Anime & Manga > Kuroshitsuji/Black Butler
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Autore: MrEvilside    09/01/2011    2 recensioni
[ seguito di "Kyrie Eleison" ]
Chiuse gli occhi, malgrado non ricordasse di averli mai aperti.
Non ricordava altro, di quella canzone, come di nient’altro. Ogni cosa era stata risucchiata via.

[ spoiler! sulla fine della seconda stagione ]
[ !warning: "non per stomaci delicati" e rating arancione per anoressia ]
[ Ciel/Elizabeth ]
Genere: Dark, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ciel Phantomhive, Elizabeth Middleford, Sebastian Michaelis
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'In the afterdeath'
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Manga © Yana Toboso
Song © Daisuke Ono
Lyrics © animelyrics.com
Fanfiction © Klaus (me)

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This Choking Lullaby

{ Beyond His Last Breathes }

 
V’era una ninna nanna.
Galleggiava nel nulla, leggera come una piuma di corvo. O di angelo.
Sebastian era solito cantarla anche quando nessuno glielo ordinava – spesse volte Ciel l’aveva sorpreso a mormorarla tra sé. Di tanto in tanto, nel poco tempo libero che gli veniva concesso, il maggiordomo ne diffondeva la melodia con il violino. Ogni sera, il giovane conte gli chiedeva di intonarla, accompagnandosi con lo stesso strumento.
Ed il ragazzino umano ascoltava una canzone sussurrata da un demone.
Ciel si sforzò di ricordarla, tuttavia la sua mente faticava a ritrovarne le strofe; eppure, un tempo, la conosceva tanto bene.
Oramai aveva perso tutto, Ciel Phantomhive.
I cari, i nemici, il cuore, l’anima.
I suoi occhi vagavano, ciechi, ed anche se avessero potuto vedere non avrebbero guardato che il nulla, nero ed eterno. Il suo corpo esisteva ed al tempo stesso non era più: talvolta aveva l’impressione d’essere disteso, altre volte non aveva alcuna sensazione, semplicemente, era consapevole di non essere. Aveva tentato di allungare le mani e afferrare il proprio respiro – non riusciva a capire se stesse respirando o meno – ma le dita si erano chiuse sul niente.
Gli erano rimasti i ricordi e, tuttavia, anche quelli stavano cominciando a svanire. Presto non avrebbe avuto più nulla, nemmeno la memoria di una ninna nanna a salvarlo dall’oblio.
It’s time for bed, so good night…
Inaspettatamente, dal profondo di un’anima che non aveva più, risuonò la voce di un maggiordomo che non era più il suo.
“… as I hum for you a lullaby…
Gli venne in mente, senza un motivo ben preciso, che un giorno Sebastian l’aveva cantata in presenza di Elizabeth; lei era apparsa molto turbata, pur non sapendo nulla del Contratto – il giovane conte si pentì di averla considerata più sciocca ed infantile di quanto non fosse.
Il volto della ragazza e quello del maggiordomo riaffiorarono dal torbido mare di ricordi.
I visi di coloro che aveva amato.
In quel momento, adesso che tutto aveva avuto fine, ammise a se stesso che, in un certo qual modo, aveva amato Sebastian: per tre anni, dopotutto, era stato lui il sostituto di suo padre.
Ah, sleep well, young master…
Per lui aveva cantato una ninna nanna ogni sera, per lui aveva preparato del the nero ogni mattina, per lui aveva impedito agli altri servi di far crollare la casa, ed a lui aveva dato, di tanto in tanto, lezioni di vita che non si sarebbe mai aspettato d’udire da un demone.
Che gli piacesse o meno – non gli piaceva affatto, in realtà –, Sebastian era stato quanto di più vicino ad una famiglia avesse avuto.
Chiuse gli occhi, malgrado non ricordasse di averli mai aperti.
Non ricordava altro, di quella canzone, come di nient’altro. Ogni cosa era stata risucchiata via.
 
“… sleep peacefully like a dead body…
Elizabeth si spazzolava i lunghi capelli biondi, rimirandosi allo specchio con gli occhi vuoti di una bambola – e di bambola aveva tutto: camicia da notte di pizzo, capelli color del sole, perfetti, iridi di un verde quasi irreale. Aveva persino il cuore di una bambola, cucito alla ben e meglio da quando Ciel era morto e Sebastian scomparso.
C’era stato chi aveva mormorato a proposito di quanto il comportamento del maggiordomo fosse stato deplorevole – andarsene senza dire nulla, senza nemmeno partecipare al funerale.
Ma la marchesina Middleford sapeva com’erano andate le cose: ne aveva ascoltato la storia, raccontata attraverso una canzone. La ricordava ancora, quella melodia, così come ricordava il viso di Ciel, immobile e freddo nella bara – il suo corpo sarebbe stato il più grande regalo che Sebastian avrebbe potuto farle, tuttavia non le aveva concesso nemmeno di piangere su un cadavere.
E lei aveva smesso di illudersi che la visita di Ciel, dopo il funerale, non fosse stata una conseguenza della sua immaginazione distorta dalla sofferenza.
Elizabeth stava male.
Rinchiusa tutto il giorno nelle sue stanze, usciva unicamente per andar a far visita alla lapide del suo promesso: non mangiava più, beveva perché le davano l’acqua a forza, non si muoveva mai dal suo letto.
Il suo corpo si era rattrappito e accartocciato come quello d’una vecchia, aveva smesso di crescere, si era ammalato di anoressia e poi di polmonite.
If you have a nightmare, please summon me immediately…
La marchesina alzò la testa di scatto, ignorando il dolore che esplose nei suoi muscoli intorpiditi, poco utilizzati da troppo tempo.
«Ciel…?»
Aveva sentito la sua voce. L’aveva sentito cantare.
Guardò verso la finestra, che non ricordava di aver lasciato aperta, e si stropicciò gli occhi quando la luce della luna glieli graffiò impietosamente, abituati com’erano al cielo grigio di Londra della mattina presto – l’unico che vedeva sulla strada per il cimitero.
«Lizzy?»
Ciel era seduto accanto a lei – perfetto e tredicenne come se non fossero trascorsi tre anni dalla sua morte – e la osservava con gli occhi colmi dell’orrore che la sua condizione destava in chiunque.
Non le importava di nessun altro, tuttavia, che di lui.
Per la prima volta Elizabeth si avvide di come si era ridotta e provò una vergogna infinita, tanto che nascose il volto tra le mani troppo magre. «Non… non guardarmi!» gracchiò con la voce arrochita dalla mancanza di uso. «Ci… el… sono orrenda… Per favore… vattene…!»
Il giovane conte l’afferrò per i polsi, le scostò le mani dal viso e l’attirò a sé, affinché affondasse il naso nei suoi abiti e le sue braccia le cingessero la vita innaturalmente sottile.
«Te l’avevo promesso,» mormorò nell’accarezzarle i capelli stopposi, non più curati da quando lui l’aveva abbandonata «avevo giurato che sarei tornato da te». Strofinò il volto contro le ciocche secche, che avevano perso la loro eterna morbidezza, e sorrise quando la marchesina aprì le piccole mani tremanti e si aggrappò ai suoi vestiti.
«Mi dispiace, Ciel» singhiozzò, mortificata. «Mi dispiace… Adesso… adesso non mi vorrai più…»
Era terrorizzata al pensiero che il suo fidanzato se ne andasse di nuovo. Non voleva che se ne andasse, immaginazione o meno che fosse. Le sue dita strinsero i lembi della sua giacca con quel che rimaneva della forza che il suo corpo aveva avuto e lei infilò la testa nelle pieghe della camicia come faceva quando Ciel era ancora vivo e sperava di convincerlo a permetterle di prolungare la sua visita alla magione Phantomhive.
«Non è così, Lizzy, non è così…»
Ciel la tenne delicatamente tra le braccia sino a quando non avvertì che si era calmata, che si era abbandonata al suo tocco e aveva smesso di piangere.
L’aveva compreso dal primo momento in cui aveva visto il suo corpo debilitato.
Elizabeth stava morendo. Moriva di disperazione.
«Sebastian,» sussurrò «non si può fare nulla? Non può diventare… come me?»
Percepiva l’amore della marchesina nei suoi confronti come se fosse stato lui stesso a provarlo; e anche se quel sentimento, come ogni altra emozione, fosse stato destinato a perire nel passaggio ed Elizabeth fosse divenuta la sua fredda sposa – e lui il suo gelido sposo –, l’avrebbe preferito di gran lunga alla morte dell’ultima radice che ancora lo attaccava agli umani.
“… and I shall answer with “yes, yes, my lord”…
«È davvero questo che desiderate per lei? Che il suo spirito si perda nello stesso oblio in cui vi siete perduto voi, anziché trovare la luce perpetua in Paradiso?»
Sebastian avrebbe potuto ferirlo, se fosse stato ancora un mortale: il suo tono era d’accusa. Non l’aveva mai perdonato, mai l’avrebbe fatto. Eppure, malgrado il fiele che stillava da ogni sillaba, il maggiordomo aveva ragione.
«No…»
Distese con dolcezza il piccolo corpo inerte sul letto, le rimboccò le coperte e la baciò sulla fronte con le labbra gelide. Elizabeth avrebbe potuto apparire addormentata e serena, con quel sorriso che le increspava gli angoli della bocca – forse la sua famiglia avrebbe sofferto di meno, se l’avesse vista così felice.
Il giovane conte scosse la testa. Per la mattina seguente il corpo si sarebbe raffreddato e avrebbe cominciato a puzzare di cadavere. Non ci sarebbe stato nulla per cui non soffrire.
 
“… A butler’s daily routine…
La luna amava quando il suo discepolo cantava per lei.
Sebastian lo faceva ogni volta che ella si levava in cielo, piena e luminosa, e la intratteneva con la sua canzone preferita. Ancora adesso, malgrado la sua condizione di prigionia eterna, la sua devozione per la luna era rimasta più profonda d’un oceano.
Era stata lei a battezzarlo con il suo nome – non “Sebastian Michaelis”, bensì il suo nome autentico.
«Andiamo, Sebastian,» eppure, lui continuava a chiamarlo a quel modo e avrebbe continuato nei secoli dei secoli, perché il loro Contratto non sarebbe mai terminato «non abbiamo più nulla da fare qui».
Il maggiordomo ripose il violino nella sua custodia con infinita cura, si sistemò la tracolla sulla spalla e si apprestò a seguire il suo padrone.
Storse il naso nell’avvertire l’odore di morte che emanavano le sue mani.
“… a demon’s real state of affairs”.
  
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