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Autore: Yoko Hogawa    14/01/2011    6 recensioni
Di tutti i fiori, l’Ibisco è di sicuro quello più strano.
Lo sai, boss?
Dopo aver faticato tanto per mostrare al mondo la sua bellezza,
sfiorisce e muore in poche ore.
[TYL Decima generazione e Prima generazione][5927, G/Giotto]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Altro Personaggio, Hayato Gokudera, Tsunayoshi Sawada
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Volevo scrivere una G/Giotto, ma - come al solito - mi sono bloccata verso la quinta pagina.

Poi mi è venuta l’idea di una 5927, perché ne sono amante fino allo stremo, ma dovendo finire la G/Giotto mi sono detta che non era il caso di cominciarne un’altra.

Il risultato due mesi dopo? Le ho unite. L’angst mette d’accordo tutti (?!).

 

Desclaimer: i personaggi qui utilizzati sono © di Amano-sensei. Io? Io li sfrutto a mio piacimento per farci del puro angst, per deprimermi la vita e per infestare il fandom con un po’ di yaoi (che non è che manchi, ammetto). Lo faccio anche gratis, pensate un po’.

Note: eh, un paio ci vogliono.

Doppia... anzi no, tripla impaginazione. Laterale sinistra per la decima generazione, laterale destra per la prima generazione, centrale per le considerazioni comuni ad entrambe (magari capirete leggendo). Non amo l’impaginazione al laterale destro per le descrizioni lunghe, ma ammetto che mi torna dannatamente comoda in questo caso specifico.

Per quanto riguarda la decima generazione, l’ambientazione (intuibile? ;D) è TYL pre-arrivo dei cari amichetti del bosco dal passato. Il pezzo che tratta della morte di Tsuna, tanto per dire.

Sull’ambient della prima generazione, ammetto di aver viaggiato con la fantasia. In altre parole, è un colossale “what if” del tipo: “e se Giotto non fosse semplicemente stato cacciato in Giappone, ma nella battaglia per la successione di Ricardo ci fosse rimasto?” 8D sì, lo so: mi voglio del male.

Ma devo dire che mi si offre una chance in quel caso, che ho utilizzato qui: doppio funerale, doppia bara, doppio Guardiano della Tempesta che si dispera. Non potevo non costruirci su.

Rispettivamente, Gokudera e G p.o.v.

Dediche: dedicata a Shichan (my beloved G ) e al gruppo cosplay che mi ospiterà nei panni di Giotto (perdonali Signore, non sanno ciò che fanno 8D).

 

Se siete sopravvissuti all’intro sbrodolante, buona lettura!

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Fiore dell’Oblio

 

 

 

Di tutti i fiori, l’Ibisco è di sicuro quello più strano.

Lo sai, boss?

Dopo aver faticato tanto per mostrare al mondo la sua bellezza,

sfiorisce e muore in poche ore.

 

 

Seduti al tavolo circolare della sala comune, ascoltavano tutti con attenzione il rapporto di Fuuta. L’ennesimo, di quei tempi.

« È tutto » terminò il ragazzo, rimettendosi seduto al fianco di Giannini. Una volta che lo ebbe fatto, la stanza piombò nel silenzio e solo il lieve ronzio delle luci al neon impediva la totale ed incondizionata assenza di suono.

Nessuno dei sei guardiani, tutti presenti, ebbe il coraggio di fiatare. Nemmeno Lambo, che di frasi inopportune pronunciate nei momenti sbagliati era veramente esperto.

Tuttavia, quel silenzio privo di respiro fu infine interrotto. « Grazie... » soffiò Tsuna, quasi abbandonato – invece che semplicemente seduto – sulla propria sedia.

Lo vedeva, Gokudera. Erano cose che aveva imparato a notare subito.

« Juudaime... » chiamò a bassa voce – ma sembrò un urlo, uno schiocco di frusta – allungando la mano a toccargli il braccio, abbandonato sul tavolo come tutto il resto di sé.

Tsuna, camicia bianca con cravatta bene allacciata e giacca elegante nera, gli sorrise lievemente. Tristemente, avrebbe detto chiunque, ma ormai nessuno più ricordava come fosse fatto il sorriso felice del loro boss.

Un sorriso che Tsuna riusciva comunque, e sempre, a far comparire sulle proprie labbra; forse per risollevare loro il morale, o forse per spronarli a non arrendersi, ma che faceva stringere lo stomaco a Gokudera ogni volta.

Eppure, riconosceva che non era colpa sua. Non era colpa di nessuno di loro.

Tutti lo sapevano.

« Che intenzioni hai, Sawada? » domandò Hibari dalla parte opposta del tavolo, le braccia incrociate nella sua così caratteristica calma apparente.

« Già! » intervenne poi Ryohei: « ormai è abbastanza ovvio che i Millefiore stiano cercando gli Arcobaleno, e prendendo di mira Reborn è come se ci avessero giurato guerra aperta! » esclamò agitato, colpendo il tavolo con la mano aperta e facendo sobbalzare Fuuta, Chrome e Giannini.

« O-Onii-san...! »

« Non dire idiozie! » scattò subito Gokudera, i nervi già a fior di pelle in attesa di nient’altro che un pretesto: « non possiamo trarre conclusioni affrettate, qui non stiamo giocando! Non ci hanno dichiarato guerra, Reborn-san era indipendente, non c’entrava nulla con la Famiglia, l’ha sempre detto! ».

Ryohei, arricciando il naso, non se lo fece ripetere due volte. « Era l’istruttore di Sawada, lui faceva parte della Famiglia! È da codardi affermare il contrario, testa di polipo! » gridò in rimando.

Provocazione che non fece altro che aumentare la rabbia del Guardiano della Tempesta. « Allora è così che vorresti risolvere, partendo all’attacco a testa bassa?! Sei un pov- »

« Gokudera-kun! » disse Tsuna ad alta voce, sovrastando quelle di entrambi i contendenti. Il Guardiano della Tempesta fu vittima degli occhi decisi del Decimo, che subito dopo si spostarono su Sasagawa: « Onii-san » pronunciò, per poi aggiungere: « vi prego, mantenete la calma » con un tono più pacato ma comunque serio.

Il timbro di voce di un boss. Reborn sarebbe stato felice di sentirlo, pensò Gokudera, obbedendo docilmente alla richiesta e rimettendosi seduto. Il Guardiano del Sole fece altrettanto.

« Tsuna » chiamò poi Yamamoto, rimasto in silenzio fino a quel momento: « hai un piano, vero? Riesco quasi a leggertelo negli occhi » proferì, facendo voltare le rimanenti otto teste in sua direzione.

Tsunayoshi, chiudendo gli occhi in un sospiro, annuì piano. « I boss dei Millefiore mi hanno chiesto un incontro in privato per parlare del futuro delle rispettive Famiglie, o di una possibile alleanza. Intendo andarci » disse semplicemente, nello stesso modo in cui avrebbe annunciato cosa voleva per cena, o quali fossero le sue impressioni sul tempo.

Ma sentendo quelle parole, a Gokudera sembrò di morire. E non riuscì a dire niente, per i primi, pochi istanti; il fiato era bloccato in gola, e con esso qualsiasi parola che il suo cervello potesse consigliargli di pronunciare.

Si sentiva odore di trappola lontano un miglio. E lui sapeva, sapeva che Tsuna non era così sprovveduto da non essersene accorto.

Eppure... eppure, voleva andare lo stesso.

Come al solito, cercava quel compromesso pacifico che avrebbe evitato una guerra palesemente imminente.

In dieci anni, tutto quello che avevano fatto era stato servire la Famiglia Vongola, facendola fiorire di nuova luce sotto la guida sempre più consapevole del decimo successore.

Era da poco, che la Famiglia aveva raggiunto il suo massimo splendore. Già... da quando erano comparsi i Millefiore, da quando era finito l’idillio, era passato davvero troppo poco tempo.

 

 

Seduti sui divanetti sistemati poco lontano dalla scrivania, nell’ufficio del boss, avevano appena ascoltato senza fiatare le parole pronunciate dal proprio capofamiglia.

L’assenza di uno dei guardiani – il traditore, il voltafaccia – si faceva sentire, e pesava come un macigno dopo le parole del biondo, seduto compostamente alla propria scrivania.

Tuttavia, e G era fin troppo capace di riconoscere quei piccoli segni, il suo sguardo chiaro era puntato al legno rossiccio davanti a sé da quando tutti loro avevano messo piede in quella stanza.

Segno che, persino per lui, ogni speranza era ormai un lontano ricordo.

Il silenzio poteva tranquillamente definirsi totale, assoluto. Nemmeno Asari, che di solito aveva una buona parola per tutto, sembrava essere intenzionato ad emettere il minimo suono.

Dal canto suo, G continuava a guardare Giotto come se tutto quello appena pronunciato, tutte le informazioni date e tutte le lettere messe in fila, fossero in realtà un brutto sogno da cui ognuno di loro, non solo lui, desiderava al più presto svegliarsi.

Lampo e Knuckle fissavano a loro volta il boss come perduti, impotenti di fronte alla verità.

Nemmeno Alaude, in piedi accanto alla vetrata laterale dell’ufficio, trovò il coraggio di spezzare quel silenzio pesante e fitto come nebbia.

Alla fine, la minaccia era arrivata. E nonostante tutti gli sforzi, proveniva dall’interno.

Da uno dei sei Guardiani che avrebbero dovuto proteggere Vongola Primo da qualsiasi pericolo, e che invece pareva esserne proprio una causa.

Demon aveva fatto il suo gioco.

Sapevano tutti, ormai, che era in contrasto con la linea di pensiero pacifista di Giotto. Ne avevano discusso tanto, arrivando allo sfinimento e alle urla, ma non avevano risolto niente.

Finché Daemon, tradendo il giuramento – givro eterna amicizia – aveva ufficialmente domandato il ritiro di Giotto dalla sua carica di boss dei Vongola in favore di Ricardo, che a quel punto era il candidato a Secondo.

Ricardo il guerrafondaio, Ricardo il violento, Ricardo il sanguinario.

Ricardo, che voleva vedere l’orgoglio della famiglia Vongola divenire l’inno di terrore che avrebbe dominato il mondo della Mafia, e il suo seggio di velluto costruito su un pavimento d’ossa.

Ormai, la guerra era imminente. Se ne sentiva l’odore rancido nell’aria.

« Cosa vuoi che facciamo? ».

Una sola frase, un solo significato. Alaude non era uno che amava definirsi parte della Famiglia, e Giotto gli aveva sempre lasciato il proprio spazio; ma se persino lui capiva la gravità della situazione, se persino lui si schierava dichiarandosi pronto a seguire gli ordini del biondo... allora la situazione doveva essere veramente seria.

« Primo... » pigolò Lampo, in completa balia della sua innata codardia; ma quel richiamo si diffuse a macchia d’olio fra i guardiani presenti: « Primo » ripeté Knuckle, il tono più fermo e lo sguardo serio; « Primo » pronunciò a sua volta Ugetsu, la voce a sua volta ferma e posata.

Tre voci che esprimevano supplica, affiatamento e fedeltà a cui se ne aggiunse una quarta...

« Mi basta una tua parola, Primo » sentenziò G alzandosi in piedi.

Avrebbe imbracciato l’arco, per proteggerlo. E se non fosse bastato quello, avrebbe spaccato la faccia e preso a calci nel culo qualunque individuo pazzo abbastanza da avvicinarsi troppo a Giotto. Qualunque individuo abbastanza idiota da mettere in pericolo quel fiore – la Famiglia – che Giotto aveva coltivato e proteggeva con immensa cura.

Giotto, però, si tenne rinchiuso nel suo silenzio.

Lo sguardo chiaro era puntato altrove, fuori da quella stanza: scrutava oltre la vetrata quel paesaggio di cui sapeva ogni particolare, forse cercando

di estraniarsi, di ritrovare una calma che sentiva di stare perdendo pian piano.

Faceva così, notò G. Ogni volta che voleva cancellare qualcosa, sperare che si sistemasse da sola, faceva così.

Tuttavia, la maggior parte delle volte il miracolo non accadeva. E lui, come successe anche in quel momento, chiudeva gli occhi con un sospiro e appoggiava il capo all’alto schienale della propria sedia.

Tornando alla realtà, prendendo decisioni.

« Non faremo niente » pronunciò dunque, riaprendo gli occhi. « O meglio, voi non farete niente » rettificò.

« Boss! » scattarono subito G e Lampo, allibiti. Knuckle e Asari trattennero il respiro, Alaude schioccò le labbra.

« No » pronunciò semplicemente Giotto, e le lamentele furono subito zittite. G riconobbe in quel tono, in quello sguardo, la voce perentoria del primo boss della Famiglia Vongola. La responsabilità che la carica accettata, quella di capofamiglia, portava innegabilmente con sé appesantendo le sue esili ma forti spalle.

Forti abbastanza da sopportare.

« Andrò a parlare con Ricardo. Troverò un modo per risolvere pacificamente questa rivolta insensata ».

Tutto quello che avevano fatto, era stato creare dal nulla un gruppo che garantisse ai cittadini dalla loro povera città una vita degna di essere chiamata tale, libera da soprusi e maltrattamenti. Con il tempo, il loro nobile intento era cresciuto, acquistano un nome ed uno stemma; guadagnando stima e orgoglio, incutendo timore.

Vongola, si chiamava: Famiglia. Perché loro lo erano, grazie a Giotto.

Sembrava un attimo prima. Tre bambini di strada che sognano di cambiare il mondo, sembrava in attimo prima.

Era passato troppo poco tempo.

 

 

Già si sentivano;

i petali del fiore così sbocciato appassire pian piano.

 

 

Bussò alla porta dell’ufficio del Decimo, attendendo in silenzio il permesso di entrare.

Permesso che arrivò dopo qualche istante, pronunciato in un morbido “avanti” abbastanza alto da farsi sentire, ma sufficientemente basso da non rimbombare per i silenziosi corridoi.

Gokudera, le sopracciglia aggrottate, sospirò piano socchiudendo gli occhi. Raccolse a sé ogni briciolo di calma interiore potesse possedere e, appoggiando la mano sulla maniglia, entrò.

Si era immaginato, non vedendolo tornare in camera, che Tsuna fosse ancora nel suo ufficio. O meglio, che in camera non avesse la minima intenzione di tornarci.

Purtroppo, come al solito, non sbagliava.

« Dovresti riposare, Juudaime » disse piano, chiudendosi delicatamente la porta alle spalle fino a far scattare la serratura. Non si mosse dalla soglia, però, limitandosi ad osservare.

L’ufficio di Tsuna aveva un’ampia vetrata sulla parete di fronte alla porta. Nelle nottate di luna piena come quella era molto semplice vedere l’intero ufficio grazie alla luce che penetrava dall’esterno, bagnando i contorni di ogni oggetto di un lucore lattiginoso.

Tsunayoshi, in piedi di fronte alla finestra, non si era voltato al suo ingresso nella stanza. Se ne stava semplicemente lì, in piedi, ancora vestito di tutto punto nel suo completo nero che ormai era diventato una sorta di seconda pelle.

Per i primi minuti non rispose, poi si limitò ad un semplice mugugno di assenso, a cui seguì un lieve: « non credo di avere sonno, Gokudera-kun... » lasciato sfumare in sussurro.

Se lo era ripromesso, Hayato. Molti anni prima, quando Tsuna era divenuto a tutti gli effetti il Decimo boss dei Vongola, aveva giurato a se stesso che sarebbe diventato un braccio destro esemplare. Che lo avrebbe aiutato sempre, sostenuto quando necessario, valorizzato in ogni loro istante e che non avrebbe mai, mai discusso un suo ordine o una sua decisione. Poi, più avanti, che lo avrebbe amato in ogni istante della sua vita.

Tuttavia, nonostante fosse ben intenzionato a non tradire i propri principi, quell’ultimo giuramento – o meglio, ciò che ne derivava – gli impediva categoricamente di lasciarlo andare masochisticamente al martirio.

Gli impediva di perderlo per sempre. Perché avrebbe fatto male, fin troppo, vederlo scomparire senza poter far nulla.

Passarono in silenzio quasi due minuti, prima che Tsuna lo infrangesse di nuovo: « è tutto, Gokudera-kun? » domandò pacato, senza tuttavia girarsi.

Non era per cacciarlo, Gokudera riusciva a capirlo. Non voleva mandarlo via. Ma percepiva un tremolio in quella voce, una sorta di... paura? No, forse no, ma era abbastanza potente da far sì che Tsuna non volesse apparire debole, o spaventato.

A sentire quel tremore, Gokudera abbandonò ogni buon proposito. « No » sputò, quasi risentito dallo stesso comportamento di Tsunayoshi, ma più che altro dando sfogo all’agitazione che stava reprimendo; « Juudaime, non è necessario farlo. Troveremo un’altra soluzione, e se non c’è combatteremo! » cercò di dissuaderlo: « è una trappola! È una fottutissima trappola, Juudaime! Non ci credo che tu non te ne sia accorto! » sbottò, stringendo i pugni con talmente tanta forza che le nocche sbiancarono e le unghie premettero dolorosamente sulla carne dei palmi.

Tsunayoshi non si scompose, limitandosi ancora una volta al silenzio. Gokudera lo vide alzare la mano destra, che venne appoggiata al vetro della finestra.

Istintivamente, Hayato sfiorò con lo sguardo il medio della propria mano sinistra. Così come in quel dito, una volta, era risieduto l’anello dei Vongola della Tempesta, allo stesso dito della mano opposta aveva brillato, per Tsuna, la gemma blu di quello del Cielo.

Erano andati distrutti per volere del Decimo e da allora, l’equilibrio del Trinisette era stato infranto.

« Gokudera-kun... » sussurrò Tsunayoshi con un sorriso mesto ad incurvargli le labbra: « forse salveremo tutto ciò che per noi è importante, ma al contempo potrei stare per fare l’errore più grande della mia vita... » disse, forse senza uno scopo, o forse per alleggerire la tensione che gli irrigidiva le spalle.

Trattenendo il respiro, il Guardiano della Tempesta si avvicinò al boss; i mocassini rimbombarono cupi sulla moquette dello studio.

Gli fu alle spalle in pochi passi e, gentilmente, sollevò la mano destra fino a portarla su quella di Tsuna, ancora appoggiata al vetro. L’altro braccio, invece, andò a cingergli la vita formando una stretta possessiva a cui il Decimo non sfuggì e che non rifiutò in alcun modo.

Anzi. Tsuna appoggiò la propria mano sinistra alla sua, intrecciandone le dita. Tutto fatto in silenzio, ogni movimento lento e delicato come un sussurro.

Hayato, mordendosi il labbro inferiore, premette la fronte alla spalla di Tsuna, stringendolo a sé ancora di più. « Non devi andare per forza » mormorò poi.

« Devo andare » rispose però Tsuna, semplicemente.

« Non voglio che tu vada » ribatté Gokudera, respirando piano, trattenendo la tristezza – facendo il possibile per farlo.

« Ci devo andare » sussurrò Tsuna, voltando appena in capo fino a sfiorare con il naso la gota dell’altro.

« Non andare... » supplicò Gokudera, la voce spezzata.

« Gokudera-kun... » fu l’unica cosa che riuscì a pronunciare Tsuna prima che una lacrima, sfuggita al suo già minato controllo, scivolasse lenta lungo la guancia.

 

 

Scese lentamente i gradini uno ad uno, mani in tasca, diretto al salone centrale del piano terra.

Non era difficile leggere nella mente di persone come Giotto. Bastava semplicemente impegnarsi, conoscerle e sapere cosa pensavano, il che risultava quasi più facile che decodificare i propri, di pensieri.

Per questo aveva subito pensato al camino del salone, quando non lo aveva trovato né in camera né nel suo ufficio. Nonostante fosse ancora autunno, e non fosse di certo il periodo adatto per utilizzarlo, Giotto aveva una sorta di amore particolare per il fuoco. Diceva che lo rilassava, che lo ipnotizzava, e G non aveva faticato a convincersi che fosse la verità.

Terminata la scala, e alzato lo sguardo, infatti lo vide proprio dove si immaginava che fosse.

In piedi davanti al camino acceso – una luce ondulante calda e tranquilla inondava soffusamente il resto del salotto, lasciato nell’ombra dell’assenza di elettricità – osservava le lingue di fuoco ondeggiare sinuose, corrodendo pian piano il legno da cui prendevano energia, riducendolo a cenere.

Estraniato dal mondo, non aveva ancora ammesso nessuno nel suo sguardo fisso sul fuoco.

« Non dovresti riposare? » chiese dunque il Guardiano della Tempesta, rimanendo in piedi poco distante dalle scale appena scese, alla destra del camino e alla fine del grande salone.

Giotto, sobbalzando appena, scostò lentamente gli occhi su di lui. E, come era suo tipico fare per tutto, gli sorrise.

« Non ho sonno... » mormorò piano. Non c’era bisogno di alzare la voce, dopotutto: il salone vuoto, privo della vitalità e della frenesia del giorno, faceva riecheggiare qualsiasi voce tramutandola in qualcosa di simile ad un urlo.

Senza dargli il tempo di ribattere, poi, aggiunse: « e tu? Come mai sei in piedi? » con un tono lieve e pacato.

Come se non fosse successo niente, come se non dovesse succedere niente.

G non rispose.

Faceva sempre, sempre così. Sorrideva. Nascondeva ogni cosa dietro a quei suoi sorrisi dolci, gentili, coprendo con essi sia verità che menzogne, stati d’animo e problemi, a tratti persino il dolore.

A volte, quella sua masochistica caratteristica di non condividere niente gli faceva saltare i nervi.

A volte, ma solo a volte... non lo sopportava.

Il rosso si morse il labbro inferiore, arricciando il naso in una smorfia. « Hai anche il coraggio di chiedermi di dormire? » domandò risentito, stringendo i pugni nelle tasche.

Perché doveva sorridere in quel modo? Perché doveva parlargli come se il giorno successivo fosse stato semplicemente un altro numero sul calendario, un’alba come ogni altra?

Non lo era. Non poteva chiedergli in silenzio di far finta che lo fosse.

Giotto, a sentire quella domanda retorica, aggrottò le sopracciglia. Il sorriso non scomparve dal suo volto, ma assunse una nota di amara tristezza.

« Scusami... » disse: « sono un’ipocrita. Scusami tanto... » .

G, osservandolo scostare di nuovo lo sguardo sulle fiamme, sospirò rassegnato. Lo conosceva da anni, poteva dire di sapere tutto di lui: ciò che gli piaceva e ciò che non gli piaceva, i sapori che preferiva, quale vino apprezzava di più, i libri che ogni tanto rileggeva... cosa gli piaceva sentirsi dire, dove provava piacere nell’essere toccato... persino i suoi punti deboli, lui li conosceva tutti.

E amava ogni singolo aspetto della persona che ora, seguendo proprio una delle caratteristiche di lui più tipiche – la gentilezza – aveva deciso di firmare in bella grafia quella che aveva tutta l’aria di una condanna a morte.

E lui... beh, G era ciò che rimaneva. Ciò che sarebbe rimasto dopo.

Cercò di cancellare quel pensiero.

Si tolse le mani dalle tasche, avvicinandosi al biondo con una decina di passi. Notò che cravatta e giacca erano abbandonate sul bracciolo della poltrona più vicina, e che i primi bottoni del della camicia erano stati sbottonati.

Anche quello, era un aspetto di Giotto che solo a lui era concesso vedere. Il boss non era solito abbandonare la cravatta e la giacca, che nonostante le origini umili portava addosso come se fossero parte di lui; tuttavia erano qualcosa di essenziale per completare quell’eleganza che, G ne era sicuro, era intrinseca a lui come lo era l’anima stessa.

Un’anima troppo gentile, per un mondo come quello.

Fermandosi a meno di un passo da lui, il Guardiano non fece altro che rimanere fermo a guardarlo. Non ci volle molto perché Giotto scostasse nuovamente gli occhi chiari dalla fiamme, incrociando i suoi.

Era difficile dire cosa ci leggeva, in quei pozzi azzurri divenuti quasi color smeraldo a causa della luce ambrata. Sentimenti contrastanti, confusione... quello sì.

Aggrottando a sua volta le sopracciglia in un’espressione combattuta, G alzò la mano destra fino a sfiorare la guancia di Giotto, che si girò piano verso di lui, chiudendo gli occhi ed inclinando appena il capo verso quella mano.

« Cosa devo fare, Primo? » chiese allora il Guardiano della Tempesta: « cosa devo fare per proteggerti, questa volta? » domandò, i pensieri ormai congelati dall’impotenza di cui si era reso protagonista.

Giotto, malinconicamente, sorrise di nuovo. Ma non era uno di quei sorrisi maschera, era un incurvarsi di labbra sincero, quasi... supplichevole. « Quello che fai sempre, G... » sussurrò « lasciami fare ».

In quel momento, G poté sentire chiaramente il rumore che segnava l’infrangersi delle sue speranze. Lo scricchiolare sinistro dei frammenti di ogni ricordo infranto caduti al suolo, e che lui avrebbe presto pestato, impossibilitato a muoversi se non polverizzandoli con i piedi.

Il ricordo di ogni sorriso sincero, di ogni parola sussurrata, di ogni bacio scambiato a fior di labbra. Il ricordo di ogni notte, di ogni nuovo giorno salutato stringendolo a sé, di ogni battaglia affrontata ricoprendo il ruolo per cui era nato: essere sempre alla sua destra.

« Mi stai chiedendo di lasciarti morire, Primo? » domandò allora, mormorando. Non serviva un tono maggiore, data la vicinanza.

Giotto portò la mano sinistra su quella di G, stringendola. Non rispose, ma la risposta era ovvia.

« Mi stai chiedendo di vederti morire, Primo? » domandò di nuovo il rosso, cambiando solamente di una parola il significante, ma di un intera accezione il significato.

Il sorriso di Giotto scomparve sotto lo sforzo del biondo di mantenerlo in vita. Mutò in una smorfia triste, forse trattenuta dentro di sé troppo a lungo, probabilmente in attesa di qualcuno che venisse a smascherarla. Strinse di più la presa sulla sua mano, ma non smise di guardarlo nonostante gli occhi si fossero fatti lucidi.

« Mi stai chiedendo di non fare niente... Giotto? » sussurrò infine G, lasciando perdere ogni formalità.

Non udì la sua voce, né una sua effettiva risposta.

Solo il suo volto nell’incavo fra il collo e la spalla, e il calore del suo corpo stretto al proprio.

 

 

Non puoi sapere quant’è difficile, a volte, boss...

...essere il sostegno di qualcuno.

Stringere a sé la persona che più al mondo si desidera proteggere

sapendo che, magari il giorno dopo,

non si stringeranno nient’altro che i petali secchi di un fiore.

 

 

« Gokudera-kun? ».

Gli posò il mantello sulle spalle, che Tsuna chiuse appuntando la spilla in oro con lo stemma dei Vongola. Si controllò la cravatta, stringendola un po’ di più.

« Mh? ».

Hayato lo osservò alle sue spalle, riflesso sullo specchio della camera, soffermandosi sul lieve ma spento sorriso che ne inclinava appena le labbra.

« Non è colpa tua, Gokudera-kun ».

Perché...

 

 

« G? ».

Posò la mano sottile sulla maniglia del portone, l’ingresso a malapena illuminato dalle prime luci dell’alba.

Chissà se aveva fatto apposta, a voler uscire così presto.

Il rosso non fiatò, alzò semplicemente lo sguardo.

Lo vide sorridere. Gentilmente. Da fare male al cuore.

« Non è colpa tua, G ».

Perché...

 

 

...sembrava tutto maledettamente un addio?

 

 

Fu un colpo solo.

Gokudera lo sentì distintamente, anche se attutito dalla porta in legno pesante chiusa a chiave. Quando se ne accorse, quando realizzò, Yamamoto aveva già sfoderato la sua katana ed era partito all’attacco.

Fu un colpo solo.

 

 

Fu un colpo solo.

Arrivò codardamente, dopo il sollievo che li aveva abbracciati vedendolo uscire sano e salvo dalla seconda tenuta.

Uno scintillio cupo, il tuono, e il suo sorriso fu annegato in un’acqua color porpora.

Fu un colpo solo.

 

 

Come il ticchettio che annuncia la mezzanotte sembra sempre più rumoroso degli altri.

Bastò un colpo:

morì con lui.

 

 

Una bara nera intarsiata d’oro nascosta nella luce soffusa di una foresta. Questo rimaneva di lui.

Quella bara, e dieci anni di ricordi indelebili marchiati a fuoco nella memoria.

Un ricordo, però, non si può toccare. Un ricordo non ha profumo, non sorride, non respira.

Non si può baciare.

Alla fine, solo questo rimaneva di loro.

Una bara nera intarsiata d’oro nascosta nella luce soffusa di una foresta.

E alla destra di quella bara, ogni giorno, un uomo dai capelli color tempesta si inginocchiava, e sussurrava.

Mormorava scuse. Chiedeva un perdono che non sarebbe mai giunto.

 

 

Se solo chiudeva gli occhi, e li riapriva qualche istante dopo, concentrandosi avrebbe potuto vederlo.

Addormentato lì, sulla sua scrivania. Stremato per l’ennesima giornata passata a leggere documenti e rapporti, pensando di riposarsi solo un secondo avrebbe appoggiato il viso sulle braccia incrociate, dormendo lì.

Finché, come al solito, G non sarebbe venuto a svegliarlo. Accostandosi alla sua sedia con un sorriso a metà fra l’intenerito e il rassegnato, gli avrebbe carezzato i capelli facendo in modo di svegliarlo il più dolcemente possibile.

Se solo allungava la mano, G era sicuro di poter ancora toccare quei sottili filamenti color del sole.

Ma ogni volta che lo faceva, avvicinandosi a quel fantasma frutto solo dei suoi ricordi, quell’immagine svaniva.

E la sua mano, tesa nel nulla, tornava inerme lungo la coscia.

 

 

 

Di tutti i fiori, l’Ibisco è di sicuro quello che odio di più.

Lo sai, boss?

Dopo aver ammaliato tutti quanti con la sua bellezza...

Sfiorisce, e muore in poche ore.

 

 

~ Owari.

   
 
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