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Autore: Marselyn    31/12/2010    8 recensioni
Uno Shannon che si trova di fronte a un Jared smarrito, che deve sorreggere, un Jared che si nasconde dietro la maschera dell'a-noi-comune felice frontman. Un Jared che rispecchia poco la realtà forse, ma chi lo sa? Un Jared sicuramente umano.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jared Leto, Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: Le date non rispecchiano quelle vere del tour. In effetti, questa storia potrebbe ambientarsi in un qualunque periodo quantomeno recente.


Miserabile pagliaccio



Tiene il dito puntato sul tasto invio, in volto la tipica espressione sofferta e combattuta di chi sta lottando dentro una battaglia la cui posta in gioco è troppo dannatamente alta, negli occhi, fissi allo schermo davanti a sé, puoi scommetterci, le immagini un po’ ingrigite di un passato fantasma, eppure così vivido e vero, le quali conseguenze si ripetono di sera in sera: le ha vissute fino a poco prima. Uno di quei passati che ti sembrano troppo immensi per appartenere a uno come te, uno di quelli che, ci metteresti la mano sul fuoco, non eri tu, però ogni cosa intorno a te dice il contrario.
Uno di quelli che non hai mai vissuto veramente, e che hai non troppo ingenuamente regalato agli altri, fingendo di esserne felice.
Sì, è proprio l’idiota di tuo fratello.
«Che fai?»
Sobbalza alla tua voce, chiudendo in un gesto meccanico e veloce il monitor del portatile sulle gambe.
«Niente» dice, e un nota allarmata percorre selvaggiamente libera la sua voce. Sai che Jared, adesso, sta friggendo di rabbia per quella insulsa che è sfuggita al suo controllo, lo sai e malgrado tu non ne abbia bisogno, la conferma giunge attesa come il secondo che viene dopo l’altro: indirizza lo sguardo verso la strada illuminata fuori, oltre il finestrino del tourbus, per sfuggire al tuo. E’ talmente allarmato che sfiora il vetro freddo con la punta del naso, gli occhi esageratamente frenetici scorrono avanti e indietro, come se lì fuori ci fosse qualcosa di interessante da osservare.
Che idiota.
«Siamo arrivati» dici, tentando di non far pesare la cosa.
«Va bene, arrivo tra un po’».
Rimani in silenzio qualche secondo, giusto il tempo di chiederti chi è quell’uomo spaesato, confuso e sconosciuto che siede nello stesso posto in cui adesso vedi tuo fratello. Perché non può essere lui: cazzo che non può esserlo.
«Siamo arrivati due ore fa».
I rumori della strada fuori rendono ancora più misera la situazione.
«Gli altri sono già in hotel, sei rimasto solo tu qui».
E’ tutto così dannatamente compassionevole, perfino un barbone con mezzo straccio addosso e che gronda sudore e puzza di alcol di bassa qualità potrebbe farlo: perfino lui potrebbe compatirlo.
Lo vedi voltarsi sorpreso, fissarti negli occhi e poi concentrarsi sul colletto del tuo cappotto.
«Cazzo» dice ridendo, come se bastasse per rendere la cosa soltanto buffa. «Non me ne sono accorto» conclude, ritornando a fissare l’asfalto nero oltre il finestrino. Restate così, immobili, a fissare due cose diverse, nonostante il panorama non sia che il medesimo: lui contempla l’imitazione scadente che la realtà gli ha concesso dei suoi sogni, e tu il ridicolo tentativo di un clown che cerca di imitare tuo fratello.
«Che ti prende?»
«Niente» Un sorriso increspa le sue labbra, sembra la sfrontata e lussuosa gondola di una menzogna. Una menzogna che lo piega e lo muove come un burattino. «Se sei venuto a rompere le palle, ti informo che sono già entrambe magistralmente frantumate: sei stato veloce.»
Resti in silenzio qualche secondo.
«Ottimo, non finisco mai di sorprendermi. Il mio lavoro qui è finito, allora» ricambi il sorriso e ti volti incamminandoti verso l’uscita del bus. Non è neanche troppo lontana, sei già quasi alle scale.
«Se pensi che da un momento all’altro ti urlerò di restare ti sbagli di grosso, Shannon» grida, alle tue spalle.
Ti volti e con il viso privo di espressione dici: «Va bene», e continui verso la tua strada.
Al primo scalino una voce ti arriva nuovamente alle spalle: «Sei un fottuto, devi per forza farti pregare?! Stronzo, non ti prego, sai! Ritorna dal tuo bel cuscinetto in stanza, non dovevi neanche scomodarti a venire! Che Dio mi fulmini se ti prego, fottiti piuttosto!»
Per un attimo ti scappa da ridere, perché quel clown, in quanto a insulti, imita Jared alla perfezione. Ritorni indietro, e per un attimo lo vedi fissare in fondo al bus, in tua direzione, nella speranza che le parole abbiano sortito l’effetto sperato, ma non inciampa a manifestare apertamente la soddisfazione e ritorna a fissare la strada gelata fuori.
«Che ci fai ancora qui?» dice non appena arrivi, fingendosi sorpreso e allungando le gambe verso il tavolinetto di fronte. «Non te ne stavi andando?»
«Ho dimenticato una cosa» replichi, senza curarti di improvvisare una scusa migliore.
«Va bene, ma spero che tu te ne vada»
«Allora mi sa che non me ne vado»
«Non vorrai sederti ora?» domanda, inarcando un sopracciglio in tua direzione. Hai capito a che gioco sta giocando: da qualche mese a questa parte quello è l’unico modo con il quale il vero Jared esce fuori, quando ha bisogno di te. I giorni della chiarezza tra te e lui sono finiti da un po’ e non ti resta che assecondarlo in questo modo: puoi solo sperare, d’ora in poi, che quest’unica opportunità che hai per ritrovare qualche sprazzo di lui, di tanto in tanto, non venga spazzata via come ogni altra dal clown che lo manovra.
«Non ci avevo pensato, ma mi sa che mi siederò proprio qui» dici, tirandoti una sedia lì vicina e accomodandoti proprio davanti a lui, che è stiracchiato su una sedia, lungo il perimetro del bus.
«Sei un fottuto invadente» continua, nella sua scenata.
«E tu sei un miserabile pagliaccio».
Lo vedi sgranare appena gli occhi sorpreso, ti fissa interdetto qualche attimo, poi ritorna a mirare fuori dal finestrino. Gli occhi, stavolta, hanno una piega diversa: un po’ più scoperti, un po’ più disillusi, un po’ più veri.
«Erano forti stasera» parla, la voce priva di ogni indizio di quel trasporto che avrebbe dovuto avere. «Erano davvero forti».
«Non li hai neanche visti» replichi, freddo. Inevitabilmente freddo. «Hai sventolato sul palco la bandiera spagnola.»
«Spagnola? Perché dove siamo?» domanda, girandosi a guardarti, neanche troppo interessato a conoscere la risposta. Ritorna a fissare fuori, quando capisce che non gli risponderai, che non gli dirai che siete a Oslo, quando capisce che farlo lo renderebbe così miseramente spoglio di ogni falsa maschera, così schifosamente patetico.

Te lo domandi ancora, come siete arrivati a questo punto?
Come siete arrivati dove ogni sorriso per lui è uno sforzo immane? dove ogni suo abbraccio ai fan è sempre meno stretto? dove ogni foto con una di loro, se è possibile, ha sempre un doppione inutile, solo perché lui deve trovare il modo di rimediare al fatto che la riconoscenza nei loro confronti è sempre meno?
Sembrava tutto così esatto, era tutto così meravigliosamente perfetto, così simile a come lo avevate immaginato, e adesso il pavimento di sogni sul quale camminate sembra sgretolarsi sotto i piedi.
Lo senti allontanarsi, Jared, ogni giorno di più sprofonda nel nulla e provi, provi, provi a tendergli la mano, ma quello che ritorna su, a camminarvi accanto, è solo un pagliaccio, una sua guasta imitazione. E non sai se Jared è sotto quelle false spoglie o non c’è semplicemente più.
Non c’è semplicemente più.

«Mi hai chiesto che mi prende prima?»
«Sì».
Porta gli occhi verso di te, ti guarda un attimo seduto sulla sedia, poi ritorna a fissare la strada.
Ti alzi, allontanandoti di pochi passi, osservando, oltre il finestrino opposto al lato in cui è lui, il parcheggio mezzo vuoto dell’hotel in periferia in cui avete scelto di alloggiare. Hai capito che guardarlo parlare lì, seduto su una sedia, a qualche centimetro da lui, gli rende la cosa troppo difficile. Vuole un po’ di precarietà, come se tutto fosse solo qualcosa di temporaneo, ha bisogno della consapevolezza che ciò che gli uscirà dalla bocca possa essere, in qualche modo, smentito, anche se nulla di importante.
Non lo guardi neanche, semplicemente stai in piedi, come lì per caso, e la cosa non ti pesa, perché lui ne ha bisogno.
E per lui, di certo, staresti in piedi ore.

«Sto bene» dice, accennando una smorfia nata per essere un sorriso. «E’ che… mi dispiace d’aver scambiato la bandiera» continua, scrollando un po’ le spalle.
Irrimediabilmente, senti un’ondata d’affetto che, è difficile crederci, stenti a trattenere, perché lo vedi sempre di più affondare, affondare e vorresti semplicemente prenderlo e, come fosse una creatura fragile, issarlo oltre il buio che lo sta avvolgendo, portarlo in alto dove niente può ostacolare la sua felicità.
E non puoi perché se qualcuno deve essere forte, adesso, quello sei tu.
Se qualcuno ha il compito di tenere i piedi per terra, di mantenere i nervi saldi e non mostrare esitazioni, quello sei tu.
E devi arginare la voglia matta che hai di mandare tutto al diavolo e ricominciare da capo, dal punto in cui lui desidera, perché se c’è qualcuno che può ancora trattenerlo dentro quell’incubo dalle fattezze di sogno, quello sei tu.
E non devi essere debole, perché se c’è qualcuno che è debole, quello è lui.
Devi resistere.
Devi resistere.

«Non fa niente» rispondi, perché non potete mandare tutto al diavolo adesso. Perché troppe persone hanno bisogno di voi, troppe persone vivono di voi. Deve capire che non potete mollare tutto, anche se vorresti vederlo sereno, dopo tanto tempo, anche se vorresti rivedere Jared, non potete farlo.
Ed è quanto di più terribile possa esserci.
«Lo so che non fa niente» dice, annuendo. «Lo so».
Poi sposta lo sguardo sul portatile sulle sue gambe e, lentamente, lo apre, puntando il dito sul tasto invio.
Lo vedi fissarlo di nuovo, con lo sguardo combattuto di prima, ma assieme la consapevolezza che sa già come andrà a finire.
Anche stasera.
«E’ una cosa troppo grande, Jared, non possiamo abbandonare tutto».
E lui non può neanche immaginare quanto ti costi dirlo.
Non annuisce, non fiata, ma sai che ha sentito.
Guarda, semplicemente, di fronte a sé, gli occhi ora un po’ simili a quelli della sua infanzia, quando osservava la felicità altrui e tu lo riportavi alla vostra, convincendolo che non aveva nulla da invidiare. Sembra non essere cambiato niente da allora.
Continui a mentirgli anche adesso.
Sposta il dito su un altro punto della tastiera, cancellando il messaggio che, come ogni sera ormai, scrive su twitter e che mai invierà.
“Questo è un addio e non c’è modo di farmi cambiare idea. Niente è più come prima. Capite, anche se non ci riuscite, ma c’è qualcosa di guasto. Niente è più come prima.”

Ti incammini verso l’uscita del bus, ma appena prima di lasciarti dietro l’ultimo scalino senti piano la sua voce, come il rumore di un ruscello lontano. Debole, ma vivo, anche se pare incredibile.
«Shannon»
«Sì?»
«Dove siamo?»
C’è silenzio per qualche secondo, mentre fuori comincia a nevicare.
«Oslo»
«Ah…» dice, riflettendoci su. «Strano, perché mi sembrava proprio Madrid».

Sospiri.
Sospiri, lasciandoti il bus alle spalle, perché sai che la gelata Oslo non potrà mai essere come Madrid.
Sospiri, perché sai che quello è un Jared più spento che mai.
Sospiri, perché quella che sembrava un’incredibile avventura adesso è per lui una condanna. La condanna a portare una maschera, a farsi manovrare da un clown spietato, figlio della menzogna, la condanna a non cercare la vera felicità, perché è stato creato qualcosa di troppo immenso, qualcosa che è troppo, irrimediabilmente pulsante di vita, qualcosa che è impensabile da cancellare.
E sai, Shannon, che lui è troppo debole per farlo.
E tu troppo egoista per lasciarglielo fare.


*


«Jared?» ti domanda Tomo, non vedendolo tornare in hotel insieme a te.
«Arriva»
Annuisce.
«Brr» continua. «Non pensavo facesse tanto freddo a Berlino… non così almeno».
«Berlino?» domandi, corrugando la fronte.
C’è qualcosa di sbagliato, qualcosa di rotto.
«Sì. Perché dove pensavi fossimo?» chiede lui, ridacchiando.
«Qui… certo…» rispondi, spaesato. «A Berlino, e dove se no?».

Ma c’è qualcosa di guasto, ora lo senti anche tu, e forse è proprio dentro te.
   
 
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