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Autore: Ayumi Zombie    10/12/2010    1 recensioni
Una serie di racconti più o meno legati tra loro, tutti ambientati nello stesso futuro.
Spero di avere in comune soltanto una cosa, con questa sottospecie di civiltà. Il bisogno di andare in bagno.
o1: Che fine faranno, i libri?
Il mio corpo era svanito, scomponendosi in pixel verdi, gli stessi che mi avevano causato il formicolio, spariti un istante dopo essere nati.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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PERSONA;ALicE

Sentii un formicolio risalire le mie gambe, e, dietro di sé, lasciare una stranissima sensazione di vuoto. Lentamente si arrampicò fino al mio ventre, e, finalmente, mi decisi a guardare giù. L’unico problema era che non ci fosse più, un giù da guardare - e potrei dire che, quando me ne resi conto, mi saltò il cuore in gola. Ma non avevo mai avuto né un cuore né una gola, e in quel momento la cosa si rese più evidente del solito. Quando sbattei le palpebre, sconvolta, non avevo avuto il tempo di dire una parola. Sia perché quello era stato il mio ultimo battito di ciglia, sia perché la mia bocca si era dissolta un istante dopo averla aperta. Qualunque cosa volessi dire.
Il mio corpo era svanito, scomponendosi in pixel verdi, gli stessi che mi avevano causato il formicolio, spariti un istante dopo essere nati.

Quando riacquistai coscienza, ero legata.
Non mi stupii del fatto di non essere libera di muovermi, o, almeno, non tanto quanto l’aver aperto gli occhi. Se li avevo aperti, ragionai, significava che li avevo. Se non riuscivo a liberarmi, significava che avevo qualcosa da cercare di liberare. Non rimasi a chiedermi come mai fossi ridotta ad un insaccato volante, ma piuttosto mi domandai come potessi aver riavuto indietro il mio corpo.
Il bianco, attorno a me, mi abbagliava. Il silenzio mi stordiva. Ero sospesa in aria, nel vuoto - niente pavimento, soffitto o pareti, nessun luogo in cui scappare, al contrario della stretta stanzina in cui ero nata -, legata da cinghie grigie che mi avvolgevano e costringevano alla posizione fetale. La testa, però, era libera di muoversi. La girai a destra e sinistra, e, con sorpresa, notai dei punti, in lontananza. Uno per ogni mio fianco, uno persino davanti a me, uno sopra. Credo ve ne fossero anche sotto e dietro di me, ma non ne sono sicura.
D’improvviso, un enorme schermo, sospeso, come me, mi si parò davanti.

File:..................PERSONA;ALICE
Autore:...............L-CARROLL-BRIT
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Velocità di Download:...5 min 06 sec


Una voce meccanica, asessuata, li lesse per me. Me ne chiesi il motivo: avrei potuto benissimo farlo io, e quelle lettere quadrate erano sempre state stampate sul corpo, le prime due frasi, almeno. Nel momento in cui terminò di parlare, mi sentii violentemente spostata verso destra, a velocità elevatissima, per un tratto molto lungo, fino a percorrere una distanza che mi permise di riuscire ad individuare qualche caratteristica del punto di fianco a me: anche lui sembrava avere una figura umana come la mia, i capelli blu, corti, fluttuavano nell’aria, come avevano fatto i miei. Sembrava essere addormentato. I miei, verde acqua, acconciati nei soliti codini alti, lunghi fino ai piedi, mi schiaffeggiarono il volto, senza pietà, per tutto il tragitto; per poi improvvisamente fermarsi e ricadermi ai lati: la corsa era finita.
Ripresi a respirare, lentamente, per calmarmi. Emisi l’ultimo sospiro, per iniziare a cadere. Dico cadere, ma la sensazione era più quella di venir risucchiata da un tubo invisibile.
Ed accadde di nuovo, mentre cadevo: prima le cinghie, poi io, venimmo scomposte, sempre per mezzo di quei dannati pixel verdi.
Ma, stavolta, urlai.

«Perché non sei andato a trovare il nonno, piuttosto?» domandò la donna, sorvegliando distrattamente il coltello automatico che si occupava del tagliare le carote. Le scappò un sorrisetto, quando pensò a quello dei Jones. Ne avevano parlato al telegiornale, e si era presa un colpo, perché lo avevano ordinato allo stesso negozio online in cui lo avevano comprato loro.
«Perché piove, mamma.» rispose il ragazzo, con aria stizzita.
«Hanno inventato le aree asciutte, caro.» replicò lei. Beh, però il loro era un coltello di marca migliore. Non avrebbe preso a muoversi da solo e tagliare a fette una famiglia, con tutto quello che lo avevano pagato.
Federico sbuffò. «Vado a fare i compiti, mamma.», tagliò corto.
Rimuginò un po’, dopo essersi messo a sedere sulla muovisedia che lo avrebbe portato in camera sua.
Non poteva dirle che non era andato a casa del nonno perché temeva per la propria incolumità. Tutti sapevano che il vecchio Rose era completamente suonato, e che i suoi parenti non avevano idea di che pesci pigliare, con lui.
Per prima cosa, non aveva voluto sottoporsi agli interventi anti età: così, il suo volto era segnato da orribili rughe, macchie, e i suoi capelli erano di un innaturale bianco candido (ma a questo ci sarebbe stato rimedio entro due anni, quando avrebbero approvato la legge pro-lifting; così lui e tutti quei mostri che osavano girare per le strade sfacciatamente, con il viso che madre natura aveva dato loro, si sarebbero finalmente adattati al sistema).
Poi, andava blaterando di cose come la diversità è bella, o le classificazioni sono per gli oggetti, non per gli esseri umani. No, vecchio pazzo, gli rispondevano con garbo gli psicologi, non è vero. Un mondo tutto uguale è un mondo ordinato, ed in un mondo ordinato si vive meglio; le classificazioni servono per ordinare, ed in un mondo ordinato si vive meglio.
E la pazzia finale, la loro grande vergogna: spendeva i soldi in maniera inutile. D’accordo, era stato lungimirante, nel conservare le banconote cartacee, ma, se ne avesse vendute di più, invece di fissarsi con quella ridicola faccenda del ricordo, avrebbe potuto guadagnare più denaro, e, con quel denaro, la famiglia lo avrebbe cortesemente invitato a pagarsi le cure psichiatriche a cui rifiutava di sottoporsi. Ma lui no. Lui, con quel denaro, comprava libri. Non gli audiolibri, quelli che scarichi da internet, ti infili nelle orecchie e via!, no. Quelli in carta. La carta serve per pulirsi il sedere, vecchio pazzo. Aveva un’intera stanza adibita a biblioteca. Non aveva intenzione di usare nemmeno il riduttore (il comodo oggettino inventato nel 2027, quello che assorbe gli oggetti e poi li rigetta quando servono. È stato creato semplicemente perché riordinare prende tempo, e il tempo è denaro, e con il denaro si può prendere ciò che rende felici: il vecchio Rose può polemizzare quanto vuole, ma è così), li voleva vedere bene. E ne andava persino orgoglioso, di quel vecchiume.
Una volta entrato nella stanza, mosse la mano di fronte allo schermo del computer, che si accese. Gli vennero in mente tutti gli altri poveri pazzi che avevano proposto al Nonno Rose di vendergli i libri a cifre spropositate, e lui no, la mia divina commedia di edizione 2010 (2010! Ma che robaccia è, vendila, le cose vecchie servono solo fino a che non ne esce un nuovo modello) non l’avrebbe mai data a nessuno.
Federico girò un po’ a vuoto con il dito, alla ricerca dell’icona. Aveva appena eseguito il download del file di compito, e ne aveva scaricata l’icona sul desktop, per non doversi dannare a cercare nella cartella Documenti. La trovò, e pensò che fosse un’immagine stupida: una testolina sorridente con grandi occhi verde acqua e lunghi codini dello stesso colore. Annoiato, la toccò.
Dopotutto, doveva fare quel maledetto riassunto. Aveva notato che persino la professoressa cercava di nascondere il disappunto di dover fare quella noiosa letteratura antica, per di più scritta ancora in inglese (rendiamoci conto, una volta ogni popolo aveva una lingua tutta sua!) e che aveva una storia infinitamente infantile e senza senso. Parlava di una ragazzina che finiva in un mondo magico (non ci crede più nessuno, neanche i bambini) e delle sue avventure totalmente insensate che si ritrovava a vivere lì. Ed ora era costretto a sorbirselo tutto. Fantastico, un pomeriggio perso: avrebbe potuto invece andare alla sala giochi, insieme ai suoi amici, per immergersi in Wonderland, un videogioco online di ambientazione fantasy che connetteva milioni di persone, al mondo. E, invece, si doveva sorbire la voce di una ragazzina inesistente leggere una stupida favoletta con uno stupido titolo, Alice nel paese delle meraviglie.
Ma che schifo.

Di nuovo, spalancai gli occhi. Guardai in basso, e, con mia grande sorpresa, notai che il processo dei quadratini stava avvenendo al contrario: li avevo odiati per due volte, mentre stavolta mi ritrovai a ringraziarli, pur non continuando a non sapere cosa fossero. Ora mi stavano ricostruendo le gambe. Le calze nere, lunghe fino a metà della coscia bianca, con il bordino intonato ai miei capelli; le scarpe dello stesso colore. Per quanto potesse sembrare assurdo, giuro di essermi sentita confortata.
Alzai il volto: di fronte a me, iniziava un testo. Era lunghissimo, e, pur non essendo scritto sopra nessun materiale, formava un infinito nastro che sembrava riempire quasi tutto l’enorme spazio bianco in cui, come al solito, mi trovavo. Si avvolgeva in larghe spire attorno a me, per poi passarmi sopra e sotto, girare attorno a un invisibile albero e passargli attraverso.
D’improvviso, mentre ero impegnata a guardarmi attorno, chiedendomi dove finisse l’infinito flusso di parole, una nota cristallina risuonò nell’aria, e il capolettera si illuminò: era arrivato il momento di cominciare a cantare.

Alice, seduta sulla sponda del ruscello, accanto alla sorella, si sentiva annoiata perché non aveva nulla da fare.
   
 
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