato quella bambina. Mi sorrideva. Sorrideva, e poi improvvisamente scoppiava in lacrime, e mi chiedeva perché. Mi chiedeva perché l’avessero uccisa. Per tre anni ho sopportato gli incubi, poi non ce l’ho più fatta.”

“Allora è andata a cercare il colonnello per fargliela pagare.”

“No. Mi sono procurata le prove di quanto aveva fatto in Afghanistan, e sono andata da lui. Gli ho detto che avrebbe potuto costituirsi, o in caso contrario lo avrei denunciato.”

“Sarebbe stata indagata anche lei, lo sa, vero? E l’aver denunciato Gatwick non avrebbe costituito un’attenuante.”

“Non mi importa. Ero pronta ad andare in carcere, se questo fosse servito a far smettere quegli incubi…”

“Che cos’è successo quando è andata da Gatwick? La rabbia ha avuto la meglio sulla razionalità?”

“Mi ha aggredita verbalmente. Ha cercato di colpirmi. Non avrei voluto ucciderlo. Volevo soltanto sparargli a una gamba, fermarlo… ma in quella situazione non potevo essere precisa nel prendere la mira.”

“Sergente…”

“So di aver sbagliato, agente Gibbs, ma… sono contenta di averlo ucciso.”

Milioni di domande gli vorticavano ancora per la testa. Riuscì ad afferrarne una. “Gli incubi sono finiti?”

“Sono meno frequenti, ma non credo finiranno mai.”

“Crede di aver fatto la cosa giusta, sergente?”

“No. Ma avrei potuto. Se solo non mi fossi voluta vantare con lui…” Si interruppe, e si lasciò cadere su una panchina.

Gibbs rimase a guardarla per un paio di minuti, in silenzio. I lunghi capelli castani le spiovevano davanti al viso, nascondendolo quasi completamente. Senza la divisa, il sergente Harrison era davvero una bella ragazza. Provò ad immaginarla con la divisa del carcere. Scosse la testa e scacciò quell’immagine. Voleva ricordarla così, seduta su quella panchina, con lo sguardo perso nel vuoto, e l’ombra di un sorriso sul volto. Si sedette accanto a lei. Soltanto in quell’istante si accorse che teneva tra le mani qualcosa.

“Agente Gibbs, io mi fido di lei.”

Quella rivelazione lo stupì.

“Queste sono le prove di ciò che le ho raccontato” continuò, porgendogli una pen drive. “Non voglio che finisca nelle mani sbagliate.”

“Che cosa crede che dovrei farne?”

Diane Harrison scosse le spalle. “Ne faccia quello che crede. Allora, intende arrestarmi, adesso?”

“Lei ha ucciso un uomo.”

“Questo non risponde alla domanda che le ho fatto.”

Questa volta fu lui a distogliere lo sguardo. “Non l’arresterò, sergente Harrison. Non oggi.” Si alzò, infilando la pen drive nel taschino interno della giacca. “Si costituisca.”

Se ne andò, lasciando il sergente Harrison sola su quella panchina.

 

***

 

Nella semioscurità della stanza, Gibbs inserì la pen drive nel computer. Mentre attendeva il caricamento dei documenti, fissò la foto del sergente Harrison. Senza rendersene conto, sorrise. Aveva sempre avuto una predilezione per le donne con i capelli rossi, ma anche quelle con gli occhi grigi non erano male.

Un trillo proveniente dal computer attirò la sua attenzione. Attenzione: è necessaria una password per accedere ai contenuti del dispositivo. Una keyword di sei caratteri. Gibbs accennò un sorriso e digitò la prima parola che gli venne in mente. Trascorse la notte ad esaminare i documenti raccolti dal sergente Harrison. “Ottimo lavoro, Diane” sussurrò, a un certo punto.

Una particolare cartella catturò il suo sguardo. Agente Speciale Gibbs, diceva. Lui la aprì. Conteneva delle fotografie: fotografie del villaggio di cui Diane gli aveva parlato, fotografie degli abitanti, fotografie del paesaggio. Una fotografia di una bambina di circa otto anni, con un sorriso incredibilmente contagioso. Una fotografia che ritraeva quella stessa bambina in braccio ad una donna in divisa. Gibbs scaricò le immagini sul proprio pc e le eliminò dalla pen drive.

Mentre spegneva il computer, squillò il cellulare. “Gibbs.”

“Capo, abbiamo un reo confesso per l’omicidio del colonnello Gatwick. Il sergente Diane Harrison” lo informò DiNozzo, all’altro capo del filo.

   
 
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