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Autore: Ronnie02    03/01/2011    3 recensioni
Una drammatica storia d'amore. Una differenza, un colore, una tonalità. Degli spregevoli pregiudizi. Stan e Ferim, insieme comunque e per sempre.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questo è un tema che ho fatto a scuola. Spero vi paiccia!


Si chiamava Ferim e questa è la nostra storia.
 
Sarebbe inutile raccontarvi tutti i dettagli della mia vita con e senza Ferim, perchè ci vorrebbero così tante pagine da riempire per una vita intera. Per questo racconterò solo le cose essenziali, quelle che mi scaldano il cuore e mi ricordano le sue labbra scure. Quelle che mi facevano e mi fanno sognare Ferim ogni notte. Quelle che mi redono felice solo a pensarle. Quelle che a volte mi mettono nostalgia.
 
Il "nostro" primo incontro arrivò alla età di diciasette anni, mentre frequentavo la quarta di un liceo artistico. 
Fu la Rossa, la professoressa di restauro che usava sempre una strana tinta rossastra che le stava malissimo, a presentarmela. In relatà lo fece a tutta la classe, ma già allora la sentivo solo mia. Ferim era quella giusta per me. O almeno avrebbe dovuto esserlo.
"Siediti pure vicino a lui", diceva la Rossa indicandomi. E appena pronunciò quella frase capii che solo per questo avrei venerato la Rossa per sempre. Graziea lei Ferim mi sarebbe stata a fianco tutto l'anno.
Così, per ordine della prof., Ferim si mosse lentamente, si sedette proprio di fianco a me e mi sorrise. Aveva il sorriso più bello del mondo. 
"Sono sicurissima che Dall'Acqua di farà sentire a proprio agio", continuò la Rossa imperterrita. 
Sì, Dall'Acqua Costantino mi chiamavo. Però tutti mi avevano soprannominatto Stan.
"Felice di conoscerti", disse Ferim con voce flebile e timida. I suoi occhi neri sciolsero i miei color del cioccolato e le labbra scure si mossero in un sorriso. 
"Il piacere è tutto mio. Mi chiamo Costantino, ma puoi chiamarmi Stan", dissi molto smielato, cosa che non accadeva mai, neanche se ci provavo. 
Lei, a questa frase, scoppiò in una breve ma bellissima risatina. Ed io ero completamente perso. 
Che effetto che mi provocava! I suoi occhi, le sue labbra, la sua pelle...
Amavo il colore della sua pelle. Era color caramello, leggera. Ma solo io la trovavo perfetta, solo io riuscivo a capirla oltre quel colore dannatamente troppo scuro, solo io avrei potuto abbracciarla senza problemi se non fosse stato per quella pelle troppo bella e, contemporaneamente, troppo diversa.
I miei genitori, i miei amici, i miei parenti, tutti i miei conoscenti non avrebbero mai approvato e lei lo sapeva, per quello era così timida. Sapeva che, se non ero io, qualcuno di certo l'avrebbe rifiutata senza conoscerla, solo "grazie" a quelli stupidi pregudizi della gente.
Lo capivo dal modo in cui si relazionava con me e con gli altri. Quando all'intervallo scherzavamo o ci mettavamo a ripassare insieme era felice, sorridente; mentre con gli altri e alla fine della scuola, il sorriso svaniva e le labbra prendevano la forma dell'indifferenza. Sapeva di essere diversa, sapeva che io non avrei continuato a starle vicino, sapeva che la felicità sarebbe finita.
E finì esattamente il 3 maggio dello stesso anno. La prof. Zara, quella di storia dell'arte, ci mise assieme per fare l'ultima ricerca dell'anno che, a noi, capitò sul Bernini e così la invitai a casa mia per concludere il lavoro che avevamo già cominciato a scuola. 
Quel pomeriggio il suo sorriso non sparì al suono della campanella e nemmeno a pranzo, quando mangiammo da McDonalds di fretta per prendere il bus. Ci divertimmo anche a correre alla fermata per esserci distratti e non aver controllato l'orologio, ma almeno ruscimmo a non perdere l'unico autobus che passava a qull'ora.
Credo che nemmeno l'attesa di una mezz'ora a causa della lentezza del bus non fu per lei un problema, era già concetrata a cosa dire e fare a casa mia. Fortunatamente l'avevo invitata il giorno che i miei erano usciti per andare a visitare i nonni. Doveva essere tutto perfetto.
"Quindi non saranno a casa tutto il tempo?", mi chiese Ferim quasi sollevata.
"Credo di no. Tanto noi faremo in fretta e poi usciremo un pò, ti va?", le risposi.
"Certo, stare chiusa in casa non è il mio forte, Stan".
"Perfetto", conclusi.
Arrivammo a casa mia, le feci fare il giro delle stanze (vergognandomi in modo osceno della mia camera troppo disordinata) e l'accompagnai nello studio, dove si trovava il computer e la stampante. Dovevamo solo ricontrollare e stampare, niente di così difficile o troppo lungo.
Infatti finimmo in fretta, verso le cinque e mezza, così decidemmo di passare l'ultima mezz'ora a divertirci, prima che lei avesse ripreso il bus per tornare a casa sua.
Così sistemamo la ricerca nel suo zaino, spegnemmo il pc, ci mettemmo le scarpe e uscemmo da casa. 
Lì accadde l'unica cosa che mai sarebbe dovuta accadere. Arrivarono i miei.
La nascosi, per quello che potevo, dietro di me e li salutai da lontano. Mia madre, invadente come al solito, venne a salutarci da vicino, prendendo con sè anche mio padre. Perchè dovevano rovinare l'unica cosa bella della mia vita? Era ovvio che l'avrebbero rovinata.
"Costantino! Tesoro, come mai esci? Chi c'è con te?", disse cercando di intravedere Ferim.
Lei, senza che io la presentassi, uscì dal mio piccolo rifugio e il sole colpì in pieno la sua pelle caramello che si vedeva dalla canottiera rossa che indossava.
"Buongiorno signora. Mi chiamo Ferim. Sono un'... amica di Stan", disse timida. Lei sapeva... sapeva e io ero troppo piccolo per proteggierla, troppo incoscente per evitare di salvarla. Sapeva e ora stava accadendo tutto quello che lei immaginava sarebbe successo.
Infatti, appena mia madre e mio padre guardarono Ferim, diventarono viola in viso e cominciarono a sbuffare. Stupidissimi e maledetti pregudizi!
"Ferim... cara... tu puoi andare a casa. Dobbiamo parlare con Costantino", disse mia madre. Così, sconfitti, ci salutammo e la guardai andar via. 
I miei, invece, mi fecero entrare in casa e mi circondarono in salotto.
"Chi è quella?", cominciò mio padre.
"E' Ferim. E' nella mia stessa classe".
"Un' amica... Solo un'amica?", m'interrogò mia madre. 
Inutile mentire, lei sapeva leggere i miei occhi. "Per me no".
"Io lo sapevo! Lo sapevo che ti saresti ficcato nei guai! Che pensavi, eh? Che volevi fare?", urlò mio padre. Era decisamente fuori strada.
"Non volevo fare niente! E' un'amica, mi piace, qual è il grande problema?", gridai in risposta.
"Il problema? E' di colore!", disse mia madre.
"Solo questo? Solo per questo mi proibirete di vederla?", chiesi senza più speranza. Quei due non capivo mai niente!
"Solo questo? Mi sembra già un buon motivo! Non è raccomandabile".
"Voi siete solo... degli stupidi vecchiacci!", urlai uscendo di casa. 
 
Quella notte dormì da Henry, un mio ex compagno di medie, e appena gli raccontai che cosa era successo, lui mi guardò storto. Ragionalva come i miei, ma capiva che io amavo Ferim. Solo che non sapeva cosa dire.
Alla mattina lo salutai, lui non andava a scuola il sabato, e andai a scuola. 
Appena entrai in classe la vidi lì, di fianco al mio banco. Era bella come sempre.
"Ciao Ferim. Come va?", chiesi. Nessuna risposta, rimase zitta.
Continuò così tutto il giorno e anche quando ci interrogò sulla ricerca che avevao finito il giorno prima lei parlò tutto il tempo senza guardarmi, senza dirmi niente, senza cercare un aiuto anche nei momenti in cui rischiava di fare scena muta. 
Alla fine della scuola la fermai. Dovevo avere spiegazioni.
"Ferim, dimmi che hai!", la obbligai.
"Che ho? Guardami! Sono di colore. Ecco che ho", disse indicando se stessa. "Vattene Costantino. Vattene e non parlarmi più se nemmeno tu puoi restare con me. Ti credevo un amico, forse anche di più, ma dopo ieri ho capito che non sei diverso. Vattene!".
 
Continuò ad ignorarmi fino alla fine della scuola, a parte l'ultimo giorno in cui, quando suonò la campanella, lei mi disse "Addio". Se ne andava. Seppi da Laura, la sua unica amica nella mia classe, che tornava in Africa, in Congo, e che non sarebbe più rimasta qui.
Era andata via, per sempre.
E' da quel giorno che cerco sempre la volontà di comprare un biglietto per il Congo, ma in più di cinquant'anni non l'ho mai fatto.
Ora metto via la penna, chiudo gli occhi e la rivedo, nei miei sogni. Finisco di sognare sempre con quel <>, perchè lì mi sveglio spaventato e addolorato. 
"Papà, che hai?", mi chiede mia figlia Linda quando apro gli occhi respirando male. E' con me da qualche mese, da quando mia moglie Rosa è morta. Mi ha lasciato solo pure lei, lei che riusciva a togliermi Ferim dalla testa la maggior parte del tempo.
"Niente Linda. Sono solo molto stanco", dico rimettendomi a dormire.
"Ciao Ferim. Sono io, Stan", sussurro vedendola arrivare.
   
 
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