Così
vai via, non scherzare no
20 giugno 2010
Piangevi.
Erano
due ore che piangevi.
Alternavi
momenti di lucidità
a minuti interminabili di pura devastazione interiore.
Troppi
ricordi, troppe parole
interrotte, confuse, non dette.
Ti
siedi di nuovo su quel
divano al centro del salotto, aspettando che scendesse la sera.
Perché
non potevi continuare a
stare male.
Non
per lui.
“Riccardo te l’ha
detto?”
“Cosa?”
“Che ha trovato da lavorare in un altro
posto.”
“Dove?”
“Non me l’ha voluto dire. Parte
domani, si trasferisce con Dario e
Alessandro.”
Eri uscita dallo studio di Sergio con la sensazione
di non essere più
al mondo.
Ti reggevi alle pareti per non cadere a terra da un
momento all’altro,
tanto le tue gambe ti tremavano.
Osservavi attorno a te la gente che rideva,
scherzava, chiacchierava.
Eppure eri in un ospedale.
Ogni giorno eri a contatto con storie fatte di
sofferenza, di tristezza
e proprio oggi… oggi tutti ridevano.
Accendi
la radio.
Non
c’era niente di speciale,
se non un notiziario il cui radiofonico si lamentava delle mezze
stagioni che
si stavano andando estinguendo.
E
infatti c’era un freddo
cane, nonostante la primavera inoltrata.
Cambi
la modalità dello stereo
e lasci che un Baglioni di un cd lasciato lì dentro da anni
si diffondesse a
volume moderato nell’ambiente.
Canzoni
d’amore.
Tutto
quello di cui avevi
bisogno per cadere di nuovo in quella crisi depressiva.
Ma
poi… cosa t’interessava di
lui?
Delle
sue scelte, dei suoi
diritti di cambiare casa quando voleva.
Ti
convinci che si trattasse
tutto di una questione di principio.
Lavoravate
insieme da più di
quattro anni e… non riesci a ricacciare
un’ennesima lacrima, che bagna il
rivestimento del divano.
Ti
doveva un saluto.
Un
ciao Gandini.
Un
addio Cristiana.
Un
non ci rivedremo più, ma in questi
anni sono stato bene con te.
Figurarsi.
La
sua capacità emozionale
espressiva era limitata quanto il verde di un semaforo.
Sospiri.
No,
non era questione di principio.
O
almeno non solo.
Piangere, urlare, dire no.
Non serve a niente già lo so,
è finito tutto.1
L’unica
piccola speranza che
ti rimaneva era pensare che sarebbe partito la mattina dopo.
D’istinto
getti gli occhi
sulla porta.
Quella
che avrebbe potuto aprirsi
da un momento all’altro.
E quel disordine
che hai lasciato nei miei fogli
andando via così.2
Dovevi
cercare qualcosa da
fare, altrimenti ti saresti corrosa la mente, sempre e solo su quella
sua
immagine.
Metti
in stand-by Baglioni e
ti rechi in cucina, dove cerchi tra i cassetti e le ante della credenza
qualcosa di commestibile che non fossero gomme da masticare o caramelle.
Trovi
una barretta di
cioccolato bianco quasi finita.
Ma
poi riponi anche quella, considerando
il fatto che eri patetica.
Patetica,
sì, ad affondare la
disperazione nella cioccolata, quasi fosse una diciottenne che ha
appena
scoperto di non potersi nemmeno più illudere
dell’amore.
Tu
avevi ancora quattro ore,
per illuderti.
Telefoni
ad Elena, tanto per
sottrarre dieci minuti dal conto alla rovescia.
Ti
assicura che stava bene,
che non tornava per cena, tantomeno a dormire.
Si
giustifica con un devo studiare
più falso che mai.
Così
accendi la tv.
Dopo
un excursus sulla vita
degli orsi polari, un talk-show con ragazze inviperite e una soap-opera
olandese che in quanto a depressione raggiungeva quasi i tuoi livelli,
era
inevitabile mandare al diavolo anche quel genere di intrattenimento.
Sergio
ti aveva
afferrato delicatamente per un polso prima che potessi raggiungere il
raggio
d’azione delle porte automatiche dell’ingresso.
“Sei
sicura di
stare bene?”
“Sì.”
“Vuoi
che ti
accompagni io a casa?”
“No.”
“È
per Riccardo,
vero?”
Lo
squadri.
“È
sempre per
Riccardo.”
Ti addormenti
così, con il viso bagnato dalle lacrime, la
voce di Sergio che ti perseguitava, l’immagine di lui
impressa nella mente.
Riapri gli occhi quando
è già buio.
La lucina dello stereo ti
ammiccava irritante, così fai
per alzarti e spegnerlo del tutto.
Bussano alla porta e tu ti
volti, di scatto.
Il tuo cervello, che
sembrava essersi svuotato dopo
quella dormita, ricomincia ad elaborare dati su dati, facce su facce,
parole su
parole.
E il tuo muscolo cardiaco
sembrava seguirlo a ruota, per
ossigenarlo ad una velocità inopportunamente alta.
Cammini nel buio fino alla
porta: quei cinque centimetri
di spessore che separavano te da lui, lui da te.
Tralasciando il fatto che
poteva essere chiunque.
Il meccanismo scatta e
l’enorme piano di legno ruota sui
cardini, non mancando di cigolare.
“Ciao.”
Entra senza chiedere
permesso.
Strofina i piedi sul
tappetino, poi aspetta che tu
richiuda la porta.
“Pensavi che me ne
andassi senza salutarti?”
“Pensavo
che…” avevi già la voce alterata, e lui
se ne
accorge. “Che non te ne andassi.”
Porti una mano su un fianco,
e passi l’altra sulle tue
labbra, sfuggendo il suo sguardo.
“Hai
pianto” non ti risponde.
“No”
stride la tua voce.
Si avvicina e ti appoggia
una mano su una spalla.
“Hai gli
occhi-”
“Ti ho detto che
non ho pianto.”
Indietreggi, facendo
scivolare via quel contatto.
Eviti persino di sfregarti
gli occhi, tant’era palese il
contrario.
“D’accordo.
Allora…”
Dimmi addio.
Dimmi che non ti
rivedrò più.
Dimmi che per i prossimi due
o tre, o sei mesi passerò
una vita d’inferno.
Dimmelo, così
potrò prenotare in anticipo un posto in una
clinica psichiatrica.
“Hai lo stereo
acceso.”
Chi
segue ogni tuo
passo,
chi
ti telefona
e
ti domanda
adesso…
“Eh?”
Lo indica.
“Stavi ascoltando
qualcosa?”
“No.”
S’incammina verso
quella mensola.
“Cioè,
sì” rimedi.
Lo vedi abbassare il volume
al minimo e premere play come
se conoscesse a memoria quel modello di stereo, come se lo usasse ogni
giorno.
Tu
come stai…3
Poi un assolo di chitarra.
E, mentre attende la canzone
successiva, torna verso di
te.
“Non abbiamo mai
ballato insieme.”
Scuoti la testa.
Così
vai via, non
scherzare no.4
Ti prende la mano sinistra.
Ma
le mie mani
tremano.
Appoggia l’altra
sulla tua schiena che, in un movimento
rapido ma delicato porta verso di lui.
Intreccia le dita della sua
mano con le tue.
Rabbrividisci, ma sollevi il
capo per incontrare i suoi
occhi che luccicavano alla poca luce proveniente dalle finestre.
Cosa
mi è preso
adesso…
“Che vuoi che sia
se tu te ne vai” canti quando arriva
quel verso.
E sorridi, tornando ad
abbassare lo sguardo.
Mentre
i minuti
passano…
Riccardo ti stringe addosso
a lui.
Trattieni il respiro quando
senti sfiorare la sua guancia
con la sua.
Ma
sì è lo stesso…
Ti appoggi alla sua spalla,
aspettando il ritornello,
intrappolata in quell’abbraccio che no, non era lo stesso.
Amore
mio non te ne
andare…
Stringi tra le tue dita la
stoffa della giacca di
Riccardo, singhiozzando, malamente celata dal ridotto volume dello
stereo.
Senti sul tuo capo la sua
mano, che più volte ti
accarezza i capelli.
Se
te ne vai…
La musica si ferma.
“Cosa succede se
me ne vado?”
Aveva bloccato lui la
riproduzione.
Gli posi un bacio sulle
labbra, che inumidisci di pianto.
“Un lento
l’ultimo oramai.”
Io odio le song-fic, e credo di avere anche un motivo fondato: seguono una canzone, quindi qualcosa di non originale, e ne riportano le parole, quindi - mi ripeto - qualcosa di non originale.
Ma amo questa canzone e le altre che ho inserito in questa fanfiction, perciò non sono riuscita a non inserire le parole di Baglioni, con cui, come avete letto, la storia si è formata da sola.
1. Amore Bello - Claudio Baglioni
2. Mille Giorni Di Te E Di Me - Claudio Baglioni
3. E Tu Come Stai - Claudio Baglioni
4 (e tutte le altre citazioni che seguono). Amore Bello - Claudio Baglioni