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Autore: avalon9    13/01/2011    6 recensioni
“Siamo pupi, carissimo don Fifì...Pupo io, pupo Lei, pupi tutti.”
Kalevi, quella frase, la sente da quando aveva cinque anni e d’italiano o di greco non capiva nulla. La sente strascicata da una voce troppo roca, che gli ricorda il miagolio di un gatto infastidito. La sente e se la lascia scivolare addosso, con quell’espressione di supposta accondiscendenza che il tempo e la solitudine gli hanno insegnato.
“Siamo pupi, carissimo” sogghignava quella voce irritante e più Kalevi la ignorava più gli penetrava nella testa. Possessiva.

Da un contest cui non ho potuto partecipare, lo squarcio su un'amicizia complicata, insolita, esasperata; e sempre complice.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cancer DeathMask, Pisces Aphrodite
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Axia

Autore: Axia

Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life

Personaggi Principali: Cancer DeathMask; Pisces Aphrodite

Altri Personaggi: Atena, Radhamantys come guest star (anche se solo nominato)

Rating: Giallo

In proposito: “Siamo pupi, carissimo don Fifì...Pupo io, pupo Lei, pupi tutti.”

Kalevi, quella frase, la sente da quando aveva cinque anni e d’italiano o di greco non capiva nulla. La sente strascicata da una voce troppo roca, che gli ricorda il miagolio di un gatto infastidito. La sente e se la lascia scivolare addosso, con quell’espressione di supposta accondiscendenza che il tempo e la solitudine gli hanno insegnato.

“Siamo pupi, carissimo” sogghignava quella voce irritante e più Kalevi la ignorava più gli penetrava nella testa. Possessiva.

Disclaimer: i personaggi sono di Masami Kurumada; la situazione invece la rivendico mia^^ La frase iniziale, invece, è di Pirandello.

Note: one shot; missin moments

Cose: Ci ho lavorato per un Contest il cui tema era l’amicizia. E mi sono ammalata, così da non riuscire a terminarla in tempo. Ma l’idea era troppo invitante e mi ci sono messa d’impegno per finirla. Anche se non ho molta dimestichezza con questi personaggi, ma bisogna pur iniziare, no?

Mi sono divertita a inserire Death e Aphrodite nel mio solito contesto poco saintseiyano e molto quotidiano. Insomma: di battaglie parla tutto l’anime/manga. Un po’ di vita tranquilla dovranno pur farla anche loro, no? Specie in un ipotetico post-Hdes.

Devo riconoscere che nel delinearli sono stata influenzata dal fandom in generale. Soprattutto da fanfic francesi che ho letto anni fa. L’immagine che spesso trovavo di DeathMask e Aphrodite, ad esser sincera, non mi piaceva molto: il sadico e l’effeminato. Soprattutto la definizione di Pisces mi ha sempre lasciato l’amaro in bocca. Ma mi conosco: e se Pisces appare con tratti efebici io non riesco a toglierglieli. Allora ho provato ha cambiare prospettiva: “effeminato” sì, ma perchè. E alla fine non credo che lo sia risultato tanto, effeminato.

Per Cancer il discorso è a parte, perchè di questo cavaliere ho un’idea piacevolmente contorta. Sorvolando sul fatto che adoro l’elemento dell’albinismo che si affaccia ogni tanto qui e lì nella serie, NON penso assolutamente che la descrizione che Cancer da di sè a Shiryu sia reale. É quello che vuole far credere, che gli fa comodo che tutti credano. Non nego le maschere, ma immagino che siano un modo come un altro che ha per esorcizzare il suo potere. Come il fatto che rida molto; si sa: il riso ha valore apotropaico fin dalle origini.

Mmm. Il discorso sarebbe lungo. E io sono disponibile a confronti e scambi di opinione. Via e-mail o in qualunque altra forma; ma qui non so se è il caso che mi dilunghi troppo. Rischio di annoiarvi^^

Ultima nota: i nomi! Angelo è, ovviamente, DeathMasck e la scelta è ricaduta su questo nome per semplice sondaggio: è il più gettonato nei fandom, anche stranieri. Temo che se Kurumada si deciderà a farci sapere il suo nome reale dovrà tener seriamente conto di questa nota. Kalevi, invece, è Aphrodite: Kalevi Erikson Sjöberg. L’ho battezzato così e per me restera sempre così. Perchè i nomi propri? Perchè si muovono fuori dal Santuario, e perchè sono persuasa che i loro siano nomi di battaglia, nickname, non così strani per le abitudini guerriere di un tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scirocco siciliano

 

 

 

 

 

 

“Siamo pupi, carissimo don Fifì...Pupo io, pupo Lei, pupi tutti.”

Kalevi, quella frase, la sente da quando aveva cinque anni e d’italiano o di greco non capiva nulla. La sente strascicata da una voce troppo roca, che gli ricorda il miagolio di un gatto infastidito. La sente e se la lascia scivolare addosso, con quell’espressione di supposta accondiscendenza che il tempo e la solitudine gli hanno insegnato.

“Siamo pupi, carissimo” sogghignava quella voce irritante e più Kalevi la ignorava più gli penetrava nella testa. Possessiva.

 

 

 

 

Ti piaciti i pupi ciuri?”

Kalevi alza appena le spalle, allungando il labbro inferiore in quella smorfia di indifferente disappunto che gli riesce così bene dopo tanti anni passati a perfezionarla. C’è il sapore del sole. Del sole e delle arance, in quella piazzetta nascosta fra i vicoli di una Palermo piena di luci e di voci troppo forti e troppo confuse.

Quinni ciuri?”

Kalevi socchiude gli occhi e piega appena la testa di lato. “Non conosco la storia” sussurra in uno sbuffo appena percettibile, arricciando il naso fino al sogghigno che si allarga sulle labbra del compagno. “E non ci tengo a conoscerla” appunta in tono indispettito, sistemandosi meglio sulla scomoda poltroncina, gettando dietro alla spalla il lembo di sciarpa che continua a scivolargli sul petto.

Angelo si umetta le labbra screpolate per la salsedine e il freddo umido di quel dicembre palermitano che sa di infanzia e di tempo immobile. Lo sa che Kalevi non riesce a seguirla tutta, la storia di Orlando e delle sue gesta. Lo sa fin da quando gli ha gettato addosso cappotto e sciarpa e lo ha trascinato fuori dalla loro stanza d’albergo, in quella notte troppo umida e troppo caotica per sembrare una notte d’inverno.

Aspira con calma il fumo della sigaretta, allungando le gambe. I pupi continuano a combattere e amare nelle loro scintillanti armature di metallo colorato, i ricchi cimieri piumati e le minacciose spade di cartapesta ben strette davanti a visi abbronzati. Si chiede distrattamente se, con la sua armatura addosso, anche lui faccia lo stesso effetto: un’aura di sacralità e irrealtà. Sogghigna: minchiate. Ha ancora le mani che gli tremano, se solo prova a ricordare quel fottuto buco in cui è precipitato. Due volte signure santissimo. Due volte ci è caduto dentro, si può essere più lùocci? E lùoccu lo resta, visto che quel buco ce lo ha stampato nella testa e non se ne vuole andare.

Angelo lo conosce bene, quel buco nero e grande e profondo come gli occhi fissi e vuoti di Orlando che adesso lo stanno guardando: grandi grandi senza ombre, senza contorni, senza promesse. Lo conosce da quando era bambino e ci scendeva con i piedi nudi e i pantaloncini corti, la vecchia torcia in una mano e il temperino spuntato ben nascosto nella tasca dei calzoni. Ci era sceso tante volte Angelo nei buchi neri che si snodano umidi e affascinanti sotto Palermo. Dei qanat, da bambino, sapeva solo una cosa: erano la promessa di non tornare.

Vitti na crozza supra nu cannuni

fui curiusu e ci vossi spiari

idda m'arrispunnìu cu gran duluri

murivu senza toccu di campani.

I teschi ad Angelo non hanno mai fatto paura e nemmeno le campane. E nei qanet ci scendeva a salti, l’acqua fredda e limacciosa fino ai fianchi; ci scendeva, gli occhi stretti e i denti fuori, come gli asini che puntano le zampe nella sciara. Angelo non aveva mai avuto paura di teschi, campane e qanat. E nel quartiere si vociava che fosse stato l’unico dei suoi compagni a contare i demoni della Zisa senza sbagliare. E non una o due volte, per caso; li contava sempre giusti – dicevano, anche se nessuno ci riesce e nessuno ne conosce il numero giusto. Ma Angelo li aveva contati e da quel giorno le comari si segnavano quando lo vedevano passare, i capelli troppo chiari arruffati sulla faccia abbronzata e quegli occhiacci rossi che sembrava che aviri u diavulu ncorpu. Sua madre lo aveva portato da don Bastiano per farlo confessare e gli aveva messo al collo una medaglietta con l’immagine di Santa Ninfa, perchè lo proteggesse.

Sinni eru si nni eru li me anni

sinni eru si nni eru ‘n sacciu unni

ora ca sugnu vecchio d’ottant’anni

chiamu la morti i idda m’arrispunni

Glielo raccomandava sempre, sua madre, di tenersi la medaglietta e il vestitino di Maria sul cuore perchè altrimenti Santu Luca santu Luca, di cu sunnu li figghi, si l'annaca. Angelo non ricorda se ci credesse o no, alle raccomandazioni di sua madre, ma la medaglietta e il vestitino se li porta ancora addosso e prima di scendere nel qanat si segnava come facevano nel girone o alla Vuccciria quando passava. Ma Santa Ninfa non lo protesse e, una volta, in fondo a un qanat ce la trovò per davvero la morte. E non aveva la falce bianca e il cappuccio nero in testa; non aveva nemmeno gli occhi vuoti e stanchi e i denti rotti in una bocca troppo grande. Angelo la vide, la morte, quel pomeriggio di Agosto, con il sole a picco di un’infanzia giocata fra i vicoli e le camere dello scirocco. Angelo, d’Agosto, vide la morte e aveva un viso di acqua gommosa e malleabile e un sorriso che gli aveva ricordato il sorriso piccolo della statua di Santa Rosalia a Casa Professa. Il sorriso che intravvedeva nella vara durante le processioni; il sorriso di sua madre mentre si sistemava il fazzoletto sulla testa, prima di uscire nel sole. Non gli aveva fatto paura la morte. Era bella, troppo bella, e gli sussurrava all’orecchio qualcosa; parole fini e ipnotiche come le vibrisse di un gatto, come il ritmo del marranzzanu.

Cunzatimi cunzatimi ’stu lettu

ca di li vermi su manciatu tuttu

si nun lu scuntu cca lu me peccatu

lu scuntu all’autra vita a chiantu ruttu.

Angelo non le ricorda più le parole della Morte, ma il buco, quello sì, lo ricordava. Ricorda il freddo e le mani e i volti che gli scivolavano accanto, dentro. Ricorda il vento: in fondo al qanat, nell’aria ferma e stantia di secoli vecchi; in fondo al qanat, le gambe nell’acqua gelida e la muffa e la polvere nel naso; in fondo al qanat c’era vento. E sapeva di zolfo e stelle bruciate; sapeva di sangue e latrati e fiori lasciati marcire. E in mezzo, assieme al tanfo, quell’aria era una carezza di asfodeli, era limone: lusingava.

Come dice, la canzone? Ciertu, accussì rirìeva...

C’è nu giardinu ammezu di lu mari

tuttu ‘ntessutu di aranci e ciuri

tutti l’acceddi cci vannu a cantari

puru i sireni cci fannu all’amuri

I fiori; e il silenzio. Don Bastiano, alla domenica, dal pulpito diceva che l’Inferno è pianto e stridore di denti e che ci stanno i diavoli con Lucìfiru. Non parla mai di fiori, di arance e di sole don Bastiano. Ma Angelo in fondo alla voragine ce lo aveva visto, il Sole, e aveva avuto paura. Perchè all’Nfernu u soli a capìri nun ci avi.

E adesso sa che in fondo all’Inferno, proprio in fondo, c’è anche il Sole. Dietro gli asfodeli di polvere e di inganno; dietro i laghi di sangue e i latrati di rabbia e dolore; dietro acque limacciose e lente; dietro vecchi muri incrostati di paramenti di festa; dietro ogni fottuto buco che si spalanca per mangiarti, quando meno te lo aspetti. Dietro tutto c’è anche il Sole, Angelo adesso lo sa. Come lo aveva saputo da bambino.

Lo avevano ripescato dal qanat due giorni dopo, gli occhi spiritati e quella risata bassa e roca a gorgogliargli in gola. Angelo ce l’ha ancora quel modo roco e gutturale di ridere, e il fumo non lo ha aiutato a migliorarlo. Ride spesso Angelo: davanti alla paura, davanti alla vittoria, davanti alla sconfitta. Ce lo ha sempre stampato in faccia quel ghigno irriverente da gatto randagio. E al Sole in fondo al qanat non ci aveva più pensato, fino ad una maledetta guerra. Lì, davanti al Muro del Pianto, Angelo aveva riso: quella sua risata roca, con una punta di seducente sottile follia; aveva riso e risposto con un gesto sciocco – un dopo che sapeva bene che non esisteva – all’occhiata di curioso rimprovero di Kalevi.

Ci avi veraminti u soli all’Nfernu aveva pensato, e lo aveva accettato. Come a cinque anni aveva accettato che i fantasmi gli aleggiassero attorno. E fra il vespero e la nona, sotto il sole a picco, con gli occhi sensibili che bruciavano per la luce e la polvere, Angelo girovagava per il quartiere silenzioso assieme a riflessi lucidi e accecanti nella luce.

Ma una cosa era saperlo e conoscerlo e desiderarlo, il buco in fondo al qanat, la bocca della Morte che custodiva; un’altra cosa era caderci dentro. E sentire il corpo disgregarsi e diventare polvere che urla e continua a frantumarsi; accorgersi di non avere la forza di urlare e tremare e desiderare anche solo una lacrima per ricordarsi cos’è la vita, cosa significa vivere.

Minchiate si ripete, inclinando la testa allo spacco di cielo fra le tegole e i fili tesi per stendere fra le case. Sulla scena, Orlando sta affrontando un altro paladino, forse Rinaldo forse Gano. Non ricorda più la storia. Ma ormai la chanson si sta esaurendo e il sipario di vecchio velluto sbiadito nasconde i fondali ad acquarello e le armature di stagno finemente cesellate.

Angelo aspetta.

La calma, quasi una quieta indolenza, è nella sua natura siciliana e nemmeno gli allenamenti e i doveri sono mai riusciti a togliergliela. Aspetta che la piazzetta si sia svuotata; aspetta il silenzio di una notte di dicembre passata in strada; aspetta il fumo consumarsi nella bocca e la sigaretta spegnersi in mano.

Salvo lo raggiunge con un paladino ancora in mano, la faccia più scura e i capelli più bianchi di quando ricordasse.

Picciùottu. Ti piacisti u spittàculu?

Assai mastro Salvo. Assai.

E Angelo sente lo stomaco chiudersi mente quell’uomo anziano gli stringe prima la mano e poi lo abbraccia forte forte, senza segnarsi, senza spaventarsi. E le braccia si muovono senza pensarci, a stringere un corpo che ricordava più muscoloso, a raccogliere un corpo divenuto secco e scricchiolante. C’è qualcosa. Qualcosa di sbagliato e perso e lasciato, in quell’abbraccio un po’ rude un po’ affrettato; c’è qualcosa che Angelo non riconosce e sa di conoscere. Come l’ombra di un ricordo, di un’abitudine impossibile da recuperare.

E ricorda un altro vecchio, tanti vecchi. Ricorda bambini e fimmine e cavalieri. Ricorda volti, maschere. Pupi. Le pareti scure che sanno di cosmi e secoli; l’obbedienza giurata a un’altra maschera, un altro pupo in cui aveva riconosciuto una parte di sé.

Siamo tutti pupi si ripete e le maschere scintillano nella sua mente, fra le ombre di una Casa che è passaggio, perdizione, monito. E si chiede perchè ci sia voluto tornare, nella sua Sicilia. Stretto in braccia vecchie e rudi, si chiede cosa cerchi, cosa voglia. E rivede un bambino sorridere, la bocca piena di limoni verdi e una medaglietta di Santa Ninfa al collo; rivede la solitudine allargarsi in abitudine, insinuarsi nei silenzi dell’Anapo, sullo sfondo di un cielo troppo intenso e di un vulcano troppo grande. Rivede i volti: le pareti fredde e ruvide macchiate di affreschi, le corone bizantine, il crocifisso, proprio lì, nel mezzo; e le necropoli. Come i qanat sotto Palermo; come le gallerie che affondano nel ventre della terra; come quella Bocca che ogni notte, da sempre, gli sussurra parole che trascinano alla follia.

Morti ca m’hai a ddari, lestu sìa.

Non lo aveva voluto; nemmeno la Morte. E la sua Sicilia, ormai, era una terra di sole troppo abbagliante e troppo lontana; una lunga costa tagliata di netto in un mare turchese, piena di vecchi ricordi e di caratteri forti.

Non lo aveva voluto, la Morte. E Angelo ride amaro, la sigaretta fra le labbra piene screpolate; ride un singhiozzo, forse di disperazione forse di vittoria. Perchè in fondo lo sa che era quella la sua Morte: cu’ asini caccia e fimmini cridi, faccia di paradisu nun ni vidi. E lui ad una fimmina, ad una bambina, ci ha creduto.

Aveva creduto a parole soffiate da una maschera nera con gli occhi rossi; aveva creduto ad una legge che aveva imparato da ragazzo fra le strade della sua Palermo, impressa nella sua lingua senza futuro. E aveva dimenticato che il sonno è ciò che molti siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portare i più bei regali. Perchè non importa far bene o far male: non c’è nemmeno, un bene o un male. Il peccato che non si perdona è fare e Angelo aveva fatto: calati juncu, ca passa la china. E Angelo aveva capito di essere ulivo e non giunco; aveva capito di avercelo dentro, il sole della sua terra. E aveva desiderato cambiare; aveva deciso di guardare in fondo al qanat, aveva contato i diavoli della Zisa. Se ne era andato, Angelo, e petra ca un fa lippu sa tira a china. Lo sapeva, e non gli era importato.

Ma adesso.

Adesso.

Adesso Lei aveva sorriso della sua fede istintiva e brusca, del suo ghigno sornione da gatto selvatico, brullo e schietto. Lei: Atena. Atena dagli occhi di cielo; Atena bambina che guida e conforta; Atena vergine, piccola e fragile, come Santa Rosalia. E forte. Troppo forte. Anche per lui. Ma figglia di gatta si nun muzzica gratta. E quel graffio Angelo si era rassegnato a non vederlo più andarsene. Ad usu meu, aveva deciso; ad usu meu. Perchè non era un santo, e lo sapeva bene; ma sapeva altrettanto bene di non essere un diavolo. Staminchia, i diavoli lui li conosceva bene e con uno avrebbe ancora scambiato quattro paroline a quattr’occhi volentieri. C’aveva un conto da regolare, con quel diavolo.

C’hanno il corpo nero, i diavoli; e puzzano di zolfo e di vecchio whiskey inglese. Angelo poteva ammettere di assomigliarci, ai diavoli, ma nessuno lo avrebbe mai convinto nemmeno ad avvicinarsi a qualcosa che avesse anche solo lontanamente il sentore di quel liquore nauseante. Ad usu meu aveva deciso, ma nemmeno Atena gli avrebbe tolto la libertà di essere quello che era: bastardo sì, rinnegato mai. E Atena aveva sorriso e teso la mano; aveva sorriso e gli aveva sussurrato parole senza suono nel silenzio del naos, lasciandogli addosso l’inquieta sensazione di un’idea di giusto e sbagliato gettata sull’orlo, in attesa.

Ma Atena aveva sorriso e Angelo si era detto che anche Palermo e i suoi re si erano piegati per secoli e secoli a quattro bambine sante offerte al cielo. E se lo avevano fatto re e imperatori lo poteva fare anche lui, in un tempio fra gli ulivi di Grecia. Ad usu meu comunque.

Angelo sorride, le mani nei jeans sdruciti e le spalle strette. Salvo parlava e parla: ricorda Parla dei suoi pupi, di Palermo e della città cambiata in fretta, troppo in fretta, in una terra che sonnecchia nel sole. Parla con Kalevi, fra inglese strascicato dialetto e gesti aperti e netti. Parla mostra incuriosisce spiega. E Angelo stringe gli occhi e sbuffa fumo caldo nell’aria umida, mentre Kalevi ruota il pupo con infantile elegante curiosità.

Kalevi.

Ce lo ha trascinato a forza, nella sua Sicilia. Una parola gettata nel silenzio di una serata qualunque, una risata più forte, una provocazione velata. Non è facile convincere Kalevi, aggirare la sua cortese aggraziata disperata solitudine; non è facile toccarlo, insinuarsi oltre l’ipocrisia ostentata che riservava a tutti. Angelo non ricorda come. Un giorno. Un attimo. Qualcosa. Qualcosa che si scopre condiviso. Anche nelle differenze, anche nelle contraddizioni. Fissare l’orizzonte e sorprendersi a studiarsi, ragazzini vestiti d’oro e di responsabilità troppo grandi; ragazzini cresciuti all’ombra di sospetto e indifferenza.

“Angelo.”

Quando se ne era accorto? Quando aveva visto in Kalevi la sua stessa solitudine, la sua stessa perdizione? Forse quando gli aveva ricordato il mare. I suoi occhi; gli avevano ricordato il mare fra i moli di Palermo: troppo accecante per non nascondere qualcosa. Qualcosa di brutto. Sì: il mare. Il mare e il sole, il torrido dell’estate che non perdona e martella e seduce con fantasmi iridescenti.

Kalevi era apparso; e Angelo aveva pensato: fantasma. Un fantasma così diverso da quelli con cui conversava, dalle ombre vischiose che gli scivolavano addosso e lo maledivano.

Si voi lu beni pensa a lu mali. Chi glielo aveva insegnato? Un uomo o forse...No; una donna. Una donna a. A. Non lo ricordava. Una fimmina, però; ne era certo. E gli aveva coperto gli occhi con la mano fredda e gli aveva sfiorato la bocca. E Angelo aveva visto; aveva capito. Quella rabbia vomitatagli addosso; le preghiere, i silenzi, gli sguardi che ti trapassano e non riesci a interpretare, i gesti che non capisci a chi si stiano rivolgendo. Aveva capito: e aveva creato.

“Ängel.”

Dopo aver conosciuto Kalevi sì. Dopo aver conosciuto quel bambino gracile e silenzioso, che ti fissava con il nasino arricciato e sbatteva i piedi se non lo stavi a sentire. Non era viziato Kalevi, proprio no; non era viziato e il rispetto e l’attenzione aveva imparato a guadagnarseli. Sulla costa di un altro mare; fra i vicoli e i quartieri di un’altra città. Era piccolo Kalevi; troppo piccolo e troppo pallido per sopportare il sole di Grecia e l’afa del Mediterraneo e i fantasmi che si insinuano di giorno negli occhi socchiusi.

Angelo aveva pensato: due giorni. E poi di Kalevi Erikson Sjöberg nessuno si sarebbe mai ricordato, un po’ come nessuno si ricorda dell’onda sulla battigia. Ma l’onda continua a tornare e alla fine scava anche la roccia. Kalevi aveva insistito e si era abituato al sole e al vento caldo e aveva scavato un posto nel Tempio.

Era stato da quel momento. Alle pareti di quel Tempio estraneo Angelo aveva iniziato ad appendere maschere. Prima i ricordi di vecchi fantasmi lasciati in Sicilia; poi gli avversari uccisi, infine solo volti: lisci, eburnei e con espressioni di insoddisfatta costrizione. Kalevi aveva sbuffato del suo pessimo gusto, ma lo aveva lasciato fare. E mentre al Tempio iniziavano a chiamarlo pazzo, mentre sussurravano che una qualche manìa lo aveva colto e si segnavano e pregavano Atena come si segnavano le comari nel suo girone, il crocifisso ben stretto nelle mani ossute; mentre sentiva voci malelingue e insinuazione aumentare, Angelo riempiva la sua casa delle sue maschere, forse di nemici forse solo di fantasmi incontrati su un campo di battaglia.

E forse alla fine ci aveva creduto anche lui, alla sua pazzia. Perchè quando la morte la vedi in faccia; quando con la morte ci parli prima di addormentarti e la vedi quando apri gli occhi; quando ti senti addosso il respiro e il tanfo di chi ti sta pregando e pregando e pregando; quando sai che tutto quello che puoi fare è stare lì ad ascoltare, la sigaretta fra le labbra e l’impotenza che ti consuma come un cancro; quando nemmeno stringere la testa e riempirti i polmoni di fumo basta a stordirti, allora puoi anche convincerti che l’unico modo per sopravvivere è odiare. Odiare i tuoi occhi che vedono i fantasmi; odiare le tue mani che non possono raggiungerli; odiare quel fottuto buco dove vorresti accompagnarli per accorgerti di aver smesso di farlo da tempo, per non ritrovarti senza una parola da dire senza una preghiera da recitare. Odiare per non impazzire e credere che forse, forse, è davvero l’unica cosa giusta da fare.

“Anghelos.”

Kalevi non aveva commentato; ed era stato l’unico. Aveva alzato le spalle, accennato appena quel suo maledetto bugiardo sorriso di superiore condiscendenza e se ne era andato facendo sventolare il mantello. E Angelo aveva capito davvero cosa fosse la teatralità. Perchè Kelevi è teatrale, in tutto quello che fa; e anche in quello che non fa. É teatrale e sa e non sa di esserlo, di recitare, di soppesare, di melodramatizzare. Si è dovuto costruire un perchè, Kalevi; e lo ha fatto su se stesso, su un narcisismo e un diverso irriso e disprezzato. Se l’è dovuto creare, quell’atteggiamento compito e distaccato che tanto lo fa apparire odioso e frivolo.

Angelo, però, ha imparato a riconoscerla, quella frivolezza. E ad esserne come dipendente.

Se Kalevi può essere frivolo, lui può essere un sadico.

Della verità importa solo ad Atena, e forse nemmeno a Lei. In fondo voleva solo un modo per non affondare, un modo – uno qualunque – per poter camminare sotto il Sole, lui che era un abisso scuro e freddo.

Come Kalevi.

Kalevi che un giorno gli era passato accanto quasi con casualità, gli aveva sfilato di bocca la sigaretta e gli aveva piantato in faccia il mare di Palermo e il mare del Nord, quello scintillio divertito e irriverente che con lui, solo con lui, era malizia vera. Gli aveva sfilato la sigaretta e stretto il viso in una morsa fra lo scherzo e il pericoloso, e gli aveva sibilato all’orecchio, la voce bassa e roca, con quell’accento del Nord un po’ duro un po’ secco: fai quello che ti pare. Noi siamo eroi mancati, lo sai. Abbiamo solo un orgoglio: essere noi stessi.

Istriuni aveva pensato Angelo; e aveva sorriso.

Ha imparto a odiarlo amabilmente.

Lo odia, quando parla in svedese. Lo odia e non riesce a trattenere quel ghigno fra la sigaretta accesa e la mano che la regge. Ghigna, sorride, ride e Kalevi sbuffa stizzito e indisposto, le braccia strette nelle braccia e quel modo tutto suo di gettare indietro la testa.

Lo odia; perchè gli sbatte in faccia con disarmante semplicità, con ovvietà, quello che è, quello che sono. E sottolinea sempre come non se ne pentano.

Lo odia. Per quella sua bellezza sfacciata e provocante che ha imparato ad amare. Per quell’abisso, quella solitudine che Kalevi maschera dietro aspetto curato e pose eleganti. Vede bene l’inganno, Angelo; e lo apprezza. Con quel ghigno di complicità e sicurezza che tanto irrita Kalevi.

Lo odia. E non saprebbe rinunciare alla sua pungente melliflua irritante compagnia. Non ci ha rinunciato nemmeno da morto; perchè dove lo avrebbe trovato un altro che, prima di una missione suicida, gli lascia fumare in santa pace la sua solita sigaretta?

“Death!”

“Chiamasti ciuriddu?”

Kalevi sbuffa, le braccia in un gesto esasperato e un’occhiata acida di disappunto. Lo ha trascinato in Sicilia con non ricorda più nemmeno quale scusa; e va bene. Lo ha portato ad un teatrino di marionette che, deve ammettere, nonostante l’irritazione del momento, si è rivelato molto piacevole. Se ne è rimasto a fumare con quel ghigno divertito stampato in faccia mentre lui si barcamenava fra inglese palermitano stretto e una gestualità pressochè sconosciuta.

E invece di aiutarlo, dopo mezz’ora, aveva iniziato a incamminarsi come se niente fosse, stringendo la sciarpa e accendendosi l’ennesima sigaretta. E lui si era trovato costretto a rincorrerlo fra vicoletti e macchine in doppia fila.

E adesso se ne usciva con quel serafico chiamasti? Dum krabba.

Kalevi ne ha la certezza: lo odia.

Odia l’irritante ostentata sfacciata sicurezza che Angelo possiede, quell’innata abilità di farti pizzicare le mani e istigarti la sanissima intenzione di prenderlo a schiaffi ogni volta che ti guarda. Odia la superficialità con cui affronta ogni cosa, l’incapacità che ha di prendere un impegno e mantenerlo; forse la sola cosa per cui abbia mai mostrato un po’ di rigore è l’essere cavaliere, ma in quel modo tutto suo che ormai lo ha sbattuto sul confine.

Lo odia anche per quello. Per quell’atteggiamento che Kalevi percepisce così distorto e troppo, irritabilmente troppo, simile al suo.

“Chiamasti o nu, ciuriddu?”

“Är. Ti ho chiamato” biascica, il fiato corto e una smorfia disgustata. Il fumo della sigaretta è intenso, quasi speziato, e gli da la nausea, e Angelo glielo soffia con infantile maleducazione in faccia, ignorando le sue occhiate di avvertimento. Ecco: di Angelo Kalevi odia soprattutto l’odore persistente di tabacco che si porta addosso. Quell’odore che, potrebbe giurarlo, gli è penetrato anche nel cosmo, e che fa a pugni con la fragranza delle sue rose ogni volta che lo va a trovare.

“Apprennivi: tieni fame.” lo provoca Angelo, con il solito ghigno sardonico. A Kalevi ricorda sempre di più un gatto; un gatto che gioca con il topolino. E lui non ha la minima intenzione di fare la fine del topo, in bocca a quel gattaccio.

“Che maleducato” gli replica con sufficienza, stringendo il cappotto per ignorare i brontolii dello stomaco. Non gliela darà mai – assolutamente mai – la soddisfazione di dirgli che ha ragione. “Ma sarebbe buona educazione offrire la cena ad un ospite. Soprattutto se è stato trascinato per mezzo Mediterraneo.”

Angelo ride, quella risata roca e bassa che è solo sua, e che assomiglia a un singhiozzo. Ride sempre, anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Come adesso. Kalevi stringe le guance e sbuffa seccato. Ha voglia di piantarlo lì, in mezzo alla strada, e tornarsene di filato in albergo. E poi all’aeroporto. Come. Come accidenti ha fatto a convincerlo a seguirlo in Sicilia?

“A’ sammarigghu ti felicitassi?”

“E cos’è?”

“Pesce.”

Angelo ghigna, ignorando lo sguardo di aperto e ostile disappunto di Kalevi. Lo sa che non gli piace, il pesce; e lo sa che non sopporta i giochi e le provocazioni al riguardo, soprattutto quando è affamato. Angelo si è sempre chiesto perchè. In fondo, in Svezia uno dei piatti tradizionali non è un qualcosa a base di salmone? Non ci crescono, gli svedesi, a caviale e salmone? Kalevi, invece, non ne vuole nemmeno sentir parlare; e Angelo ha accarezzato spesso l’idea che non sia tanto per ferree convinzioni ambientaliste quanto piuttosto per affinità astrale. Lo ha pensato spesso, e si è premurato di chiederglielo altrettanto spesso, rischiando di essere letteralmente dissanguato all’osservazione poco elegante.

“Una focaccia allora” replica, dirigendosi tranquillo ad un chiosco ambulante. “Dui curruruni: simplici pi mi e accasatu pi iddu.”

“Devo fidarmi?”

“Se tieni daveru fame, sè” gli replica, mettendogli in mano il fagotto caldo. “Statti quieto: nun tiene pesce. Juru!” aggiunge poi, godendosi il modo sospettoso di Kalevi di annusare, assaggiare e poi fagocitare quella cena improvvisata e insolita. Su quella panchina, nel freddo umido di dicembre, con vecchie luminarie sopra la testa e qualche motorino che ancora se ne va in giro.

“Perchè sei voluto tornare in Sicilia?”

Kalevi se la rigirava in testa da un bel po’, quella domanda. E perchè ci hai trascinato me? vorrebbe aggiungere. Non gliene ha mai fatte molte, di domande di quel genere. In fondo, Angelo la vita l’ha sempre condotta come voleva. E non si sarebbe mai fermato ad ascoltare i suoi consigli, ammesso che lui avesse tempo da perdere per dargliene. Ma quella domanda Kalevi sa di dovergliela fare. Perchè è grottesca e assurda quella situazione; e se Angelo può starsene tranquillo a fumare, soddisfatto di un qualcosa che sembra sapere perfettamente, lui no. Per una volta no.

“Bho. Tenevo nustalgia. O pi crapricciu. Nu sacciu.”

“Non lo sai?”

“Nu.”

Kalevi impreca a mezza voce. Poteva risparmiarsi la domanda: era logico che Angelo non lo sapesse; era prevedibile che avesse seguito un guizzo del momento. E che lui ci fosse finito dentro per scherzo del caso.

Eppure. Eppure non ci crede. Angelo non c’è più tornato, in Sicilia, dopo la guerra. E una sera se ne esce con una provocazione e lo mette quasi di peso su un aereo per andarsene a Palermo, per tornarsene in una città lasciata senza rimpianti e senza mai guardarsi indietro. E tutta la spiegazione che sa dargli è nu sacciu?

Kalevi accavalla le gambe, pulendosi con quel modo elegante e indifferente dalle poche briciole sul cappotto. Lo sa bene, Angelo, il perchè di quel viaggio; e non vuole dirglielo, ecco tutto. Forse perchè non lo riguarda; ma Kalevi ha la concreta certa sensazione che, al contrario, il motivo sia proprio quello: c’entra lui. E basta.

“Mangiasti mai i sfinci?”

“É pesce?” indaga con circospezione, strappato all’improvviso dai suoi ragionamenti.

“Nu nu” ride Angelo. “Ti gustanu: duci sunnu.”

E lo guarda mentre cerca di trattenere quel piccolo adorabile irriverente desiderio con una smorfia di disappunto.

Istriuni.

Kalevi ama i dolci, e lui lo sa bene. E non c’è niente di meglio degli sfinci per distrarlo da quelle sue pericolose domande. Per quella sera Angelo non ha voglia di essere pressato e interrogato; e forse, ad esser sinceri, sperava che Kalevi si limitasse ad accettare quel fuori programma repentino con la stessa disinvoltura che aveva riservato alle maschere della sua casa. Ma le maschere non lo riguardavano da vicino, deve convenire Angelo; quella trasferta sì.

Ci penserà.

Ci penserà al modo giusto per dirgli che, davvero, non c’è una ragione precisa. E che nemmeno lui lo sa bene, il perchè. Perchè raccontargli che sbucciare un mandarino, sentire un crampo allo stomaco e decidere che doveva tornare in Sicilia era stato un qualcosa di pochi secondi non lo convincerebbe. Non convince ancora nemmeno lui. Ma è quello che è stato.

Assieme alla certezza che ci doveva portare anche Kalevi, a Palermo.

Fargliela vedere, fargliela respirare, fargliela mordere.

Troverà qualcosa: un voto per Natale o un’altra minchiata qualunque. Troverà qualcosa, sì. E metterà a tacere quella voce isterica che deve trovare sempre una spiegazione esauriente a tutto.

“Sfinci pi ti e caffè pi mi. U caffè veru.”

“Perchè? Quello che bevi in Grecia cos’è?”

Angelo aspira lento e divertito. Parlare di caffè con Kalevi è inutile, e dannoso per il suo equilibrio interiore. Glielo potrebbe far assaggiare, invece: un buon caffè italiano nero e forte. Ci affogherà mezza zuccheriera, ma resterebbe migliore di quello che si beve in Grecia. Forse lo convertirebbe; forse.

“Siamo pupi carissimo don Fifi...”

“Piantala!”

Kalevi non la capirà mai, quella frase, Angelo lo sa. E non saprebbe proprio come spiegargliela. Non è qualcosa che puoi dire con le parole, è qualcosa che senti dentro, nello stomaco. Lo senti e lo comprendi, come una risonanza.

Kalevi è stata la sua risonanza, la sua stessa maledizione e lo stesso consapevole orgoglioso menefreghismo. Ci è andato all’Inferno, con Kalevi. E con lui ci tornerebbe ancora. Con una certa irresponsabile spavalderia.

Con Kalevi non gli importa di finire all’Inferno o in Paradiso; forse non ci può nemmeno pensare, al Paradiso. In fondo il suo mondo Angelo se l’è costruito in poche precarie liminari assurde violente certezze disprezzate e snaturate; e nello scherno complice di un ragazzino in bilico come lui.

In fondo DeathMask lo sa che è solo con Aphrodite ad aver costruito l’unica certezza stabile della sua vita: il loro rapporto senza nome, complice e dannato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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