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Autore: Lady Lucilla    24/12/2010    1 recensioni
La storia di un soldato, della sua paura di morire e di una guerra che sembra on essere realmente finita...
Genere: Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il giovane soldato se ne stava seduto davanti al grande falò che avevano allestito nella capitale e osservava le fiamme altissime che lo sovrastavano e che illuminavano la notte.
Intorno a lui tutti ballavano e cantavano, abbracciati in un grande cerchio che attorniava il falò e che danzava a ritmo dei tamburi e dei violini.
Il ragazzo, felice perché la guerra era finita e felice perché era ritornato a casa dalle persone che amava, se ne stava seduto, stanco dei troppi balli, a riposare.
Teneva gli occhi piantati sulle fiamme davanti a lui, affascinato dalla potenza del fuoco che bruciava la legna, le armi e le divise.
Improvvisamente però i suoi occhi verdi come lo smeraldo furono attratti da qualcuno che si era tolto dalla fila del cerchio, che era andato a sedersi davanti al fuoco e che, come lui, si era messo a fissare le fiamme rosse.
Il giovane soldato aguzzò la vista e puntò lo sguardo su quella persona.
Era una donna, una giovane donna, bella, dai lunghi capelli neri come la pece, ricci e crespi che le incorniciavano un viso pallido e magrissimo.
In quel viso se ne stavano sue labbra rosse come il sangue e due occhi rossi incastonati nella pelle di diamante, due grandi occhi rossi che non stavano fissando le fiamme, ma che stavano fissando lui.
Un brivido diaccio percorse la schiena del ragazzo e fu un brivido tanto intenso che fece scattare in piedi il soldato che, impietrito, non riusciva a staccare lo sguardo da quella bellissima e terribile donna davanti a lui.
I suoi occhi erano rimasti incastrati i quelli della ragazza che, immersa nel suo lungo vestito nero, continuava a fissarlo.
Il giovane non capì per quanto tempo rimasero a guardarsi, era ammaliato dal suo sguardo, ma allo stesso tempo sentiva una voce terrorizzata che gli stava urlando di scappare, di salire in sella al cavallo più veloce della città e di andarsene lontano, ai confini del paese, anche oltre, l’importante era fuggire da quella donna davanti a lui.
 
Le gambe cominciarono a muoversi da sole nell’esatto istante in cui la giovane sorrise al soldato mostrandogli una lunga fila di denti bianchi e perfetti.
Il soldato, terrorizzato da quegl’occhi e da quel sorriso, voltò le spalle alla donna e, con passo veloce, si avviò verso le case del paese con l’intenzione di saltare in sella al primo cavallo e di fuggire.
Poco prima che raggiungesse la fine del cerchio di luce che proiettavano le fiamme, un braccio forte e muscoloso prese la sua spalla e una voce imperiosa disse:
“L’eroe di questa guerra non può abbandonare la sua festa!”
Il soldato lanciò uno sguardo verso il suo vecchio compagno di guerra e sibilò:
“Lasciami andare te ne prego!”
“Non prima di aver parlato con il nostro re, vuole incontrarti e non puoi rifiutarti!”
Il ragazzo, che conosceva bene la legge, sapeva che non poteva sfuggire al volere del suo sovrano, così, chinando la testa, fece dietrofront e si avviò, insieme al suo compagno d’armi, verso la postazione in cui risiedeva il re, una grande tenda rossa che troneggiava poco lontano dai grandi falò.
Il soldato si trovò così al cospetto del suo sovrano, uomo amato dal popolo e uomo che aveva messo fine alla guerra che devastava il suo paese.
Il re guardò il giovane, riconoscendolo, allargò le braccia e sfoggiò il suo sorriso migliore, poi disse:
“Ecco il vero eroe di questa serata, ecco il vero protagonista delle storie che racconteranno su questa sanguinosa guerra!”
“Mio signore...” disse il soldato con la voce spezzata dalla voglia di andarsene di corsa da quel luogo che ormai gli incuteva solamente paura.
Il re si alzò dal suo trono e andò i contro al giovane che, poco prima di inginocchiarsi, venne ghermito dalle braccia del re e ricevette il suo abbraccio.
In quell’istante cadde il silenzio, le danze si fermarono e tutti i presenti alla festa si voltarono per assistere a quella scena inaudita.
Il re, lasciò il giovane soldato che, sconvolto, non riuscì a dire nulla.
“In battaglia non solo hai ucciso moltissimi dei nostri nemici spargendo il loro sangue, ma hai anche salvato la vita del tuo sovrano frapponendoti tra lui e l’aguzza lama di un nemico, sei il soldato che ha realmente salvato questo paese e che è degno della nostra lode e della nostra stima!”
“Mio signore io...”
“Lasciami finire te ne prego...” poi rivolgendosi a tutti “questo giovane deve essere preso d’esempio per quello che ha fatto, senza curarsi del pericolo ha sempre combattuto con coraggio e ha affrontato i suoi nemici con lealtà, per questo io ringrazio questo ragazzo a nome di tutti noi e gli faccio un dono...”
“Mio signore...” ma il re lo zittì di nuovo.
“Potrà chiedermi qualunque cosa, il suo desiderio più grande verrà esaudito!”
Improvvisamente le parole morirono tra i denti del ragazzo che, stordito per la sorpresa, restò a bocca aperta.
Il re sorrise.
“Qualunque cosa mio giovane amico e compagno!”
I pensieri del giovane cominciarono a turbinare nella sua testa andando a sbattere gli uni contro gli altri, sommandosi e moltiplicandosi tra di loro, infinite immagini si schiacciavano tra le pareti della sua testa ed esplodevano in un’immensità di facce e colori.
Poteva chiedere qualunque cosa, qualunque!
Tra i mille desideri che si affollavano nella sua testa, il soldato, intravide gli occhi rossi della donna che se ne stava seduta davanti al falò e che l’osservava, un brivido gli percorse la schiena e gli fece dire queste parole:
“Mio signore, l’unica cosa che voglio in questo momento è poter andarmene dal paese, lasciarlo il prima possibile in sella al cavallo più veloce del regno!”
“Vuoi abbandonarci?”
“No mio signore! Non lo farei mai! Non potrei! Devo andarmene...lasciarmi alle spalle l’orrore che ho creato, tutti quei giovani che ho ucciso...i loro visi ancora mi perseguitano...devo andarmene...”
Il re lo guardò con occhi straniti e severi, ma lesse negli occhi del ragazzo il vero terrore, così alzò le mani per zittire il vociare della folla stupita.
“Dobbiamo portare rispetto per la decisione saggia di questo ragazzo!” poi guardò il soldato negli occhi e disse “sarai esaudito, questa sera stessa ti sarà fornito il cavallo più forte e veloce delle mie scuderie di modo che tu possa lasciare questi luoghi che tanto ti addolorano!”
Gli occhi del soldato si illuminarono di una nuova  voglia di vivere esplosa nell’istante in cui il sovrano aveva pronunciato le ultime parole.
Avrebbe potuto andarsene quella sera stessa!
“Grazie mio signore!” il re gli mise una mano sulla spalla e sorrise, poi gridò a uno dei suoi uomini di andare a recuperare lo stallone più veloce delle sue stalle e gridò alla folla di ricominciare a festeggiare e a danzare.
Il re guardò poi nuovamente il ragazzo e gli chiese in modo che nessuno lo sentisse
“Ragazzo ho letto l’orrore nei tuoi occhi...che cosa ti turba?” il giovane abbassò gli occhi e disse:
“Mio signore, temo di dover scontare una grande pena per ciò che ho fatto in vita, ho ucciso persone innocenti e ho goduto della loro morte...sento che prima o poi dovrò pagare per ciò che ho fatto!
Per questo voglio lasciare il paese, non sono coraggioso come pensate voi, sono un uomo e ho paura, paura per quello che dovrò scontare!”
Il re non disse nulla, chiuse gli occhi e allargò le braccia congedando il giovane ragazzo che, triste, si inchinò davanti al suo sovrano e se ne andò dalla festa.
 
Il soldato si lasciò alle spalle la città festante. Non salutò nessuno, non aveva nessuno a cui dire addio, erano morti tutti nella grande guerra, era rimasto solo.
In sella al suo cavallo attraversava la campagna che caratterizzava le regioni del suo paese, pianure sterminate di sterpaglie, poi fiori, papaveri, fiordalisi mischiati al grano, poi girasoli, ancora papaveri, grano e ancora grano.
Continuava a cavalcare cercando di non pensare alla nostalgia che gli serrava il cuore ogni volta che si rendeva conto di cosa si stava lasciando alle spalle, il suo paese, la terra che aveva difeso!
Ogni volta che sentiva la nostalgia attanagliarli le caviglie lui chiudeva gli occhi e spronava il suo cavallo a correre più veloce e a distanziare il più possibile quegli occhi rossi che avevano messo paura al più coraggioso dei soldati.
I giorni passarono e il ragazzo attraverso due delle più grandi città del regno e in ognuna di esse, tra la folla, vedere gli occhi rossi di quella donna che sembrava rincorrerlo ovunque lui andasse.
Ogni volta che rivedeva quegli occhi non aspettava un solo secondo, subito saltava in sella al suo cavallo e lo spronava ad andare ancora più veloce e a dirigersi verso i confini di quel regno immenso che sembrava non finire mai.
 
Cavalcava, cavalcava giorno e notte senza mai fermarsi.
Aveva paura, terrore di quegli occhi, di quel volto bianco e di quel mantello nero che lo stavano inseguendo, non voleva fermarsi perché sapeva che se l’avesse fatto non avrebbe potuto mai più ripartire.
 
Ormai al tramonto raggiunse un piccolo villaggio a occidente della capitale, decise di fermarsi per mangiare qualcosa e per far riposare il cavallo.
Entrò in una locanda e chiese all’oste di dargli qualcosa da mangiare e da bere, purché facesse in fretta.
Si sedette e appoggiò la schiena al muro cercando in tutti i modi di nascondere il suo volto in quell’angolo buio della locanda, non voleva che nessuno lo vedesse.
In pochi minuti l’oste gli porto il cibo e il vino, il soldato pagò e borbottò un grazie, poi, poco prima che l’uomo si allontanasse, gli chiese:
“Senta oste, lei conosce per caso qual è l’ultima città del paese?” l’omone che era l’oste, aggrottò le folte sopracciglia e disse con una voce cavernosa:
“Che intendete?”
“Qual è l’ultima città, l’ultima città prima del confine del regno?” ripeté il giovane pentendosi di aver fatto quella domanda.
“Beh, l’ultima città, proseguendo verso ovest, è la città di Samarcanda...ma come mai vi interessa? State scappando?”
Il ragazzo non rispose, buttò la faccia sulla sua ciotola di legno e si portò alle labbra il bicchiere pieno di vino.
“Era semplicemente per sapere...” inghiottì il boccone e ignorò l’oste che, indispettito e ancora sospettoso, si diresse al suo lurido bancone e continuò a lerciarlo con il suo straccio umidiccio.
Samarcanda...l’ultima città prima del confine...Samarcanda...la città della grande battaglia...la grande battaglia prima della pace...Samarcanda, la città morta.
Samarcanda era stata assediata per quasi venti giorni, i nemici non erano riusciti ad espugnarla, ma poi, una notte, decisero di lanciare in città i cadaveri dei morti sul campo in battaglia, sperando che la peste infestasse la città ormai affamata e stanca di quell’assedio senza tregua.
Il morbo non ci mise molto a dilagare silenziosamente nella città, prima uno, poi due, infine cento, mille morti ogni giorno, cadaveri che venivano accatastati nella case, lungo le mura, gettati fuori dalle mura senza ritegno.
La città non ci mise molto a crollare sotto il peso della peste. La città ora era disabitata, nessuno aveva più osato entrarci dopo il grande morbo.
 
Un brivido corse lungo la schiena del soldato che, sdraiato sul collo del suo cavallo, cercava di non pensare agli orrori che aveva commesso i guerra e cercava di concentrarsi sulla strada che doveva percorrere per arrivare ai confini del regno.
Samarcanda, era lì che doveva andare, volente o nolente quello era la sua unica via di salvezza.
Cavalcò per tre giorni e tre notti fermandosi solamente per dormire, per mangiare mangiava in sella al suo fido cavallo che, senza lamentarsi, si spingeva sempre più a ovest, puntando il suo muso nero verso la città di confine.
 
Mentre cavallo e cavaliere si spingevano sempre di più verso occidente il paesaggio intorno a loro cambiava sensibilmente giorno dopo giorno, lentamente sparivano le città fiorenti dell’est e comparivano le città devastate dalla guerra dell’ovest, infatti era lì che la guerra aveva lasciato i suoi segni.
I campi di fiori sparivano, gli alberi erano spogli delle foglie e dei fiori, l’erba era grigia, le strade deserte e dissestate, le case distrutte, segnate dalle pallottole e dai buchi dei cannoni, cimiteri pieni di croci improvvisati davanti alle porte delle città, vedove, orfani e storpi a ogni angolo.
 
Il cuore si stringeva nel petto del soldato che sentiva la sua casacca da militare pesargli sempre di più sulle spalle e sulle braccia.
Gli mancava il fiato ogni volta che incontrava lo sguardo di una donna vestita da vedova o quello di una bambina abbandonata per la strada, priva di genitori e di familiari, uccisi dalla guerra o forse proprio da lui.
Non riusciva a pensare ad altro che alla guerra, ai morti che aveva causato, al dolore che aveva fatto provare, al sangue che aveva versato, e per quello lui era stato premiato?
Che aveva fatto di così prestigioso?
Aveva ucciso!
 
Una mattina, all’alba giunse in una piccolissima città non molto lontana da Samarcanda, il suo cavallo era distrutto e aveva bisogno di riposarsi e in fondo anche lui doveva trovare un posto dove potersi ristorare e recuperare le forze.
Così il soldato decise di fermarsi in quella piccola città distrutta dalla guerra.
Entrò in città e rimase sconcertato da quello che vide.
Non c’era una casa che fosse intatta, non c’era una strada che non fosse ancora disseminata e sporca di sangue, non c’era un muro sul quale non ci fossero i segni della battaglia.
A testa bassa il giovane camminava per le stradicciole della città cercando un posto i cui accovacciarsi e addormentarsi per qualche ora sperando di non essere visto da troppe persone.
Mentre camminava il giovane si era reso conto che la guerra da quei paesi non se ne era ancora andata, mentre alla capitale si festeggiava, lì, in provincia, i soldati si trascinavano ancora per le strade cercando di fermare il sangue delle ferite, le donne rimanevano chiuse in casa e i bambini piangevano per la fame.
La guerra aveva lasciato la sua traccia indelebile, cadaveri, malattie, carestie e dolore.
Improvvisamente il ragazzo girò in una piccola via poco illuminata e lì rimase incantato da quello che vide.
Una ragazza, giovanissima e bellissima, dai lunghi capelli neri e dagli occhi azzurri accerchiati da folte ciglia nere, se ne stava sdraiata a terra e tra le braccia teneva una casacca da soldato tinta di blu e rosso, sgualcita e stracciata, ma soprattutto macchiata di sangue sul petto.
La ragazza piangeva, piangeva a dirotto ed era scossa da continui singhiozzi che le facevano ondeggiare la testa abbandonata al muro dietro di lei.
Il soldato rimase impietrito.
La giovane teneva gli occhi ora aperti ora chiusi e tra i denti bianchi ripeteva ossessionatamente le parole di una vecchia canzone, una canzone da militari, una canzone che cantavano i soldati contro cui il giovane aveva combattuto.
Sussurrava e singhiozzava stringe dosi tra le braccia la casacca del suo giovane amato, ucciso dalla guerra e strappato via dalle sue braccia.
Il soldato non riusciva a muoversi, non riusciva a spostare lo sguardo da quella bellissima ragazza, non riusciva a dire niente, non riusciva a respirare. Non  appena il suo cervello riprese a pensare fece solamente una cosa.
Velocemente si tolse la casacca da soldato dalle spalle e si avvicinò alla giovane, si inginocchiò vicino a lei e gliela mise sulle spalle, forse non le sarebbero piaciuti i colori, ma almeno sarebbe rimasta al caldo, in fondo, adesso, che senso avevano dei colori in confronto al dolore di una ragazza innamorata?
Lei nemmeno si rese conto di quello che le era successo, semplicemente strinse più forte al petto la casacca che teneva tra le braccia magre e bianche e riprese a piangere silenziosamente.
Il soldato rimase qualche minuto a guardarla, poi si inginocchio di fianco a lei, le baciò la fronte e sussurrò:
“Perdonami...”
Poi si alzò e si lasciò alle spalle quell’immagine dolorosa e bellissima allo stesso tempo.
 
Camminò per le vie della piccola città lasciando che la pioggia gli lavasse via le lacrime dal viso e gli pulisse il corpo da tutto quel sangue che aveva versato e che improvvisamente era riaffiorato alla superficie, esplodendo negli occhi addolorati e rossi del giovane.
Camminava, camminava e pensava a quella donna che lo stava perseguitando, aveva ancora paura, ma in qualche modo si era reso conto che non poteva scapparle.
Allora perché non fermarsi e abbandonare le fuga?
Il giovane a quella domanda si fermò nel mezzo di una stradicciola, alzò lo sguardo, chiuse gli occhi e annusò l’aria umida e la sentì entrare nei polmoni congelandoli.
Samarcanda...doveva raggiungere quella città.
Sorrise e poi abbassò la testa, strinse i pugni e disse:
“Hai capito vero? Non mi prenderai adesso, non m avrai qui...a Samarcanda...a Samarcanda!” aprì gli occhi e cercò gli occhi rossi di quella donna che aveva rabbuiato i suoi sogni in quei giorni e che gli aveva infuso nel cuore un terrore senza fine.
Gli occhi non erano molto lontani da lui, lo stavano spando e avevano udito le sue parole, chissà che quelle labbra rosse e carnose non fossero inarcate in un sorriso?
 
Cavalcò tutta la notte, cavalcò e cantò nelle orecchie del suo cavallo, lo incitò ad andare più veloce, lo incitò a galoppare verso l’ultima città che li attendeva, verso Samarcanda.
 
Le prime luci dell’alba baciarono il viso bianco e freddo del cavaliere e infusero una nuova forze negli zoccoli del destriero.
Il sole inondò la campagna ghiacciata intorno ad due viaggiatori e i raggi caldi del disco di fuoco scaldarono l’erba verde smeraldo, svegliata da un leggero vento che soffiava sulla schiena incurvata del giovane soldato che non aveva smesso un secondo di cantare all’orecchio del suo fido compagno.
 
Cavalcarono, e alla fine i loro sforzi furono premiati.
All’orizzonte, avvolta da un alone bianco e rosso, se ne stava l’imponente città di confine, l’enorme e maestosa Samarcanda.
Alta e cinta da mura invalicabili la città emergeva dalla pianura ghiacciata come uno scoglio in mezzo all’oceano.
Il soldato non rallentò la sua corsa, anzi, spronò il suo cavalo a galoppare più veloce, in fondo non era poi più così lontana Samarcanda.
 
Le grandi porte si facevano sempre più immense e finalmente il giovane ci si trovò davanti e le poté ammirare in tutta la loro immensità.
Frenò la corsa del suo cavallo e la frenò una volta per tutte, erano arrivati.
 
Le porte della città erano immense, di legno massiccio e resistente, ma portavano i segni dell’appena conclusa battaglia.
Graffi, bruciature e buchi avevano intaccato lo splendore delle incisioni e dei bassorilievi sulle due porte.
I segni della grande guerra.
Il giovane si guardò intorno e vide che la strada era costellata d buche profonde e non, da squarci e da solchi.
Passò una mano sulla criniera del suo cavallo e poi si lasciò scappare un sospiro, possibile che la sua corsa si dovesse fermare proprio lì? Dov’erano morti molti dei suoi compagni e dov’erano morti molti dei suo nemici?
Il suo esercito aveva assediato la città e aveva sparso la malaria tra le casa uccidendo moltissime persone, ora lui doveva affrontare la stesa fine, proprio lì dove anche lui avrebbe dovuto morire!
Alzò lo sguardo e vide davanti a se, in mezzo alla polvere bianca della strada, una figura nera, alta e snella, che portava un lungo mantello nero con cappuccio e sotto quel cappuccio due occhi rossi e due labbra color del sangue.
Il ragazzo sorrise tristemente, scese da cavallo, diede le spalle alla donna e disse nell’orecchio al suo compagno:
“Vattene di qui, non è posto per un cavallo come te!” diede un colpo alla schiena del cavallo per incitarlo ad andarsene, ma il destriero nitrì e lo fissò con i suoi grandi occhi neri, era troppo tardi per salutarsi, avevano condiviso troppo.
Il cuore del giovane si riscaldò diede un bacio al muso del suo amico e poi si girò nuovamente verso la donna che invece era rimasta immobile.
Il ragazzo deglutì e poi disse:
“Chi sei?” il vento sollevò altra polvere e, nel suo soffiare, la voce melodiosa della donna risuonò come una risata maligna.
“Veramente non l’hai capito soldato? Eppure ci siamo visti così tante volte!”
Il soldato sorrise nuovamente, che domanda stupida aveva fatto.
“Ho avuto paura quella notte...mi guardavi con certi occhi...per questo sono scappato!”
La figura vestita di nero allargò un poco le braccia che risplendettero di bianco sotto i raggi morti del sole.
“Non volevo spaventarti, solamente, temevo che non arrivassi in tempo qui a Samarcanda, noi avevamo un appuntamento e temevo che tu, ascoltando i tamburi e i flauti della festa, non arrivassi in tempo!
Avevi già mancato un appuntamento con me, ero stupita che tu potessi ancora ballare sulle tue gambe ragazzo!”
Il giovane sentì il sangue gelarsi nelle vene, deglutì, e disse:
“Mi dispiace di averti fatta aspettare...”
“Sei pronto adesso?”
“Vorrei...vorrei poter vedere la città...” ma la donna scosse la testa da sotto il cappuccio.
“Mi dispiace, questo non te lo posso permettere, potrai varcare questa soglia tra poco, al mio fianco, come hanno fatto molti dei tuoi compagni e dei tuo avversari...prima devi darmi la mano, entrerai con me in città, di fronte e noi due le porte della città morta si apriranno ancora una volta...”
Il soldato sorrise e capì.
Guardò un’ ultima volta intorno a sé, i campi, la pianura ghiacciata, il sole rosso che ancora non era abbastanza alto per scaldare l’erba verde smeraldo a terra, gli alberi in lontananza, le grandi mura grigie della città e la porta maestosa davanti a lui.
La donna allungò un braccio bianco e mostrò una mano altrettanto bianca e scheletrica al giovane che, persa la paura, mosse i primi passi verso di lei.
Arrivò a meno di un metro dalla donna, alzò il braccio e prese la mano gelida della donna.
Improvvisamente un colpo di vento investì in pieno i due giovani e il cappuccio della donna si sollevò e lasciò vedere al giovane in viso che per tanto tempo l’aveva tormentato.
Non era un teschio e non aveva le orbite degli occhi cavi, era il viso di una donna bellissima, un viso dalla pelle bianca come il latte, così bianca da sembrare trasparente, gli occhi erano grandi e rossi e le labbra carnose.
La giovane donna gli sorrise e gli strinse le dita tra le sue, un altro colpo di vento, un rombo alle spalle della città, un tuono e il viso, per pochi istanti, divenne di ossa bianche e lucide, poi tornò com’era prima.
Il ragazzo non ebbe paura, strinse a sua volta la mano scheletrica della giovane e questa volta sentì il freddo delle sue dita passagli nel corpo, attraversargli il braccio, paralizzargli il respiro e abbracciargli il cuore che, in un ultimo sussulto smise di battere.
Lui chiuse gli occhi, lei sorrise.
Lui si avvicinò a lei, si mise al suo fianco e alzò la testa verso le mura davanti a loro che, finalmente, con un lento cigolare si aprirono e lasciarono entrare all’interno della città la Morte e il suo ultimo amore. 
  
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