“Ti fanno
credere che la Patria sia l’unica cosa che conta, e poi ti chiedono di
annullare te stesso.”
Questo
aveva detto, sospirando.
E
poi: “Ho ucciso io il colonnello Gatwick. Avanti, mi arresti.”
Lui
era rimasto a guardarla con gli occhi spalancati, incredulo. Diane Harrison
sembrava una ragazzina: invece aveva ventisette anni ed era un sergente dei
marines. E gli stava mostrando i polsi.
“Faccia
il suo lavoro, agente Gibbs. Mi arresti” aveva ripetuto, a voce più bassa, ma
senza perdere la sua determinazione.
“Perché?”
Lo
guardò senza capire, abbassando impercettibilmente le braccia. “Perché ho
ucciso un mio superiore” rispose, con un tono che sottolineava l’ovvietà della
domanda.
“No,
voglio sapere perché ha ucciso il colonnello Gatwick.”
Le
braccia del sergente Harrison tornarono a distendersi lungo i fianchi della
ragazza. Scosse la testa, senza nascondere un sorriso. “Mi creda, è una storia
piuttosto lunga e complicata.”
“Io
ho tempo. Inoltre, non posso arrestarla senza aver verificato il movente. Per
quanto ne so, potrebbe addossarsi la colpa per coprire qualcun altro.”
Diane
Harrison gli voltò le spalle. Un paio d’ore prima, lo aveva chiamato per
chiedergli un colloquio. Si erano incontrati al parco. Gibbs era arrivato con
cinque minuti d’anticipo, e l’aveva trovata già lì. Il tempo di un saluto, e
lei aveva detto quella frase. E aveva confessato un omicidio.
Improvvisamente,
si voltò a guardarlo. Aveva gli occhi grigi. Non lo aveva notato, prima. Non
che prestasse attenzione a queste cose. “Le va di camminare?” gli domandò, a
bruciapelo.
Gibbs
accettò in silenzio. Iniziarono a calpestare ogni centimetro dei sentieri che
attraversavano il parco, mentre qualche foglia ingiallita cadeva volteggiando
dagli alberi. Non c’era nessuno, oltre a loro.
“Allora,
perché ha ucciso il colonnello Gatwick?”
“Lei
è stato in guerra, agente Gibbs.”
Non
era un domanda, ma lui si sentì in dovere di rispondere. “Esatto.”
“Lei
è stato in Kuwait, io in Afghanistan. Sa quanto sia difficile affrontare certe
cose. Lontani dalla famiglia, lontani dagli amici… eppure, nonostante tutto, ci
si sente a casa. Stai combattendo per il tuo Paese, e ti senti bene.”
Gibbs
affondò le mani nelle tasche e le lanciò un’occhiata.
“Il
tuo Paese è la sola cosa per cui pensi valga la pena vivere… e morire. E
faresti di tutto per la tua patria. Non ci penseresti due volte, prima di
uccidere un nemico. Fa parte della tua natura. Sei un soldato, devi
combattere.”
“Semper fidelis” sussurrò lui,
apparentemente senza motivo.
“Già,
semper fidelis” ripeté lei. “Devi
obbedire ad ogni ordine dei tuoi superiori. Se ti ordinano di giustiziare un
uomo perché ha inneggiato ad Al Qaeda e ha minacciato il tuo Paese, devi
obbedire. Se ti ordinano di perquisire un sospettato, devi obbedire. Se ti ordinano
di uccidere donne e bambini innocenti, devi obbedire.”
“E’
questo che hanno fatto? Le hanno chiesto di uccidere donne e bambini?”
Una
lunga pausa. Il silenzio fu rotto soltanto dallo scricchiolio delle foglie che
si rompevano sotto i loro passi lenti.
“Eravamo
di stanza a Kandahar. Il colonnello Gatwick disse di aver ricevuto ordini
dall’alto, e che avremmo dovuto attaccare un villaggio di dissidenti. Solo che
non erano dissidenti. Erano pastori, quasi tutti analfabeti. Passavano le loro
giornate a lavorare e pregare. La maggior parte di loro non avevano mai nemmeno
sentito parlare di Al Qaeda, di Bin Laden, della jihad. Per loro noi americani non eravamo nemici. Credo non
sapessero nemmeno chi fossimo.”
Fece
una pausa per lasciarlo rispondere, ma lui tacque.
“C’era
una bambina, si chiamava Samira. Doveva avere otto, nove anni. Quando passavamo
per il villaggio, usciva sempre per guardarci. Le piacevano le nostre divise.
Credo mi trovasse simpatica, perché si avvicinava sempre a me. O forse era
perché ero l’unica donna. Non lo so. Non è che parlassimo molto: lei non sapeva
l’inglese, e io sapevo le due o tre frasi necessarie a farci comprendere dalla
popolazione. Però mi piaceva. Aveva un sorriso a dir poco meraviglioso.” Fece
un’altra breve pausa. “Credo che se avessi una figlia, mi piacerebbe chiamarla
come lei.”
“Samira
è morta, vero?”
Il
sergente Harrison annuì. “Lei è stata la prima della sua famiglia ad essere
uccisa” bisbigliò, la voce rotta dalla commozione.
Gibbs
realizzò che si erano fermati: quando era successo? Si voltò a guardare ancora
gli occhi grigi del sergente Harrison, e li trovò pieni di lacrime. Milioni di
domande gli attraversavano la mente, ma non riusciva ad afferrarne una e ad
esprimerla.
“Mi
sono rifiutata di prendere parte al massacro” continuò Diane, la voce di nuovo
ferma come pochi minuti prima, ricominciando a camminare. “Per questo sono
stata rimandata a casa. Avrà letto la mia scheda.”
“C’è
scritto che è rimasta ferita in uno scontro a fuoco.”
Diane
scosse la testa. “Il colonnello Gatwick sapeva di non potermi denunciare per
insubordinazione, perché a mia volta avrei denunciato il massacro. Preferì
mandarmi a casa con questa scusa, sicuro che non avrei parlato.”
“E
così è stato” completò lui, con voce piatta.
Diane
annuì. “E’ stato così per tre anni.”
“E
poi che cos’è successo? Improvvisamente la sua coscienza si è svegliata?”
Si
erano di nuovo fermati. Diane batté le palpebre, e una lacrima, la prima di
quel pomeriggio, le rigò la guancia. Voltò rapidamente la testa, lasciando che
i capelli le coprissero la guancia. “Per tre anni…” iniziò con voce tremante,
interrompendosi subito. “Per tre anni” riprese, dopo essersi schiarita la voce,
“ho sognato quella bambina. Mi sorrideva. Sorrideva, e poi improvvisamente
scoppiava in lacrime, e mi chiedeva perché. Mi chiedeva perché l’avessero
uccisa. Per tre anni ho sopportato gli incubi, poi non ce l’ho più fatta.”
“Allora
è andata a cercare il colonnello per fargliela pagare.”
“No.
Mi sono procurata le prove di quanto aveva fatto in Afghanistan, e sono andata
da lui. Gli ho detto che avrebbe potuto costituirsi, o in caso contrario lo
avrei denunciato.”
“Sarebbe
stata indagata anche lei, lo sa, vero? E l’aver denunciato Gatwick non avrebbe
costituito un’attenuante.”
“Non
mi importa. Ero pronta ad andare in carcere, se questo fosse servito a far
smettere quegli incubi…”
“Che
cos’è successo quando è andata da Gatwick? La rabbia ha avuto la meglio sulla
razionalità?”
“Mi
ha aggredita verbalmente. Ha cercato di colpirmi. Non avrei voluto ucciderlo.
Volevo soltanto sparargli a una gamba, fermarlo… ma in quella situazione non
potevo essere precisa nel prendere la mira.”
“Sergente…”
“So
di aver sbagliato, agente Gibbs, ma… sono contenta di averlo ucciso.”
Milioni
di domande gli vorticavano ancora per la testa. Riuscì ad afferrarne una. “Gli
incubi sono finiti?”
“Sono
meno frequenti, ma non credo finiranno mai.”
“Crede
di aver fatto la cosa giusta, sergente?”
“No.
Ma avrei potuto. Se solo non mi fossi voluta vantare con lui…” Si interruppe, e
si lasciò cadere su una panchina.
Gibbs
rimase a guardarla per un paio di minuti, in silenzio. I lunghi capelli castani
le spiovevano davanti al viso, nascondendolo quasi completamente. Senza la
divisa, il sergente Harrison era davvero una bella ragazza. Provò ad
immaginarla con la divisa del carcere. Scosse la testa e scacciò
quell’immagine. Voleva ricordarla così, seduta su quella panchina, con lo
sguardo perso nel vuoto, e l’ombra di un sorriso sul volto. Si sedette accanto
a lei. Soltanto in quell’istante si accorse che teneva tra le mani qualcosa.
“Agente
Gibbs, io mi fido di lei.”
Quella
rivelazione lo stupì.
“Queste
sono le prove di ciò che le ho raccontato” continuò, porgendogli una pen drive.
“Non voglio che finisca nelle mani sbagliate.”
“Che
cosa crede che dovrei farne?”
Diane
Harrison scosse le spalle. “Ne faccia quello che crede. Allora, intende
arrestarmi, adesso?”
“Lei
ha ucciso un uomo.”
“Questo
non risponde alla domanda che le ho fatto.”
Questa
volta fu lui a distogliere lo sguardo. “Non l’arresterò, sergente Harrison. Non
oggi.” Si alzò, infilando la pen drive nel taschino interno della giacca. “Si
costituisca.”
Se
ne andò, lasciando il sergente Harrison sola su quella panchina.
***
Nella
semioscurità della stanza, Gibbs inserì la pen drive nel computer. Mentre
attendeva il caricamento dei documenti, fissò la foto del sergente Harrison.
Senza rendersene conto, sorrise. Aveva sempre avuto una predilezione per le
donne con i capelli rossi, ma anche quelle con gli occhi grigi non erano male.
Un
trillo proveniente dal computer attirò la sua attenzione. Attenzione: è necessaria una password per accedere ai contenuti del
dispositivo. Una keyword di sei caratteri. Gibbs accennò un sorriso e
digitò la prima parola che gli venne in mente. Trascorse la notte ad esaminare
i documenti raccolti dal sergente Harrison. “Ottimo lavoro, Diane” sussurrò, a
un certo punto.
Una
particolare cartella catturò il suo sguardo. Agente Speciale Gibbs, diceva. Lui la aprì. Conteneva delle
fotografie: fotografie del villaggio di cui Diane gli aveva parlato, fotografie
degli abitanti, fotografie del paesaggio. Una fotografia di una bambina di
circa otto anni, con un sorriso incredibilmente contagioso. Una fotografia che
ritraeva quella stessa bambina in braccio ad una donna in divisa. Gibbs scaricò
le immagini sul proprio pc e le eliminò dalla pen drive.
Mentre
spegneva il computer, squillò il cellulare. “Gibbs.”
“Capo,
abbiamo un reo confesso per l’omicidio del colonnello Gatwick. Il sergente
Diane Harrison” lo informò DiNozzo, all’altro capo del filo.