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Autore: La Mutaforma    29/12/2010    2 recensioni
Il rapporto tra genitori e figli è il prmo ricordo di ognuno di noi. Per alcuni è bellissimo. Per altri è un incubo dal quale cercano di fuggire costantemente. E Tidus doveva collocare il suo odio a molto tempo addietro... -Prima ff della mia nuova "saga"-
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tidus
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In your darkness

–“Se non tornerà mai più, non riuscirai mai a dirgli quanto lo odi!”–

 Tidus guardò con aria corrucciata le acque che avevano inghiottito suo padre. Non disse nulla, si limitò a guardare. Il mare si muoveva sinuoso per pochi soffi di vento, le acque in qualche piccola onda orlata di spuma bianca e con pochi baci accarezzavano e lasciavano con regolarità le rive sul porto. Se ne stette seduto sul ponte, a guardare non in basso, non in alto: dritto, dinnanzi a sé. Le gambe penzoloni, sospese a tre metri di altezza dal pelo dell’acqua, si dondolavano avanti e indietro, in modo ritmico. Sembrava che non si annoiasse. Ma nemmeno che aspettasse qualcosa.
Era semplicemente lì, a vedere la linea di tempo scorrere sotto i suoi occhi, inerme mentre la giornata andava consumandosi. I suoi occhioni azzurri riflettevano quello che era stato e quel che rimaneva della sua famiglia sfaldata. Gli costava ammetterlo, ma suo padre era la spina dorsale della famiglia. E senza di lui nulla sarebbe più stato com’era prima. Non aveva mai avuto una paura così forte del cambiamento. Del futuro incerto. Di una nuova routine. Perché, come girava il mondo, il suo mondo, si aveva sempre una routine.
Anche adesso, che mancava suo padre. Ora che sua madre era così presa dalla sua scomparsa che nemmeno lo guardava, perché suo padre era più importante. Forse, nel suo inconscio, lo sapeva già da prima che Jecht partisse. Per questo lo odiava tanto. Perché di lui ci si poteva sempre fidare, perché non si poteva fare nulla senza di lui. Era indispensabile. Lui solo un optional, probabilmente un capriccio di sua madre, di suo padre, o di entrambi, chissà. E la cosa che odiava più di suo padre in quel momento, era la maledetta situazione di non poterlo sostituire per sua madre.

–“Se non tornerà mai più, non riuscirai mai a dirgli quanto lo odi!”–

Non gli importava di quello che gli aveva detto la mamma. Per lui l’importante era uscire dall’ombra di suo padre. Credeva che con la sua scomparsa si fosse liberato per sempre di lui, della sua maledetta ombra. E invece, immaginando di non riuscire a vedere il suo riflesso nell’acqua, il bambino pensò fu di essere diventato l’ombra di se stesso, l’ombra di un sogno, di un’ambizione che aveva cercato di raggiungere nel modo più facile. E non era importante se non sarebbe mai riuscito a dirgli la verità. Forse. Non quando, inconsciamente, sentiva di aver causato tutta quella vicenda, quello sfaldamento minaccioso che lo stava portando alla rovina. Che stava facendo soffrire sua madre, quando le sue intenzioni erano quelle di averla tutta per sé, di vederla sorridere solo per lui. Si sentì improvvisamente coraggioso, e fissò attento la cresta del mare, in attesa che qualcosa riemergesse dalle acque. In caso fosse tornato suo padre dal suo viaggio, cosa avrebbe detto? Cosa avrebbe fatto? Se per dirgli che lo odiava doveva rivederlo, allora preferiva restarsene nella sua ombra, nell’anonimato, trattenendo per sé i suoi sentimenti, il suo grande rancore.

 –Ti odio…– biascicò il bambino, gettando il più lontano possibile un sasso che aveva in tasca.

 Sperò che quel sasso fosse arrivato abbastanza vicino a suo padre, disperso chissà in quali onde di chissà quali acque, per riferirgli quel messaggio sincero quanto poco gradito. –“Se non tornerà mai più, non riuscirai mai a dirgli quanto lo odi!”– Aveva sette anni quando sentì quanto fosse frustrante la stessa condizione di un insetto piccolissimo, senza l’abilità di poter essere nemmeno vagamente infastidire gli altri, attirandone l’attenzione. La condizione di un’ombra sovrastata da un’ombra ancora più grande. Di una sagoma che lo avrebbe tormentato per sempre. Ebbe la vaga sensazione che, mentre sua madre soffriva tanto, ammalata per la mancanza del marito che sembrava darle forza e vigore, lui valesse meno della figura retorica del moscerino. Era inesistente agli occhi di sua madre sospirante davanti alla finestra, con gli occhi persi tra i flutti del mare che avevano inghiottito una parte di sé con il marito.

–“Se non tornerà mai più, non riuscirai mai a dirgli quanto lo odi!”– gli aveva detto.
 
Certo, aveva pensato Tidus. E se nel caso fosse tornato, sarebbe stato lui ad andarsene. O almeno era questo quello che si diceva. Che sarebbe andato via, anche se stava molto male nell’abbandonare sua madre. La fuga era un sogno che non aveva mai cercato di realizzare prima della scomparsa di Jecht. Ora la fuga era la sua realtà. Era un pensiero in cui gli piaceva cullarsi quando non c’era nessuno disposto a farlo quanto quel sogno. Quando sua madre era troppo presa dalla recente scomparsa di suo padre e prim’ancora dalla presenza di suo padre.
Il suo sogno era di fuggire, spiccare il volo, come i gabbiani in porto. Perché non ci credeva che poi i gabbiani tornassero. Si posavano su scogli lontani, e riprendevano il volo, posando il loro sguardo su chi aspettava a casa e chi era disperso in mare. E sperava che nessun gabbiano tornasse come una colomba con un ramo d’ulivo nel becco portando notizie di suo padre. Mai. Il suo sogno era di fuggire, spiccare il volo. Ma i pulcini di gabbiano hanno bisogno della mamma per imparare a volare. Lui si sentiva sempre più solo quando più spesso era con la mamma.
Ogni mattina, afferrava lo zainetto e ci metteva dentro i suoi giocattoli più belli, un pugno di guil, rimanenza di un regalo di chissà quale festività, due merendine, un cappellino e il suo pallone. Sarebbe diventato marinaio, avrebbe viaggiato per mare. Poi, avrebbe fatto carriera come blizter: sarebbe diventato migliore di suo padre. Avrebbe così rivendicato tutto quello che era successo in quei sette anni, che non sarebbe mai stato pari a quello che suo padre aveva fatto in un giorno solo. Sparire. Ogni mattina, usciva dalla sua cameretta e se ne andava in cucina a salutare la mamma, per dirle un ultimo addio.La salutava piano, dall’uscio della porta. Sua madre lo sentiva ma non si voltava assolutamente. Nemmeno un cenno di riconoscimento, come se non riconoscesse più neanche il suo stesso figlio.
Così, sicuro e pieno di ardore, se ne andava al porto, aspettando che la sua nave arrivasse per portarlo via. Ma ad ogni nave di passaggio, l’idea di partire lasciava spazio al timore, alla razionalità che sembrava non esserci mai stata quella stessa mattina. Così, si trovava ogni volta seduto sul pontile ad aspettare ore e ore, mentre con occhi smorti guardava il giorno consumarsi davanti a sé, così immerso nei suoi pensieri. E quando vedeva tramontare il sole, pensava alla mamma che sicuramente in cucina stava ancora apparecchiando la tavola per tre, lanciando ogni tanto qualche occhiata al mare arrossato dagli ultimi raggi del sole morente. E poi, stranamente, si ritrovava a pensare a suo padre. Pensava che fosse fuggito. O che fosse morto. Non sapeva quale delle due condizioni fosse la migliore. Aveva creduto seriamente che senza di lui la mamma avrebbe focalizzato la sua attenzione su di lui.
Quel che gli dava la conferma dei suoi peggiori incubi di bambino tormentato, anzi, di ombra di bambino tormentato, era che senza Jecht, per la mamma valeva ancor meno.
Invisibile, schiacciato tra l’affetto sconsiderato che aveva per la mamma e l’odio innaturale che aveva per Jecht. Il pensiero che anche quel giorno, come gli altri addietro, sarebbe tornato a casa senza che la mamma si fosse minimamente accorta che era uscito, gli dava irritazione. Il fatto stesso di cenare ad un tavolo apparecchiato per tre gli dava irreparabilmente fastidio. Perché sua madre era nella forsennata lotta contro il tempo che modifica le piccole cose, per riafferrare quello che le era stato sottratto. Il piccolo Tidus ebbe voglia di non tornare a casa quel giorno, ma era un pensiero giornaliero, che sapeva che non sarebbe mai andato in porto.
Tidus sapeva bene che alla fine si sarebbe piegato alla routine giornaliera lastricata di coraggiose intenzioni, come una siepe che lo seguiva ad ogni suo passo, invece di avere qualcuno, chiunque, la cui mano lo potesse accompagnare nella sua fuga. Una persona che lo aiutasse, in qualche modo, a decidersi. Adesso da bambino, domani da grande. Non necessariamente una mamma gabbiano che gli insegnasse a volare.
Ora era al calar della sera. Sarebbe dovuto tornare a casa, ma tanto poteva pure attardarsi lungo la via del ritorno. Nessuno a casa avrebbe aspettato lui di ritorno a momenti quanto avrebbe aspettato suo padre disperso in mare. E forse non era importante tutto ciò. L’ombra di suo padre al tramonto era così lunga che era capace di coprirlo anche quando era lontano da casa. E nemmeno questo gli importava più di tanto.
 Non gli importava nemmeno di aver perso l’affetto della mamma. Per questo la sera, dopo aver consumato un’altra cena in silenzio, stretto nelle lenzuola di un letto che non gli sembrava più suo, piangeva tutte quelle lacrime che aveva trattenuto faticosamente durante il giorno, e il sorriso più beffardo di suo padre gli ritornava alla mente mentre gli diceva:

–Piangi ancora? Non sai fare altro che piangere!–

Lo odiava e quel che era peggio, odiava colui che nello stesso tempo gli aveva dato la vita ma che non gli stava dando pace.
A volte, si ritrovava a sperare che i suoi lamenti, i suoi singhiozzi richiamassero la mamma, troppo occupata a riafferrare parole che il marito le aveva detto prima della partenza e che non avrebbe più riascoltato, probabilmente. Anche Tidus lo sapeva. Per questo piangeva. Perché delle parole che non vengono più pronunciate diventano preziose, più preziose dei richiami di un bambino che si sente abbandonato.
E niente gli avrebbe potuto restituire la mamma ormai.
E così, accesa una pila a batteria, il cui quadrante aveva la sua iniziale, la sua “T” disegnata, si accucciava sotto la finestra, fissando quel cerchio luminoso con la sua iniziale al centro che si faceva spazio nel cielo nero di Zanarkand, accanto alla luce. Era un segnale luminoso che le luci della città si divertivano tanto a soffocare, mentre il riso di suo padre echeggiava nella sua testa. Era un segnale luminoso che accendeva tutte le sere per indicare a chiunque, angelo o demone, la sua ubicazione. Non importava chi fosse.
L’importante era che lo portasse via, in alto, e che lo trascinasse in un sogno. O magari nella realtà, perché quell’incubo era troppo brutto per essere reale. 
   
 
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