Autore: Axia
Genere: Introspettivo,
Malinconico, Slice of life
Personaggi Principali: Cancer DeathMask;
Pisces Aphrodite
Altri
Personaggi: Atena, Radhamantys come guest star (anche se solo nominato)
Rating: Giallo
In proposito: “Siamo pupi,
carissimo don Fifì...Pupo io, pupo Lei, pupi tutti.”
Kalevi, quella
frase, la sente da quando aveva cinque anni e d’italiano o di greco non capiva
nulla. La sente strascicata da una voce troppo roca, che gli ricorda il
miagolio di un gatto infastidito. La sente e se la lascia scivolare addosso,
con quell’espressione di supposta accondiscendenza che il tempo e la solitudine
gli hanno insegnato.
“Siamo pupi,
carissimo” sogghignava quella voce irritante e più Kalevi la ignorava più gli
penetrava nella testa. Possessiva.
Disclaimer: i personaggi
sono di Masami Kurumada; la situazione invece la rivendico mia^^ La frase
iniziale, invece, è di Pirandello.
Note: one shot; missin
moments
Cose: Ci ho lavorato per un Contest il cui tema era
l’amicizia. E mi sono ammalata, così da non riuscire a terminarla in tempo. Ma
l’idea era troppo invitante e mi ci sono messa d’impegno per finirla. Anche se
non ho molta dimestichezza con questi personaggi, ma bisogna pur iniziare, no?
Mi sono divertita a inserire Death e Aphrodite nel mio solito
contesto poco saintseiyano e molto quotidiano. Insomma: di battaglie parla
tutto l’anime/manga. Un po’ di vita tranquilla dovranno pur farla anche loro,
no? Specie in un ipotetico post-Hdes.
Devo riconoscere che nel delinearli sono stata
influenzata dal fandom in generale. Soprattutto da fanfic francesi che ho letto
anni fa. L’immagine che spesso trovavo di DeathMask e Aphrodite, ad esser
sincera, non mi piaceva molto: il sadico e l’effeminato. Soprattutto la
definizione di Pisces mi ha sempre lasciato l’amaro in bocca. Ma mi conosco: e
se Pisces appare con tratti efebici io non riesco a toglierglieli. Allora ho
provato ha cambiare prospettiva: “effeminato” sì, ma perchè. E alla fine non
credo che lo sia risultato tanto, effeminato.
Per Cancer il discorso è a parte, perchè di
questo cavaliere ho un’idea piacevolmente contorta. Sorvolando sul fatto che
adoro l’elemento dell’albinismo che si affaccia ogni tanto qui e lì nella
serie, NON penso assolutamente che la descrizione che Cancer da di sè a Shiryu
sia reale. É quello che vuole far credere, che gli fa comodo che tutti credano.
Non nego le maschere, ma immagino che siano un modo come un altro che ha per
esorcizzare il suo potere. Come il fatto che rida molto; si sa: il riso ha
valore apotropaico fin dalle origini.
Mmm. Il discorso sarebbe lungo. E io sono
disponibile a confronti e scambi di opinione. Via e-mail o in qualunque altra
forma; ma qui non so se è il caso che mi dilunghi troppo. Rischio di
annoiarvi^^
Ultima nota: i nomi! Angelo è, ovviamente, DeathMasck e la scelta è ricaduta su questo
nome per semplice sondaggio: è il più gettonato nei fandom, anche stranieri.
Temo che se Kurumada si deciderà a farci sapere il suo nome reale dovrà tener
seriamente conto di questa nota. Kalevi,
invece, è Aphrodite: Kalevi Erikson Sjöberg. L’ho battezzato così e per me
restera sempre così. Perchè i nomi propri? Perchè si muovono fuori dal
Santuario, e perchè sono persuasa che i loro siano nomi di battaglia, nickname,
non così strani per le abitudini guerriere di un tempo.
Scirocco siciliano
“Siamo pupi, carissimo don Fifì...Pupo io, pupo Lei, pupi
tutti.”
Kalevi, quella frase, la sente da quando aveva cinque anni
e d’italiano o di greco non capiva nulla. La sente strascicata da una voce
troppo roca, che gli ricorda il miagolio di un gatto infastidito. La sente e se
la lascia scivolare addosso, con quell’espressione di supposta accondiscendenza
che il tempo e la solitudine gli hanno insegnato.
“Siamo pupi, carissimo” sogghignava quella voce irritante e più Kalevi la ignorava più
gli penetrava nella testa. Possessiva.
“Ti piaciti i pupi
ciuri?”
Kalevi alza appena le spalle, allungando il labbro
inferiore in quella smorfia di indifferente disappunto che gli riesce così bene
dopo tanti anni passati a perfezionarla. C’è il sapore del sole. Del sole e
delle arance, in quella piazzetta nascosta fra i vicoli di una Palermo piena di
luci e di voci troppo forti e troppo confuse.
“Quinni ciuri?”
Kalevi socchiude gli occhi e piega appena la testa di
lato. “Non conosco la storia” sussurra in uno sbuffo appena percettibile,
arricciando il naso fino al sogghigno che si allarga sulle labbra del compagno.
“E non ci tengo a conoscerla” appunta in tono indispettito, sistemandosi meglio
sulla scomoda poltroncina, gettando dietro alla spalla il lembo di sciarpa che
continua a scivolargli sul petto.
Angelo si umetta le labbra screpolate per la salsedine e
il freddo umido di quel dicembre palermitano che sa di infanzia e di tempo
immobile. Lo sa che Kalevi non riesce a seguirla tutta, la storia di Orlando e
delle sue gesta. Lo sa fin da quando gli ha gettato addosso cappotto e sciarpa
e lo ha trascinato fuori dalla loro stanza d’albergo, in quella notte troppo
umida e troppo caotica per sembrare una notte d’inverno.
Aspira con calma il fumo della sigaretta, allungando le
gambe. I pupi continuano a combattere e amare nelle loro scintillanti armature
di metallo colorato, i ricchi cimieri piumati e le minacciose spade di
cartapesta ben strette davanti a visi abbronzati. Si chiede distrattamente se,
con la sua armatura addosso, anche lui faccia lo stesso effetto: un’aura di
sacralità e irrealtà. Sogghigna: minchiate.
Ha ancora le mani che gli tremano, se solo prova a ricordare quel fottuto buco
in cui è precipitato. Due volte signure
santissimo. Due volte ci è caduto dentro, si può essere più lùocci? E lùoccu lo resta, visto che quel buco ce lo ha stampato nella testa
e non se ne vuole andare.
Angelo lo conosce bene, quel buco nero e grande e profondo
come gli occhi fissi e vuoti di Orlando che adesso lo stanno guardando: grandi
grandi senza ombre, senza contorni, senza promesse. Lo conosce da quando era
bambino e ci scendeva con i piedi nudi e i pantaloncini corti, la vecchia
torcia in una mano e il temperino spuntato ben nascosto nella tasca dei
calzoni. Ci era sceso tante volte Angelo nei buchi neri che si snodano umidi e
affascinanti sotto Palermo. Dei qanat, da bambino, sapeva solo una cosa: erano
la promessa di non tornare.
Vitti na crozza supra nu cannuni
fui curiusu e ci vossi spiari
idda m'arrispunnìu cu gran duluri
murivu senza toccu di campani.
I teschi ad Angelo non hanno mai fatto paura e nemmeno le
campane. E nei qanet ci scendeva a salti, l’acqua fredda e limacciosa fino ai
fianchi; ci scendeva, gli occhi stretti e i denti fuori, come gli asini che
puntano le zampe nella sciara. Angelo non aveva mai avuto paura di teschi,
campane e qanat. E nel quartiere si vociava che fosse stato l’unico dei suoi
compagni a contare i demoni della Zisa senza sbagliare. E non una o due volte,
per caso; li contava sempre giusti – dicevano, anche se nessuno ci riesce e
nessuno ne conosce il numero giusto. Ma Angelo li aveva contati e da quel
giorno le comari si segnavano quando lo vedevano passare, i capelli troppo
chiari arruffati sulla faccia abbronzata e quegli occhiacci rossi che sembrava
che aviri u diavulu ncorpu. Sua madre
lo aveva portato da don Bastiano per farlo confessare e gli aveva messo al
collo una medaglietta con l’immagine di Santa Ninfa, perchè lo proteggesse.
Sinni eru si nni eru
li me anni
sinni eru si nni eru
‘n sacciu unni
ora ca sugnu vecchio
d’ottant’anni
chiamu la morti i
idda m’arrispunni
Glielo raccomandava sempre, sua madre, di tenersi la medaglietta
e il vestitino di Maria sul cuore perchè altrimenti Santu Luca santu Luca, di cu
sunnu li figghi, si l'annaca.
Angelo non ricorda se ci credesse o no, alle raccomandazioni di sua madre, ma
la medaglietta e il vestitino se li porta ancora addosso e prima di scendere
nel qanat si segnava come facevano nel girone o alla Vuccciria quando passava.
Ma Santa Ninfa non lo protesse e, una volta, in fondo a un qanat ce la
trovò per davvero la morte. E non aveva la falce bianca e il cappuccio nero in
testa; non aveva nemmeno gli occhi vuoti e stanchi e i denti rotti in una bocca
troppo grande. Angelo la vide, la morte, quel pomeriggio di Agosto, con il sole
a picco di un’infanzia giocata fra i vicoli e le camere dello scirocco. Angelo,
d’Agosto, vide la morte e aveva un viso di acqua gommosa e malleabile e un
sorriso che gli aveva ricordato il sorriso piccolo della statua di Santa
Rosalia a Casa Professa. Il sorriso che intravvedeva nella vara durante le processioni; il sorriso di sua madre mentre si
sistemava il fazzoletto sulla testa, prima di uscire nel sole. Non gli aveva
fatto paura la morte. Era bella, troppo bella, e gli sussurrava all’orecchio qualcosa;
parole fini e ipnotiche come le vibrisse di un gatto, come il ritmo del marranzzanu.
Cunzatimi cunzatimi
’stu lettu
ca di li vermi su
manciatu tuttu
si nun lu scuntu cca
lu me peccatu
lu scuntu all’autra
vita a chiantu ruttu.
Angelo non le ricorda più le parole della Morte, ma il
buco, quello sì, lo ricordava. Ricorda il freddo e le mani e i volti che gli
scivolavano accanto, dentro. Ricorda
il vento: in fondo al qanat, nell’aria ferma e stantia di secoli vecchi; in
fondo al qanat, le gambe nell’acqua gelida e la muffa e la polvere nel naso; in
fondo al qanat c’era vento. E sapeva di zolfo e stelle bruciate; sapeva di
sangue e latrati e fiori lasciati marcire. E in mezzo, assieme al tanfo,
quell’aria era una carezza di asfodeli, era limone: lusingava.
Come dice, la canzone? Ciertu,
accussì rirìeva...
C’è nu giardinu
ammezu di lu mari
tuttu ‘ntessutu di
aranci e ciuri
tutti l’acceddi cci
vannu a cantari
puru i sireni cci
fannu all’amuri
I fiori; e il silenzio. Don Bastiano, alla domenica, dal
pulpito diceva che l’Inferno è pianto e
stridore di denti e che ci stanno i diavoli con Lucìfiru. Non parla mai di fiori, di arance e di sole don Bastiano.
Ma Angelo in fondo alla voragine ce lo aveva visto, il Sole, e aveva avuto
paura. Perchè all’Nfernu u soli a capìri nun
ci avi.
E adesso sa che in fondo all’Inferno, proprio in fondo, c’è
anche il Sole. Dietro gli asfodeli di polvere e di inganno; dietro i laghi di
sangue e i latrati di rabbia e dolore; dietro acque limacciose e lente; dietro
vecchi muri incrostati di paramenti di festa; dietro ogni fottuto buco che si
spalanca per mangiarti, quando meno te lo aspetti. Dietro tutto c’è anche il
Sole, Angelo adesso lo sa. Come lo aveva saputo
da bambino.
Lo avevano ripescato dal qanat due giorni dopo, gli occhi
spiritati e quella risata bassa e roca a gorgogliargli in gola. Angelo ce l’ha
ancora quel modo roco e gutturale di ridere, e il fumo non lo ha aiutato a
migliorarlo. Ride spesso Angelo: davanti alla paura, davanti alla vittoria,
davanti alla sconfitta. Ce lo ha sempre stampato in faccia quel ghigno
irriverente da gatto randagio. E al Sole in fondo al qanat non ci aveva più
pensato, fino ad una maledetta guerra. Lì, davanti al Muro del Pianto, Angelo
aveva riso: quella sua risata roca, con una punta di seducente sottile follia;
aveva riso e risposto con un gesto sciocco – un dopo che sapeva bene che non esisteva – all’occhiata di curioso
rimprovero di Kalevi.
Ci avi veraminti u
soli all’Nfernu
aveva pensato, e lo aveva accettato. Come a cinque anni aveva accettato che i
fantasmi gli aleggiassero attorno. E fra il vespero e la nona, sotto il sole a
picco, con gli occhi sensibili che bruciavano per la luce e la polvere, Angelo
girovagava per il quartiere silenzioso assieme a riflessi lucidi e accecanti
nella luce.
Ma una cosa era saperlo e conoscerlo e desiderarlo, il buco in fondo al qanat,
la bocca della Morte che custodiva; un’altra cosa era caderci dentro. E sentire
il corpo disgregarsi e diventare polvere che urla e continua a frantumarsi;
accorgersi di non avere la forza di urlare e tremare e desiderare anche solo
una lacrima per ricordarsi cos’è la vita, cosa significa vivere.
Minchiate si ripete, inclinando la testa
allo spacco di cielo fra le tegole e i fili tesi per stendere fra le case.
Sulla scena, Orlando sta affrontando un altro paladino, forse Rinaldo forse Gano.
Non ricorda più la storia. Ma ormai la chanson
si sta esaurendo e il sipario di vecchio velluto sbiadito nasconde i fondali ad
acquarello e le armature di stagno finemente cesellate.
Angelo aspetta.
La calma, quasi una quieta indolenza, è nella sua natura
siciliana e nemmeno gli allenamenti e i doveri sono mai riusciti a togliergliela.
Aspetta che la piazzetta si sia svuotata; aspetta il silenzio di una notte di
dicembre passata in strada; aspetta il fumo consumarsi nella bocca e la
sigaretta spegnersi in mano.
Salvo lo raggiunge con un paladino ancora in mano, la
faccia più scura e i capelli più bianchi di quando ricordasse.
“Picciùottu. Ti
piacisti u spittàculu?”
“Assai mastro Salvo.
Assai.”
E Angelo sente lo stomaco chiudersi mente quell’uomo
anziano gli stringe prima la mano e poi lo abbraccia forte forte, senza
segnarsi, senza spaventarsi. E le braccia si muovono senza pensarci, a
stringere un corpo che ricordava più muscoloso, a raccogliere un corpo divenuto
secco e scricchiolante. C’è qualcosa. Qualcosa di sbagliato e perso e lasciato,
in quell’abbraccio un po’ rude un po’ affrettato; c’è qualcosa che Angelo non
riconosce e sa di conoscere. Come l’ombra di un ricordo, di un’abitudine
impossibile da recuperare.
E ricorda un altro vecchio, tanti vecchi. Ricorda bambini
e fimmine e cavalieri. Ricorda volti,
maschere. Pupi. Le pareti scure che
sanno di cosmi e secoli; l’obbedienza giurata a un’altra maschera, un altro pupo in cui aveva riconosciuto una parte
di sé.
Siamo tutti pupi si ripete e le maschere scintillano
nella sua mente, fra le ombre di una Casa che è passaggio, perdizione, monito. E
si chiede perchè ci sia voluto
tornare, nella sua Sicilia. Stretto in braccia vecchie e rudi, si chiede cosa cerchi, cosa voglia. E rivede un bambino sorridere, la bocca piena di
limoni verdi e una medaglietta di Santa Ninfa al collo; rivede la solitudine
allargarsi in abitudine, insinuarsi nei silenzi dell’Anapo, sullo sfondo di un
cielo troppo intenso e di un vulcano troppo grande. Rivede i volti: le pareti
fredde e ruvide macchiate di affreschi, le corone bizantine, il crocifisso,
proprio lì, nel mezzo; e le necropoli. Come i qanat sotto Palermo; come le
gallerie che affondano nel ventre della terra; come quella Bocca che ogni
notte, da sempre, gli sussurra parole che trascinano alla follia.
Morti ca m’hai a
ddari, lestu sìa.
Non lo aveva voluto; nemmeno
Non lo aveva voluto,
Aveva creduto a parole soffiate da una maschera nera con
gli occhi rossi; aveva creduto ad una legge che aveva imparato da ragazzo fra
le strade della sua Palermo, impressa nella sua lingua senza futuro. E aveva
dimenticato che il sonno è ciò che molti
siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure
per portare i più bei regali. Perchè non importa far bene o far male: non
c’è nemmeno, un bene o un male. Il
peccato che non si perdona è fare e
Angelo aveva fatto: calati juncu, ca
passa la china. E Angelo aveva capito di essere ulivo e non giunco; aveva
capito di avercelo dentro, il sole della sua terra. E aveva desiderato
cambiare; aveva deciso di guardare in
fondo al qanat, aveva contato i diavoli della Zisa. Se ne era andato, Angelo, e
petra ca un fa lippu sa tira a china.
Lo sapeva, e non gli era importato.
Ma adesso.
Adesso.
Adesso Lei aveva
sorriso della sua fede istintiva e brusca, del suo ghigno sornione da gatto
selvatico, brullo e schietto. Lei:
Atena. Atena dagli occhi di cielo; Atena bambina che guida e conforta; Atena
vergine, piccola e fragile, come Santa Rosalia. E forte. Troppo forte. Anche
per lui. Ma figglia di gatta si nun
muzzica gratta. E quel graffio
Angelo si era rassegnato a non vederlo più andarsene. Ad usu meu, aveva deciso; ad
usu meu. Perchè non era un santo, e lo sapeva bene; ma sapeva altrettanto
bene di non essere un diavolo. Staminchia,
i diavoli lui li conosceva bene e con uno
avrebbe ancora scambiato quattro paroline a quattr’occhi volentieri. C’aveva un
conto da regolare, con quel diavolo.
C’hanno il corpo nero, i diavoli; e puzzano di zolfo e di
vecchio whiskey inglese. Angelo poteva ammettere di assomigliarci, ai diavoli,
ma nessuno lo avrebbe mai convinto nemmeno ad avvicinarsi a qualcosa che avesse
anche solo lontanamente il sentore di quel liquore nauseante. Ad usu meu aveva deciso, ma nemmeno
Atena gli avrebbe tolto la libertà di essere quello che era: bastardo sì,
rinnegato mai. E Atena aveva sorriso e teso la mano; aveva sorriso e gli aveva
sussurrato parole senza suono nel silenzio del naos, lasciandogli addosso l’inquieta sensazione di un’idea di
giusto e sbagliato gettata sull’orlo, in attesa.
Ma Atena aveva sorriso e Angelo si era detto che anche
Palermo e i suoi re si erano piegati per secoli e secoli a quattro bambine
sante offerte al cielo. E se lo avevano fatto re e imperatori lo poteva fare
anche lui, in un tempio fra gli ulivi di Grecia. Ad usu meu comunque.
Angelo sorride, le mani nei jeans sdruciti e le spalle
strette. Salvo parlava e parla: ricorda Parla dei suoi pupi, di Palermo e della città cambiata in fretta, troppo in
fretta, in una terra che sonnecchia nel sole. Parla con Kalevi, fra inglese
strascicato dialetto e gesti aperti e netti. Parla mostra incuriosisce spiega.
E Angelo stringe gli occhi e sbuffa fumo caldo nell’aria umida, mentre Kalevi ruota
il pupo con infantile elegante
curiosità.
Kalevi.
Ce lo ha trascinato a forza, nella sua Sicilia. Una parola
gettata nel silenzio di una serata qualunque, una risata più forte, una provocazione
velata. Non è facile convincere Kalevi, aggirare la sua cortese aggraziata disperata
solitudine; non è facile toccarlo,
insinuarsi oltre l’ipocrisia ostentata che riservava a tutti. Angelo non
ricorda come. Un giorno. Un attimo.
Qualcosa. Qualcosa che si scopre
condiviso. Anche nelle differenze, anche nelle contraddizioni. Fissare
l’orizzonte e sorprendersi a studiarsi, ragazzini vestiti d’oro e di
responsabilità troppo grandi; ragazzini cresciuti all’ombra di sospetto e
indifferenza.
“Angelo.”
Quando se ne era accorto? Quando aveva visto in Kalevi la sua stessa solitudine, la sua
stessa perdizione? Forse quando gli
aveva ricordato il mare. I suoi occhi; gli avevano ricordato il mare fra i moli
di Palermo: troppo accecante per non nascondere
qualcosa. Qualcosa di brutto. Sì: il mare. Il mare e il sole, il torrido
dell’estate che non perdona e martella e seduce con fantasmi iridescenti.
Kalevi era apparso; e Angelo aveva pensato: fantasma. Un fantasma così diverso da
quelli con cui conversava, dalle ombre vischiose che gli scivolavano addosso e
lo maledivano.
Si voi lu beni pensa
a lu mali. Chi
glielo aveva insegnato? Un uomo o forse...No; una donna. Una donna a. A. Non lo
ricordava. Una fimmina, però; ne era
certo. E gli aveva coperto gli occhi con la mano fredda e gli aveva sfiorato la
bocca. E Angelo aveva visto; aveva capito. Quella rabbia vomitatagli
addosso; le preghiere, i silenzi, gli sguardi che ti trapassano e non riesci a
interpretare, i gesti che non capisci a chi si stiano rivolgendo. Aveva capito:
e aveva creato.
“Ängel.”
Dopo aver conosciuto Kalevi sì. Dopo aver conosciuto quel
bambino gracile e silenzioso, che ti fissava con il nasino arricciato e sbatteva
i piedi se non lo stavi a sentire. Non era viziato Kalevi, proprio no; non era
viziato e il rispetto e l’attenzione aveva imparato a guadagnarseli. Sulla
costa di un altro mare; fra i vicoli e i quartieri di un’altra città. Era
piccolo Kalevi; troppo piccolo e troppo pallido per sopportare il sole di
Grecia e l’afa del Mediterraneo e i fantasmi che si insinuano di giorno negli
occhi socchiusi.
Angelo aveva pensato: due
giorni. E poi di Kalevi Erikson Sjöberg nessuno si sarebbe mai ricordato,
un po’ come nessuno si ricorda dell’onda sulla battigia. Ma l’onda continua a
tornare e alla fine scava anche la roccia. Kalevi aveva insistito e si era
abituato al sole e al vento caldo e aveva scavato
un posto nel Tempio.
Era stato da quel momento. Alle pareti di quel Tempio
estraneo Angelo aveva iniziato ad appendere maschere. Prima i ricordi di vecchi
fantasmi lasciati in Sicilia; poi gli avversari uccisi, infine solo volti:
lisci, eburnei e con espressioni di insoddisfatta costrizione. Kalevi aveva
sbuffato del suo pessimo gusto, ma lo
aveva lasciato fare. E mentre al Tempio iniziavano a chiamarlo pazzo, mentre sussurravano che una
qualche manìa lo aveva colto e si
segnavano e pregavano Atena come si segnavano le comari nel suo girone, il
crocifisso ben stretto nelle mani ossute; mentre sentiva voci malelingue e
insinuazione aumentare, Angelo riempiva la sua
casa delle sue maschere, forse di
nemici forse solo di fantasmi incontrati su un campo di battaglia.
E forse alla fine ci aveva creduto anche lui, alla sua pazzia. Perchè quando la morte la vedi in
faccia; quando con la morte ci parli prima di addormentarti e la vedi quando
apri gli occhi; quando ti senti addosso il respiro e il tanfo di chi ti sta
pregando e pregando e pregando; quando sai che tutto quello che puoi fare è
stare lì ad ascoltare, la sigaretta fra le labbra e l’impotenza che ti consuma
come un cancro; quando nemmeno stringere la testa e riempirti i polmoni di fumo
basta a stordirti, allora puoi anche convincerti che l’unico modo per sopravvivere è odiare. Odiare i tuoi
occhi che vedono i fantasmi; odiare le tue mani che non possono raggiungerli;
odiare quel fottuto buco dove vorresti accompagnarli per accorgerti di aver
smesso di farlo da tempo, per non ritrovarti senza una parola da dire senza una
preghiera da recitare. Odiare per non impazzire e credere che forse, forse, è davvero l’unica cosa giusta da
fare.
“Anghelos.”
Kalevi non aveva commentato; ed era stato l’unico. Aveva
alzato le spalle, accennato appena quel suo maledetto bugiardo sorriso di superiore condiscendenza e se ne era andato
facendo sventolare il mantello. E Angelo aveva capito davvero cosa fosse la teatralità. Perchè Kelevi è teatrale, in tutto quello che fa; e
anche in quello che non fa. É teatrale e sa e non sa di esserlo, di recitare,
di soppesare, di melodramatizzare. Si è dovuto costruire un perchè, Kalevi; e lo ha fatto su se
stesso, su un narcisismo e un diverso
irriso e disprezzato. Se l’è dovuto creare,
quell’atteggiamento compito e distaccato che tanto lo fa apparire odioso e
frivolo.
Angelo, però, ha imparato a riconoscerla, quella
frivolezza. E ad esserne come dipendente.
Se Kalevi può essere frivolo, lui può essere un sadico.
Della verità importa solo ad Atena, e forse nemmeno a Lei.
In fondo voleva solo un modo per non affondare,
un modo – uno qualunque – per poter camminare sotto il Sole, lui che era un
abisso scuro e freddo.
Come Kalevi.
Kalevi che un giorno gli era passato accanto quasi con
casualità, gli aveva sfilato di bocca la sigaretta e gli aveva piantato in
faccia il mare di Palermo e il mare del Nord, quello scintillio divertito e
irriverente che con lui, solo con lui, era malizia vera. Gli aveva sfilato la
sigaretta e stretto il viso in una morsa fra lo scherzo e il pericoloso, e gli
aveva sibilato all’orecchio, la voce bassa e roca, con quell’accento del Nord un
po’ duro un po’ secco: fai quello che ti
pare. Noi siamo eroi mancati, lo sai. Abbiamo solo un orgoglio: essere noi
stessi.
Istriuni aveva pensato Angelo; e aveva
sorriso.
Ha imparto a odiarlo amabilmente.
Lo odia, quando parla in svedese. Lo odia e non riesce a
trattenere quel ghigno fra la sigaretta accesa e la mano che la regge. Ghigna,
sorride, ride e Kalevi sbuffa stizzito e indisposto, le braccia strette nelle
braccia e quel modo tutto suo di gettare indietro la testa.
Lo odia; perchè gli sbatte in faccia con disarmante semplicità,
con ovvietà, quello che è, quello che sono. E sottolinea sempre come non se ne pentano.
Lo odia. Per quella sua bellezza sfacciata e provocante
che ha imparato ad amare. Per quell’abisso, quella solitudine che Kalevi
maschera dietro aspetto curato e pose eleganti. Vede bene l’inganno, Angelo; e
lo apprezza. Con quel ghigno di complicità e sicurezza che tanto irrita Kalevi.
Lo odia. E non saprebbe rinunciare alla sua pungente
melliflua irritante compagnia. Non ci ha rinunciato nemmeno da morto; perchè
dove lo avrebbe trovato un altro che, prima di una missione suicida, gli lascia
fumare in santa pace la sua solita sigaretta?
“Death!”
“Chiamasti ciuriddu?”
Kalevi sbuffa, le braccia in un gesto esasperato e
un’occhiata acida di disappunto. Lo ha trascinato in Sicilia con non ricorda
più nemmeno quale scusa; e va bene. Lo ha portato ad un teatrino di marionette
che, deve ammettere, nonostante l’irritazione del momento, si è rivelato molto
piacevole. Se ne è rimasto a fumare con quel ghigno divertito stampato in
faccia mentre lui si barcamenava fra inglese palermitano stretto e una
gestualità pressochè sconosciuta.
E invece di aiutarlo, dopo mezz’ora, aveva iniziato a
incamminarsi come se niente fosse, stringendo la sciarpa e accendendosi
l’ennesima sigaretta. E lui si era trovato costretto a rincorrerlo fra vicoletti
e macchine in doppia fila.
E adesso se ne usciva con quel serafico chiamasti? Dum krabba.
Kalevi ne ha la certezza: lo odia.
Odia l’irritante ostentata sfacciata sicurezza che Angelo
possiede, quell’innata abilità di farti pizzicare le mani e istigarti la
sanissima intenzione di prenderlo a schiaffi ogni volta che ti guarda. Odia la
superficialità con cui affronta ogni cosa, l’incapacità che ha di prendere un
impegno e mantenerlo; forse la sola cosa per cui abbia mai mostrato un po’ di
rigore è l’essere cavaliere, ma in quel modo tutto suo che ormai lo ha sbattuto
sul confine.
Lo odia anche per quello. Per quell’atteggiamento che Kalevi
percepisce così distorto e troppo, irritabilmente troppo, simile al suo.
“Chiamasti o nu, ciuriddu?”
“Är. Ti ho chiamato” biascica, il fiato corto e una smorfia
disgustata. Il fumo della sigaretta è intenso, quasi speziato, e gli da la
nausea, e Angelo glielo soffia con infantile maleducazione in faccia, ignorando
le sue occhiate di avvertimento. Ecco: di Angelo Kalevi odia soprattutto
l’odore persistente di tabacco che si porta addosso. Quell’odore che, potrebbe
giurarlo, gli è penetrato anche nel cosmo, e che fa a pugni con la fragranza
delle sue rose ogni volta che lo va a trovare.
“Apprennivi: tieni fame.” lo provoca Angelo, con il solito
ghigno sardonico. A Kalevi ricorda sempre di più un gatto; un gatto che gioca
con il topolino. E lui non ha la minima intenzione di fare la fine del topo, in
bocca a quel gattaccio.
“Che maleducato” gli replica con sufficienza, stringendo
il cappotto per ignorare i brontolii dello stomaco. Non gliela darà mai – assolutamente
mai – la soddisfazione di dirgli che ha ragione. “Ma sarebbe buona educazione
offrire la cena ad un ospite. Soprattutto se è stato trascinato per mezzo
Mediterraneo.”
Angelo ride, quella risata roca e bassa che è solo sua, e
che assomiglia a un singhiozzo. Ride sempre, anche quando non ce ne sarebbe
bisogno. Come adesso. Kalevi stringe
le guance e sbuffa seccato. Ha voglia di piantarlo lì, in mezzo alla strada, e
tornarsene di filato in albergo. E poi all’aeroporto. Come. Come accidenti ha
fatto a convincerlo a seguirlo in Sicilia?
“A’ sammarigghu ti felicitassi?”
“E cos’è?”
“Pesce.”
Angelo ghigna, ignorando lo sguardo di aperto e ostile
disappunto di Kalevi. Lo sa che non gli piace, il pesce; e lo sa che non
sopporta i giochi e le provocazioni al riguardo, soprattutto quando è affamato.
Angelo si è sempre chiesto perchè. In fondo, in Svezia uno dei piatti tradizionali
non è un qualcosa a base di salmone? Non ci crescono, gli svedesi, a caviale e
salmone? Kalevi, invece, non ne vuole nemmeno sentir parlare; e Angelo ha
accarezzato spesso l’idea che non sia tanto per ferree convinzioni
ambientaliste quanto piuttosto per affinità astrale. Lo ha pensato spesso, e si
è premurato di chiederglielo altrettanto spesso, rischiando di essere letteralmente
dissanguato all’osservazione poco elegante.
“Una focaccia allora” replica, dirigendosi tranquillo ad
un chiosco ambulante. “Dui curruruni: simplici pi mi e accasatu pi iddu.”
“Devo fidarmi?”
“Se tieni daveru fame, sè” gli replica, mettendogli in
mano il fagotto caldo. “Statti quieto: nun tiene pesce. Juru!” aggiunge poi, godendosi
il modo sospettoso di Kalevi di annusare, assaggiare e poi fagocitare quella
cena improvvisata e insolita. Su
quella panchina, nel freddo umido di dicembre, con vecchie luminarie sopra la
testa e qualche motorino che ancora se ne va in giro.
“Perchè sei voluto tornare in Sicilia?”
Kalevi se la rigirava in testa da un bel po’, quella
domanda. E perchè ci hai trascinato me?
vorrebbe aggiungere. Non gliene ha mai fatte molte, di domande di quel genere.
In fondo, Angelo la vita l’ha sempre condotta come voleva. E non si sarebbe mai
fermato ad ascoltare i suoi consigli, ammesso che lui avesse tempo da perdere
per dargliene. Ma quella domanda Kalevi sa
di dovergliela fare. Perchè è grottesca e assurda quella situazione; e se
Angelo può starsene tranquillo a fumare, soddisfatto di un qualcosa che sembra
sapere perfettamente, lui no. Per una volta no.
“Bho. Tenevo nustalgia. O pi crapricciu. Nu sacciu.”
“Non lo sai?”
“Nu.”
Kalevi impreca a mezza voce. Poteva risparmiarsi la
domanda: era logico che Angelo non lo sapesse; era prevedibile che avesse seguito un guizzo del momento. E che lui ci
fosse finito dentro per scherzo del caso.
Eppure. Eppure non ci crede. Angelo non c’è più tornato,
in Sicilia, dopo la guerra. E una sera se ne esce con una provocazione e lo
mette quasi di peso su un aereo per andarsene a Palermo, per tornarsene in una
città lasciata senza rimpianti e senza mai guardarsi indietro. E tutta la
spiegazione che sa dargli è nu sacciu?
Kalevi accavalla le gambe, pulendosi con quel modo
elegante e indifferente dalle poche briciole sul cappotto. Lo sa bene, Angelo,
il perchè di quel viaggio; e non vuole dirglielo, ecco tutto. Forse perchè non
lo riguarda; ma Kalevi ha la concreta certa sensazione che, al contrario, il
motivo sia proprio quello: c’entra lui. E basta.
“Mangiasti mai i sfinci?”
“É pesce?” indaga con circospezione, strappato
all’improvviso dai suoi ragionamenti.
“Nu nu” ride Angelo. “Ti gustanu: duci sunnu.”
E lo guarda mentre cerca di trattenere quel piccolo
adorabile irriverente desiderio con una smorfia di disappunto.
Istriuni.
Kalevi ama i dolci, e lui lo sa bene. E non c’è niente di
meglio degli sfinci per distrarlo da quelle sue pericolose domande. Per quella
sera Angelo non ha voglia di essere pressato e interrogato; e forse, ad esser
sinceri, sperava che Kalevi si limitasse ad accettare quel fuori programma
repentino con la stessa disinvoltura che aveva riservato alle maschere della
sua casa. Ma le maschere non lo riguardavano da vicino, deve convenire Angelo; quella trasferta sì.
Ci penserà.
Ci penserà al modo giusto per dirgli che, davvero, non c’è
una ragione precisa. E che nemmeno lui lo sa bene, il perchè. Perchè raccontargli che sbucciare un mandarino, sentire un
crampo allo stomaco e decidere che doveva
tornare in Sicilia era stato un qualcosa di pochi secondi non lo convincerebbe.
Non convince ancora nemmeno lui. Ma è quello che è stato.
Assieme alla certezza che ci doveva portare anche Kalevi,
a Palermo.
Fargliela vedere, fargliela respirare, fargliela mordere.
Troverà qualcosa: un voto per Natale o un’altra minchiata qualunque. Troverà qualcosa,
sì. E metterà a tacere quella voce isterica che deve trovare sempre una
spiegazione esauriente a tutto.
“Sfinci pi ti e caffè pi mi. U caffè veru.”
“Perchè? Quello che bevi in Grecia cos’è?”
Angelo aspira lento e divertito. Parlare di caffè con Kalevi
è inutile, e dannoso per il suo equilibrio interiore. Glielo potrebbe far
assaggiare, invece: un buon caffè italiano nero e forte. Ci affogherà mezza
zuccheriera, ma resterebbe migliore di quello che si beve in Grecia. Forse lo convertirebbe; forse.
“Siamo pupi carissimo don Fifi...”
“Piantala!”
Kalevi non la capirà mai, quella frase, Angelo lo sa. E
non saprebbe proprio come spiegargliela. Non è qualcosa che puoi dire con le
parole, è qualcosa che senti dentro, nello stomaco. Lo senti e lo comprendi,
come una risonanza.
Kalevi è stata la sua risonanza, la sua stessa maledizione
e lo stesso consapevole orgoglioso menefreghismo. Ci è andato all’Inferno, con
Kalevi. E con lui ci tornerebbe ancora. Con una certa irresponsabile spavalderia.
Con Kalevi non gli importa di finire all’Inferno o in
Paradiso; forse non ci può nemmeno pensare, al Paradiso. In fondo il suo mondo
Angelo se l’è costruito in poche precarie liminari assurde violente certezze
disprezzate e snaturate; e nello scherno complice di un ragazzino in bilico
come lui.
In fondo DeathMask lo sa che è solo con Aphrodite ad aver
costruito l’unica certezza stabile della sua vita: il loro rapporto senza nome,
complice e dannato.