Dove sei adesso che il passato ci ha detto addio e la sua porta si è chiusa per sempre?
[Prompt #75 – Fine]
“Che
la luce
Illumini
la notte
Come
il Tuo spirito
Illumina
la mia anima
Papà,
puoi sentirmi?
Papà,
puoi vedermi?
Papà,
puoi trovarmi
nella
notte?
Papà,
mi sei vicino?
Papà,
puoi sentirmi?
Papà,
puoi aiutarmi
a
non avere paura?
Guardando
il cielo
vedo
milioni di occhi
ma
quali sono i tuoi?
Dove
sei adesso che il passato
ci
ha detto addio e la sua porta
si
è chiusa per sempre?
La
notte è molto più oscura
il
vento è tanto più freddo
il
mondo è così più grande
ora
che sono sola …
Papà,
per favore, perdonami,
cerca
di capirmi,
papà
non lo sai che non avevo scelta?
Papà,
ascoltami pregare
anche
quando la notte è piena di voci
Ricordo
ogni parola che tu mi abbia detto
ogni
libro che io abbia letto.
Possono
tutte le parole
di
tutti i libri
spiegarmi
come affrontare
le
bugie che ho ascoltato?
Gli
alberi sono molto più alti
ed
io mi sento così piccola …
la
luna è due volte più sola
e
le stelle sono brillanti la metà
di
quanto erano”.[1]
La
notte del Quindici Dicembre di due anni fa Max la ricorda
perfettamente.
Faceva
freddo, quasi più di ora, e lui si era rannicchiato stretto
con le gambe al petto sotto le coperte. Il nuovo album degli Escape
The Fate era uscito due mesi prima, si sentiva solo come non mai.
Non
avrebbe saputo, se avesse dovuto, dire quando quella sensazione era
stata sostituita da una più dolorosa resa. Ma il compleanno
dell’anno dopo era
stato diverso, con Lexus, con gli amici.
Ora
gli sembra di essere di nuovo come quel giorno in cui di Ronald si
persero le tracce e, di fronte il televisore, voleva soltanto che
quell’incubo finisse,
tutto il dolore doveva sparire.
Nulla
era mutato, dopotutto. È ancora un ragazzetto insicuro e un
po’ stupido, ha
raggiunto il successo senza neanche accorgersene.
Al
posto del petto, troppo spesso, gli sembra d’avere
delle lame affilate.
Prima
o poi Ronnie sarebbe uscito, era naturale, ma quando chiunque
scriveva, tre giorni fa, “è fuori”, lui voleva
semplicemente essere felice come loro.
Non
ne è stato capace.
La
canzone che dedica a Max ogni anno è sempre la stessa, quasi
monotona ormai. “Make Up”.
Un
brano che avrebbe meritato qualcosa in più, e come lui è
finito in un cestino, dimenticato, amato soltanto da qualcuno che
non gli da quanto avrebbe il diritto di ricevere.
È
sul suo letto, seduto, sommerso da scartoffie di qualsiasi genere:
molte del tribunale, documenti, assicurazioni, bollette, lettere,
contratti discografici, testi di canzoni, partiture e spartiti. Anche
un paio di vecchi CD stipati sotto una maglietta raffigurante una
donna dalle labbra rossa e il volto ferito.
Ventisette
anni. Ha il tempo di ricordarsi d’aver
trascorso così tanti anni sulla terra soltanto ora che è
sera, ancora non è libero da tutti gli impegni. Ringrazia
quello stesso lavoro: lo distrae, gli distoglie l’attenzione,
lo aiuta a non pensare che Maxwell non abita più a Las Vegas e
che se volesse raggiungerlo dovrebbe faticare molto. E faticare per
Maxwell, dov’è e
com’è –
soprattutto com’è
– ora sarebbe inutile.
Google
dice: “265 miglia; 4 ore e 24 minuti”.
A
volte lo capisce. Ed è smarrito e senza voglia di proseguire.
Capisce d’aver perso
l’occasione: con
Roanld, con gli Escape The Fate. Potevano imboccare qualsiasi strada
e quella che avevano scelto, forse, è la più sbagliata.
La musica non è quella di un tempo, bella. È un
prodotto plastificato e pronto per essere venduto a un gruppo di
ragazzine facilmente sovra-eccitabili a sentire i nomi di “Satana”
o “Marylin Manson”. È piacevole guadagnare
suonando, ma il problema è quel suono. Non è
certo che gli vada a genio.
Se
lo immagina accerchiato da belle ragazze, dopo mesi in carcere è
anche lecito. Ci sarà sempre quel piccolo frammento di stomaco
– o fegato, o cuore, qualsiasi organo insomma – a
dolergli nel pensiero di lui con qualcun altro.
Sicuramente
deve essersela spassata Maxwell mentre lui marciva in quel carcere
senza poter mangiare quello che voleva, non scriveva la sua musica
ché le penne erano considerate oggetti appuntiti, doveva
svegliarsi presto al mattino e seguire una routine disgustosamente
prefabbricata. Eppure in quelle ventiquattro ore da incubo c’era
più sanità di quanta ce ne fosse mai stata con Maxwell.
Non
sono mai stati creati per stare insieme e starci bene. O dolore, o
ancor maggior dolore per la perdita.
Forse
ci sono un mucchio di parole che vorrebbe dirgli – e che non ha
mai avuto il coraggio di pronunciare?
La
prima, senz’ombra di
dubbio: non ha mai sopportato le sue innumerevoli bugie.
… è
ancor doloroso pensare di avergli mentito tante di quelle volte …
… lo perdonava per puro affetto …
… non avrebbe mai voluto trascinarlo in quel pozzo di disperazione …
… lo aveva seguito nell’esperienza della droga per non abbandonarlo o farlo sentire solo …
… la merda era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso sempre in procinto di distruggersi: il loro rapporto …
… e gli dispiace. Non ha mai trovato il coraggio di scrivergli delle lettere.
Ma avrebbe anche potuto scrivergli una lettera!
D’altronde è inutile piangere sul latte versato.
Le lacrime di coccodrillo non aggiusteranno la situazione.
[Da giovane Maxwell era stato obbligato dalla sua professoressa a leggere il “De Profundis” di Oscar Wilde. A ricordarlo nel giorno del suo ventiseiesimo compleanno, pensa che non ci sia mai stato niente di più appropriato per lui e Ronald:][2]
… si
cercavano, si perdevano, si perdonavano, si stringevano le mani e di
nuovo si deludevano.
Come
sarebbero mai sopravvissuti anche nella vecchiaia in quel modo? È
disumano.
… non
sono più bambini, sanno bene che è impossibile
realizzare ogni desiderio …
… certe persone, semplicemente …
… non sono fatte per stare insieme …
… perché per quelle persone non basta un “fino alla morte” …
… c’è
bisogno del “per sempre” …
… e
agli esseri umani non è concessa la fottuta’
eternità.
Buon compleanno.
[1]
Testo di “Papa can you hear me?” Barbra Streisand.
[2]
Il “De Profundis” di Oscar Wilde è una lettera che
l’autore scrive al suo
amante Lord Alfred Douglas. L
i a r una volta mi disse che secondo lei il Lord era stato
l’unico vero amore
della vita di Oscar Wilde, e quest’idea
mi ha un po’ –
diciamo così – condizionata quando ho letto il “De
Profundis”. Per me, quindi, quella storia tormentata e finita
male è soltanto il destino di molte coppie sfortunate che
meriterebbero un per sempre che non possono avere, una sorta di
tormento che sentono inconsciamente, che non sanno di avere, che però
condiziona tutto profondamente.
Boh.
Un bel ’fanculo a me e
a questi due, hn? Che brutta giornata, Dio.
Be’,
spero vi sia piaciuta.