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Autore: _ether    05/01/2011    4 recensioni
Irene; trentadue anni, fotoreporter. Il giorno prima si trovava a Chicago, il giorno dopo sperduta in Messico per lavoro.
Shannon; quarant'anni, batterista. In vacanza in Messico, solo e spensierato.
Due spiriti liberi che si incontrano, che non pretendono niente l'uno dall'altro se non un po' di compagnia, un po' di divertimento, o almeno così credono.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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the weight of us
Note dell'autrice: A Irene, a cui dedico questo, ma anche un grazie immenso. Per avermi fatto conoscere questa band eccezionale, per tenermi compagnia, per farmi ridere ogni volta che le parlo e grazie anche per tutti i consigli che sai darmi, ma soprattutto i complimenti. Sai che non li merito.
Un grazie fondamentale però va anche al fatto che ha creato lei questa magnifica foto che trovate qui sotto.
Lei ovviamente è Railen qui su EFP (e vi consiglio di leggere ogni sua singola storia, perché è un genio *w*), ma non è solo una grande scrittrice, eh no. Lei è anche bravissima con la grafica e penso che vi sia perfettamente visibile.
Anyway, dopo questo appunto fondamentale, passo a commentarvi un attimo questa one-shot. Vi supplico, siate clementi; è la prima volta che scrivo con un rating arancione perciò non so proprio come me la sia cavata. So solo che per poco ire non ci rimaneva secca XD Ma oltre questa parentesi la maggior parte deriva da un sogno che ho fatto diversi giorni fa. Guardare un determinato film o video prima di andare a dormire non è consigliabile u.u Dopo si vedono gli effetti.
Bene, ora vi lascio alla storia, và :)
Buona lettura!

«The weight of us»
Irene/Shannon

Da quanto tempo ormai ero sveglia a fissare il mare increspato da un leggero vento che soffiava e faceva muovere persino quelle tende bianche, sipari tra noi e la spiaggia candida?
Non riuscivo più a riprendere sonno, perché il mio cuore batteva troppo velocemente da impedirmi di addormentarmi, ma non era solo per quello, non era solo colpa del mio cuore, ormai unico rumore in quella notte oscura. No. Era la consapevolezza che se mi fossi addormentata allora il tempo sarebbe scorso così velocemente da impedirmi di realizzare ciò che realmente mi stava accadendo. Sarebbe venuto mattina e noi due ci saremmo dovuti dire addio; un addio semplice, senza lacrime o lamenti perché in fondo non volevamo dire niente l'uno per l'altro.
Eravamo stati il gioco di un momento, di una notte, di una vacanza. Niente di più. Me l'avevi detto tu, no?
E io non ero mai stata più d'accordo, eppure ora non volevo lasciare andare quel momento. Lo tenevo stretto, come stavo tenendo strette quelle lenzuola color panna, sotto di me.
Il mio sguardo vagava per tutta la stanza senza volersi fermare per un secondo. Era così bella ed esotica, proprio sulla spiaggia, e non aveva neanche le mura, solamente alte colonne ai lati dove erano attaccate delle tende di lino bianco. Il mio sguardo vagava per tutta la stanza, senza volersi però soffermare sul viso dell'uomo addormentato al mio fianco. Non ce la facevo.
E allora abbandonai la testa indietro e chiusi gli occhi, rivivendomi quei pochi momenti passati insieme all'uomo. Quell'uomo che in qualche modo mi aveva portato qualcosa di nuovo all'interno. Non era amore quello che stavo provando, solamente un attaccamento a qualcuno che era entrato nella mia vita.
Ero sempre stata una ragazza egoista e mi stavo comportando da tale anche in quella situazione, perché mi ero resa conto di quanto ero sola, di quanto vivessi solamente per il mio lavoro, di quanto avevo bisogno di qualcuno al mio fianco, dopo tanto tempo.
Mi trovavo seduta ad un tavolo in un piccolo bar situato al centro di una città di cui neanche sapevo il nome quando lo  avevo incontrato per la prima volta. Ero finita lì per lavoro; ero una fotoreporter e mi avevano affidato un reportage sulle spiagge dei Caraibi. Il giorno prima mi trovavo a Chicago, il giorno dopo sperduta in Messico. Mi avevano messo su un aereo e ordinato di ultimare il reportage entro un mese. Grazie e tanti saluti!
Era passata ormai una settimana e mezza, quasi due, ed ero molto indietro sulla tabella di marcia. Avrei dovuto parlare di Playa del Carmen fino ad arrivare a Cancun, ma per ora avevo raccolto informazioni solamente su quell'ultima città e i pochi scatti che avevo realizzato neanche mi piacevano. Ero estremamente meticolosa nel mio lavoro e questo mi portava ad essere lenta e fin troppo precisa o autocritica.
Una cartina enorme era aperta di fronte a me insieme ad un taccuino dove avevo appuntato le prime informazioni del luogo che avevo raccolto in giro, come dalla gente del posto, dai vari tassisti o dagli uomini che lavoravano alla reception del mio albergo, e non avevo la minima idea di come avrei organizzato il mio lavoro.
Scrivevo, cercavo e sottolineavo posti sulla cartina, guardavo e riguardavo le foto già scattate, ma niente. Nessuna lucina mi si accendeva all'interno del cervello.
Per non parlare del fatto che era caldo, terribilmente caldo e delle goccioline di sudore mi si formavano alla base del collo o mi imperlavano la fronte. Mi ero legata i lunghi capelli color ebano, stravolti e scarmigliati dal mio continuo toccarli, in un'alta coda di cavallo e avevo ripreso ad osservare la cartina, sorseggiando ogni tanto il bicchierone di caffè, poggiato al lato.
No, niente, era tutto inutile. Dopo una mezz'ora ero ancora allo stesso punto. Avevo sbuffato e buttato la penna sopra il tavolo, appoggiandomi allo schienale della panca dove ero seduta.
Solo in quel momento avevo notato due occhi che mi stavano fissando. Avevo voltato il capo e li avevo visti perfettamente. Marrone chiaro, quasi giallognoli quando la luce forte di quel giorno li c'entrava.
Non ero riuscita a sostenere lo sguardo e sorridendo imbarazzata avevo distolto la vista da quei due occhi profondi e cangianti per ritornare al mio lavoro.
Non ero mai stata brava con i flirt; bastava pensare alla mia vita sentimentale. Un vero schifo. L'ultimo fidanzato risaliva a due anni prima e la relazione più lunga era stata quella con Paul, di quattro anni, durante gli ultimi anni di università. Volevamo sposarci, mettere su famiglia e vivere insieme a Chicago, peccato che lo lasciai sull'altare, fuggendo via. Non ci ero riuscita, io che mi sentivo da sempre un'anima libera era come se qualcuno mi volesse mettere in catene, così l'avevo abbandonato per inseguire i miei sogni, ciò che realmente volevo.
Ora mi ritrovavo ad avere trentadue anni e l'unica certezza nella mia vita era la fotografia e la mia famiglia.
Riportando l'attenzione sui fogli sparsi di fronte a me avevo incominciato ad appuntarmi qualcos'altro sul posto, ma quando avevo rialzato lo sguardo quell'uomo era sempre lì; seduto poco più lontano che mi guardava curioso.
Aveva un sorriso malizioso che gli increspava le labbra, due occhi furbi ma tremendamente belli e un accenno di barba che gli donava un'aria di vissuto.
Mi ero morsa il labbro inferiore ed ero ritornata per la seconda volta a ciò che stavo facendo. Eppure sentivo quello sguardo ancora fermo su di me e mi metteva quasi ansia. Sì, mi sentivo in soggezione.
Avevo preso il bicchiere ancora pieno di caffè e me lo ero portato alle labbra, bevendone un sorso. Gli occhi però mi erano ricaduti di nuovo su quell'uomo che ora mi stava sorridendo.
Soffermandomi a guardarlo meglio, mi era sorto in mente che forse già lo conoscevo. Sì, aveva un volto già visto e probabilmente era un fotografo con cui avevo lavorato gli anni precedenti, altrimenti non si spiegava il modo in cui mi continuava a fissare.
Avevo posato la tazza sul tavolo e mosso la mano libera in un ciao imbarazzato, quasi timido.
Diamine, Ire, che stai combinando? mi ero chiesta, trovandomi tremendamente stupida in quegli atteggiamenti e soprattutto goffa, come una ragazzina di dodici anni.
Avevo concluso il mio saluto portandomi la mano a massaggiarmi il collo, come se mi fossi sbagliata o pentita di quel gesto.
«Salve.»
Avevo sussultato nel sentire quelle parole proveniente da qualcuno troppo vicino a me. Avevo alzato il capo e sgranato gli occhi appena il volto dell'uomo mi era comparso di fronte agli occhi.
«Piacere Shannon», si era presentato mostrandomi un sorriso sensuale da far venire la tachicardia a qualunque ragazza all'interno del bar. Però avevo sicuramente ragione; quel nome mi era familiare, perciò o ci avevo già lavorato insieme o magari l'avevo scontrato per Chicago. Avevo la memoria fottutamente labile.
«Piacere Irene; ci conosciamo?» avevo chiesto sorridendo. Avevo sentito immediatamente le guance tingersi di rosso e mi ero passata una mano sul petto, impacciata, massaggiandomi di nuovo il collo.
Lui mi era sembrato ritrarsi, come se avesse sentito o visto qualcosa che lo aveva infastidito.
«No, no. Cioè, non mi sembra.»
Dopo quelle parole stava per alzarsi e andarsene, così come era venuto se ne voleva andare. Glielo avevo lasciato fare, anche perché per me quell'uomo era solamente una distrazione, una distrazione che non potevo permettermi e che mi fece solamente agitare ulteriormente.
Avevo ripreso in mano la penna, mentre con quella libera mi scansai alcune ciocche di capelli che non ero riuscita a prendermi nella coda. Avevo sbuffato e lanciato di nuovo la penna sopra il tavolo.
Non lo volevo quell'incarico. Non così, senza preparazione.
«Come mai così scocciata?» mi aveva chiesto, voltandosi. Non avrei mai creduto che lo facesse, che si sarebbe fermato per instaurare una conversazione con me.
«Non riesco ad organizzarmi il lavoro. Non ho niente in mano, niente», avevo sbraitato, innervosita.
L'uomo si era rimesso seduto nella panca di fronte a me e mi aveva sorriso; un sorriso assolutamente diverso da tutti quelli precedenti, un sorriso più sincero e aperto. Senza doppi fini.
«Di cosa ti occupi?»
«Fotoreporter.»
Lui aveva annuito, compiaciuto dalla mia risposta.
«Conosco bene questa zona, potrei aiutarti», si era offerto e per un attimo il mondo si era fermato.
Mi era sembrato di vedere uno spiraglio di luce in un tunnel buio e desolato, da cui cercavo disperatamente l'uscita.
«Sarebbe.. sarebbe grandioso, voglio dire..», e un gran mucchio di parole mi erano uscite dalla bocca.
Lui aveva sorriso, completamente rilassato, ma era una risata talmente strana che mi aveva indotto a ridere di mia volta. Tra l'altro la situazione in sé era veramente esilarante. Che fosse stato un angelo mandato dal cielo per aiutarmi in quella folle avventura?
«Cosa ti serve precisamente?»
«Sinceramente non so neanche dove mi trovi ora. E' tutto un tale casino; ma mi serve principalmente Playa del Carmen e Cancun.»
E mi sentivo una perfetta idiota; avrà pensato che fossi una sbadata che non sapeva organizzarsi il lavoro. Eppure io ero la migliore nel mio campo, almeno per il programma per cui lavoravo.
«Perfetto», aveva detto semplicemente, guardandomi negli occhi in modo così sicuro che non potei non credere, almeno per un secondo, che sarebbe andato tutto bene.
«Perfetto», avevo farfugliato.
Solamente più tardi avevo scoperto chi lui era realmente; l'avevo capito dal tatuaggio che aveva sul braccio, nella parte anteriore. Quei simboli li avevo già visti da qualche parte e fu così che mi era venuta in mente la foto che mia nipote, la figlia di mio fratello, aveva come sfondo del suo cellulare o i milioni di poster appesi in camera sua.
Se sarebbe venuta a sapere di tutto quello che mi stava succedendo, allora sì, sarebbe diventata pazza. O mi avrebbe tagliato a fettine sottili sottili e poi mi avrebbe sepolto in giardino. Ricordo perfettamente quanto, tra tutti i componenti, adorasse in assoluto lui, Shannon.
Mi ero scusata per la mera figura, ma a lui non era importato, anzi aveva riso tranquillamente. Ecco, quel suo modo tranquillo di rapportarsi mi affascinava totalmente. Io, d'altronde, ero tutto l'opposto; sempre nervosa, agitata, nevrotica e non smettevo mai di blaterare. Ma lui rideva e io non ero sola in quel folle viaggio.
Mi aveva portato in un posto fantastico in uno dei primi giorni; una cascata tra la foresta, con un'acqua talmente limpida da poter vedere il fondale, pieno di ciottoli. E io, indiscutibile fifona, ero riuscita a tuffarmi.
Quell'uomo poco più grande di me, era riuscito a farmi passare la paura. Avevamo contato fino a tre ed avevamo saltato, mano nella mano, perché non ero riuscita a trattenermi dal prendergliela e stringerla forte.
Avevamo anche scattato delle foto; scoprii che anche lui fotografava ed era stupendo poter dividere con qualcun altro la tua stessa passione.
I giorni erano passati e lui mi faceva da guida. Diceva di essere onorato e anche se io, più e più volte, lo avevo rassicurato dicendogli che poteva anche andarsene e lasciarmi sola, perché avrei trovato un altro modo per cavarmela, lui non mi aveva lasciato. Mai.
Le lunghe passeggiate sulla spiaggia, al chiaro di luna, a raccontarci di noi o i falò e le feste in cui ci imbucavamo come due adolescenti erano perfettamente vivide nella mia memoria.
Poi quella sera; eravamo tutti e due totalmente concenti e consapevoli di ciò che stavamo facendo, ma eravamo andati ugualmente fino in fondo.
Il suo respiro caldo sul mio volto, le sue labbra morbide sulle mie, i baci lenti che erano scesi fino a raggiungere l'incavo del collo.
E tutto era accaduto lentamente, ma con piena passione.
Mi aveva insinuato le sue grandi mani sotto la canotta e mi aveva stretta a lui, aderendo il mio petto con il suo, e con una mano libera aveva sfiorato la pelle un poco abbronzata del mio braccio, provocandomi la pelle d'oca, per prenderlo e portarselo fino al suo volto.
Gli avevo accarezzato una guancia, sentendo sotto il palmo la sua barba ruvida, e intrecciato le dita tra i suoi capelli, mentre i baci si facevano sempre più voraci, più vogliosi e intensi.
Avevo sentito la sua lingua premere per entrare e io l'avevo accolta con trasporto. Intanto con gesto veloce mi aveva sbottonato subito i pantaloni e mi ero, inconsciamente, fermata un secondo. Paura? Timore? Diffidenza? Non saprei.
Eppure lui mi voleva, glielo si leggeva perfettamente dagli occhi fissi sui miei e io volevo lui. In un modo totalmente malsano.
Mi ero avvicinata di nuovo a lui, esitando.
«Niente sentimenti, Irene», aveva sussurrato a poche spanne dalle mie labbra.
Avevo scosso il volto e sporto il collo per toccare di nuovo le sue labbra, per farlo tacere, per farlo smettere di parlare. Non volevo sentire niente che mi avrebbe incupito. Non volevo pensare, non in quel momento. Avevo trentadue anni ed ero libera, cazzo. Potevo!
Mi aveva spinto verso il muro, seguendomi, ed era sceso a baciarmi di nuovo il collo mentre le sue mani perlustravano tutto il mio corpo. Si era distaccato solo un attimo, per togliermi la canotta di dosso e farmi rimanere in reggiseno.
Poi era sceso ulteriormente per baciarmi il ventre nudo e aveva incominciato a giocare malizioso con la lingua e la mia pelle, il mio ombelico. Io avevo abbandonato la testa indietro, appoggiandola al muro, e avevo chiuso gli occhi mordendomi il labbro inferiore. Intanto le sue mani mi avevano afferrato il bacino e con un movimento deciso mi aveva calato i pantaloncini corti che erano caduti a terra.
Si era alzato e mi aveva baciato di nuovo le labbra, ma per poco perché questa volta fui io a togliergli un indumento, ovvero la sua maglia larga.
Poi gli ero sfuggita di mano, sorridendo maliziosa; avevo allontanato i pantaloncini con un piede in modo che raggiungessero la maglia di Shannon e mi ero avvicinata alla sponda del letto, sedendomici, mentre lui veniva verso di me, con passi lenti, quasi come per studiarmi, e un sorrisetto perverso sul viso.
Lo avevo preso per la cinta dei pantaloni e lo avevo strattonato per avvicinarlo subito a me. Gliel'avevo tolta, con un solo gesto, facendola passare passante per passante, in seguito gli avevo sbottonato i jeans per toglierglieli.
Avevo alzato il volto per incontrare con gli occhi i suoi ricchi di desiderio e gli avevo accarezzato il petto lentamente, risalendo fino alle sue spalle. Si era piegato per fare in modo che le nostre labbra impazienti si ricongiungessero di nuovo e, mentre le sentivo ardere sulle mie, ero indietreggiata per stendermi sul letto, seguita da lui, che si era sdraiato completamente sopra di me.
Mi aveva accarezzato delicatamente il busto e intanto era sceso a baciarmi il mento, la mandibola, il collo, dove aveva succhiato avido. Mi era uscito un breve sospiro di piacere e avevo inarcato la schiena, permettendogli di accarezzarmela fino ad arrivare alla stoffa del reggiseno. Con un solo gesto l'aveva slacciato, tolto e lanciato lontano da quel letto infuocato.
Mi aveva passato una mano sul piccolo seno, massaggiandomelo, mentre scendeva a baciarmi il torace e infine l'addome piatto. Potevo sentire perfettamente la mia pelle bruciare sotto ogni suo tocco e il clima afoso non aiutava di certo.
Aveva baciato la pelle intorno alla stoffa delle mutandine e dalle mie labbra era uscito un altro gemito. Lo avevo visto alzare per un attimo il volto e sorridere compiaciuto, prima di passare a levarmele definitivamente e lanciarle a terra vicino al mio reggiseno.
Ed ero completamente nuda in quel momento, ma era l'ultimo pensiero che potevo avere. Non mi ero vergognata neanche un momento. Gli avevo preso il volto tra le mani e avevo fatto combaciare nuovamente le nostre labbra vogliose. Ridendo lo avevo scansato, in modo da mettermi io a cavalcioni sopra di lui.
Mi ero abbassata verso il suo volto, gli avevo baciato teneramente le labbra, poi ero scesa, mentre le mie mani vagavano, accarezzandogli il petto e le spalle. Ero arrivata fino al lembo dei suoi boxer, che avevo afferrato saldamente per toglierglieli e rimanere finalmente tutti e due completamente nudi.
Le parti però si erano invertite un'altra volta, e mi ero ritrovata di nuovo sotto di lui.
Mi aveva accarezzato le braccia, portandomele fin sopra la testa, e aveva intrecciato le sue dita alle mie, prima di baciarmi nuovamente il collo e affondare il suo volto tra i miei capelli.
Io avevo agganciato le gambe al suo bacino e proprio in quel momento lui era entrato in me, facendomi gemere.
Ci eravamo amati per una notte intera tra sospiri, gemiti e passione. Mi ero aggrappata alle sue spalle come se fosse uno scoglio, uno scoglio a cui dovevo assolutamente aggrapparmi per non cadere in un baratro oscuro da cui non c'era uscita.
Aprii lentamente gli occhi e mi rimisi diritta, per prendere di nuovo a mirare il mare nero e scuro, sotto una pallida luna, alta in cielo.
Perché dovevo sentirmi così svuotata? Era stata una delle notti più belle della mia vita e io sentivo le lacrime premere per uscire come spilli dai miei occhi.
«A che pensi?»
Il cuore prese a battere ancora più forte al suono di quelle parole pronunciate sommessamente, con voce roca e impastata dal sonno.
Eppure riuscii a rimanere calma, a non agitarmi e, continuando a fissare il mare, risposi.
«A quanto è sottile la linea tra amore e egoismo», dissi con voce piatta.
Nessuna risposta da parte sua, niente, solamente una carezza veloce al braccio. Mi scansai, quel gesto mi innervosì; sembrava quasi che gli facessi pena. Non avevo bisogno della sua commiserazione.
E fu lì che il mio sguardo cadde sul suo viso, che riuscii finalmente a guardarlo.
I suoi occhi stavano cercando i miei e il volto era aggrottato in un'espressione indecifrabile.
«Vado in spiaggia», sussurrai velocemente.
Sgusciai fuori da quel letto, ancora ricco del nostro sapore, del nostro atto sessuale, e mi infilai le mutandine, dopo averle ritrovate, nascoste sotto il letto.
Mi alzai e cercai la mia canotta, mentre Shannon era rimasto zitto; mi fissava, mi seguiva con lo sguardo. Era possibile che erano gli unici occhi che riuscivano a mettermi in soggezione?
Sgattaiolai fuori da quella stanza velocemente, non volendo più sentire quegli occhi puntati sulla mia schiena.
Una volta che i miei piedi vennero a contatto con la sabbia fresca mi fermai, ispirando a fondo quell'aria ricca di salsedine e pulita, lontana dallo smog della città.
L'unico rumore proveniva dallo sbattere delle onde sulla battigia e, puntando lo sguardo di nuovo sul mare, mi avvicinai ad esso. Sentivo quasi una voce che mi stava chiamando, una voce melodiosa e intensa.
Arrivai fino a quando non percepii l'acqua fredda dell'oceano bagnarmi i piedi nudi; quel contatto mi provocò un brivido lungo la schiena.
Solo dopo pochi minuti udii dei movimenti alle mie spalle fino a che non vidi, con la coda dell'occhio, una figura affiancarmi. Era Shannon.
«Mi dispiace», disse guardando diritto in fronte a sé, un punto lontano, forse lo stesso che stavo contemplando io.
«Per cosa?»
«Per averti incontrato solo adesso, solo qui.»
Scossi il capo, abbassandolo.
«Niente sentimenti, ricordi?» ironizzai e un sorriso tirato mi fece piegare un lembo delle labbra all'insù.
Lui in risposta cercò con la sua mano la mia e una volta trovata me la strinse forte. Era calda e grande.
«Ti va un bagno? Prima che salga il sole», e mi voltai a guardarlo.
Mi soffermai per un secondo in più sui suoi lineamenti e scattai una fotografia immaginaria. Mai avrei dimenticato quel momento, quel viso, quelle emozioni.
«Nudi però», e di nuovo il suo solito sorriso provocante.
Annuii, prima di scoppiare a ridere.
Ci spogliammo in sincronia, rimanendo nudi di fronte ad un mare leggermente increspato e nero come la notte, e ci guardammo complici prima di incominciare a correre tra gli schizzi d'acqua e le onde.
Quando arrivai abbastanza a largo mi tuffai e lasciai che l'acqua salata mi allontanasse di dosso tutto il malessere e i cattivi pensieri. Mi sentii rigenerata e finalmente quel senso di libertà che da sempre faceva parte di me riemerse.
Ero libera, matura e senza nessuno per cui preoccuparmi. Solamente io, quella spiaggia e un uomo sulla quarantina, forse uno spirito libero tanto quanto me.
Riemersi, facendo un grande respiro poiché ero rimasta sotto troppo a lungo, e ciò che vidi fu il viso rilassato e sorridente di un uomo bellissimo.
Mi avvicinai a lui e senza troppi preamboli lo baciai, assaporando il gusto salato delle sue labbra.
Ci amammo nuovamente, in acqua, sotto una luna alta e tonda che ci faceva compagnia.
  
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