Volevo
scrivere una G/Giotto, ma - come al solito - mi sono bloccata verso la quinta
pagina.
Poi
mi è venuta l’idea di una 5927, perché ne sono amante fino allo stremo, ma
dovendo finire la G/Giotto mi sono detta che non era il caso di cominciarne un’altra.
Il
risultato due mesi dopo? Le ho unite. L’angst mette
d’accordo tutti ♥ (?!).
Desclaimer: i personaggi qui utilizzati sono © di Amano-sensei. Io? Io li sfrutto a mio piacimento per farci
del puro angst, per deprimermi la vita e per
infestare il fandom con un po’ di yaoi
(che non è che manchi, ammetto). Lo faccio anche gratis, pensate un po’.
Note: eh, un paio ci
vogliono.
Doppia...
anzi no, tripla impaginazione. Laterale sinistra per la decima generazione,
laterale destra per la prima generazione, centrale per le considerazioni comuni
ad entrambe (magari capirete leggendo). Non amo l’impaginazione al laterale
destro per le descrizioni lunghe, ma ammetto che mi torna dannatamente comoda
in questo caso specifico.
Per
quanto riguarda la decima generazione, l’ambientazione (intuibile? ;D) è TYL pre-arrivo dei cari amichetti del bosco dal passato. Il
pezzo che tratta della morte di Tsuna, tanto per
dire.
Sull’ambient della prima generazione, ammetto di aver viaggiato
con la fantasia. In altre parole, è un colossale “what
if” del tipo: “e se Giotto non fosse semplicemente
stato cacciato in Giappone, ma nella battaglia per la successione di Ricardo ci
fosse rimasto?” 8D sì, lo so: mi voglio del male.
Ma
devo dire che mi si offre una chance in quel caso, che ho utilizzato qui: doppio
funerale, doppia bara, doppio Guardiano della Tempesta che si dispera. Non
potevo non costruirci su.
Rispettivamente,
Gokudera e G p.o.v.
Dediche: dedicata a Shichan (my beloved
G ♥) e al gruppo
cosplay che mi ospiterà nei panni di Giotto (perdonali Signore, non sanno ciò
che fanno 8D).
Se
siete sopravvissuti all’intro sbrodolante, buona
lettura!
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Fiore dell’Oblio
Di tutti i fiori,
l’Ibisco è di sicuro quello più strano.
Lo sai, boss?
Dopo aver faticato
tanto per mostrare al mondo la sua bellezza,
sfiorisce e muore
in poche ore.
Seduti
al tavolo circolare della sala comune, ascoltavano tutti con attenzione il
rapporto di Fuuta. L’ennesimo, di quei tempi.
« È
tutto » terminò il ragazzo, rimettendosi seduto al fianco di Giannini. Una
volta che lo ebbe fatto, la stanza piombò nel silenzio e solo il lieve ronzio
delle luci al neon impediva la totale ed incondizionata assenza di suono.
Nessuno
dei sei guardiani, tutti presenti, ebbe il coraggio di fiatare. Nemmeno Lambo, che di frasi inopportune pronunciate nei momenti
sbagliati era veramente esperto.
Tuttavia,
quel silenzio privo di respiro fu infine interrotto. « Grazie... » soffiò Tsuna, quasi abbandonato – invece che semplicemente seduto
– sulla propria sedia.
Lo
vedeva, Gokudera. Erano cose che aveva imparato a
notare subito.
« Juudaime... » chiamò a bassa voce – ma sembrò un urlo, uno
schiocco di frusta – allungando la mano a toccargli il braccio, abbandonato sul
tavolo come tutto il resto di sé.
Tsuna, camicia bianca con cravatta
bene allacciata e giacca elegante nera, gli sorrise lievemente. Tristemente,
avrebbe detto chiunque, ma ormai nessuno più ricordava come fosse fatto il
sorriso felice del loro boss.
Un
sorriso che Tsuna riusciva comunque, e sempre, a far comparire sulle proprie
labbra; forse per risollevare loro il morale, o forse per spronarli a non
arrendersi, ma che faceva stringere lo stomaco a Gokudera
ogni volta.
Eppure,
riconosceva che non era colpa sua. Non era colpa di nessuno di loro.
Tutti lo
sapevano.
« Che
intenzioni hai, Sawada? » domandò Hibari
dalla parte opposta del tavolo, le braccia incrociate nella sua così
caratteristica calma apparente.
« Già! »
intervenne poi Ryohei: « ormai è abbastanza ovvio che
i Millefiore stiano cercando gli Arcobaleno, e
prendendo di mira Reborn è come se ci avessero
giurato guerra aperta! » esclamò agitato, colpendo il tavolo con la mano aperta
e facendo sobbalzare Fuuta, Chrome
e Giannini.
« O-Onii-san...! »
« Non
dire idiozie! » scattò subito Gokudera, i nervi già a
fior di pelle in attesa di nient’altro che un pretesto: « non possiamo trarre
conclusioni affrettate, qui non stiamo giocando! Non ci hanno dichiarato
guerra, Reborn-san era indipendente, non c’entrava
nulla con la Famiglia, l’ha sempre detto! ».
Ryohei, arricciando il naso, non se lo
fece ripetere due volte. « Era l’istruttore di Sawada,
lui faceva parte della Famiglia! È da
codardi affermare il contrario, testa di polipo! » gridò in rimando.
Provocazione
che non fece altro che aumentare la rabbia del Guardiano della Tempesta. «
Allora è così che vorresti risolvere, partendo all’attacco a testa bassa?! Sei
un pov- »
« Gokudera-kun! » disse Tsuna ad alta
voce, sovrastando quelle di entrambi i contendenti. Il Guardiano della Tempesta
fu vittima degli occhi decisi del Decimo, che subito dopo si spostarono su Sasagawa: « Onii-san » pronunciò,
per poi aggiungere: « vi prego, mantenete la calma » con un tono più pacato ma
comunque serio.
Il
timbro di voce di un boss. Reborn sarebbe stato
felice di sentirlo, pensò Gokudera, obbedendo
docilmente alla richiesta e rimettendosi seduto. Il Guardiano del Sole fece
altrettanto.
« Tsuna » chiamò poi Yamamoto,
rimasto in silenzio fino a quel momento: « hai un piano, vero? Riesco quasi a leggertelo negli occhi » proferì,
facendo voltare le rimanenti otto teste in sua direzione.
Tsunayoshi, chiudendo gli occhi in un
sospiro, annuì piano. « I boss dei Millefiore mi
hanno chiesto un incontro in privato per parlare del futuro delle rispettive
Famiglie, o di una possibile alleanza. Intendo andarci » disse semplicemente,
nello stesso modo in cui avrebbe annunciato cosa voleva per cena, o quali
fossero le sue impressioni sul tempo.
Ma
sentendo quelle parole, a Gokudera sembrò di morire.
E non riuscì a dire niente, per i primi, pochi istanti; il fiato era bloccato
in gola, e con esso qualsiasi parola che il suo cervello potesse consigliargli
di pronunciare.
Si
sentiva odore di trappola lontano un miglio. E lui sapeva, sapeva che Tsuna non era così sprovveduto
da non essersene accorto.
Eppure...
eppure, voleva andare lo stesso.
Come al
solito, cercava quel compromesso pacifico che avrebbe evitato una guerra
palesemente imminente.
In dieci
anni, tutto quello che avevano fatto era stato servire la Famiglia Vongola,
facendola fiorire di nuova luce sotto la guida sempre più consapevole del
decimo successore.
Era da
poco, che la Famiglia aveva raggiunto il suo massimo splendore. Già... da
quando erano comparsi i Millefiore, da quando era
finito l’idillio, era passato davvero troppo poco tempo.
Seduti sui divanetti sistemati poco lontano dalla
scrivania, nell’ufficio del boss, avevano appena ascoltato senza fiatare le parole pronunciate dal proprio capofamiglia.
L’assenza di uno dei guardiani – il traditore, il
voltafaccia – si faceva sentire, e pesava come un macigno dopo le parole del
biondo, seduto compostamente alla propria scrivania.
Tuttavia, e G era fin troppo capace di riconoscere
quei piccoli segni, il suo sguardo chiaro era puntato al legno rossiccio
davanti a sé da quando tutti loro avevano messo piede in quella stanza.
Segno che, persino per lui, ogni speranza era ormai
un lontano ricordo.
Il silenzio poteva tranquillamente definirsi totale,
assoluto. Nemmeno Asari, che di solito aveva una
buona parola per tutto, sembrava essere intenzionato ad emettere il minimo
suono.
Dal canto suo, G continuava a guardare Giotto come
se tutto quello appena pronunciato, tutte le informazioni date e tutte le lettere
messe in fila, fossero in realtà un brutto sogno da cui ognuno di loro, non
solo lui, desiderava al più presto svegliarsi.
Lampo e Knuckle fissavano
a loro volta il boss come perduti, impotenti di fronte alla verità.
Nemmeno Alaude, in piedi
accanto alla vetrata laterale dell’ufficio, trovò il coraggio di spezzare quel
silenzio pesante e fitto come nebbia.
Alla fine, la minaccia era arrivata. E nonostante
tutti gli sforzi, proveniva dall’interno.
Da uno dei sei Guardiani che avrebbero dovuto
proteggere Vongola Primo da qualsiasi pericolo, e che invece pareva esserne
proprio una causa.
Demon aveva fatto il suo gioco.
Sapevano tutti, ormai, che era in contrasto con la
linea di pensiero pacifista di Giotto. Ne avevano discusso tanto, arrivando
allo sfinimento e alle urla, ma non avevano risolto niente.
Finché Daemon, tradendo il
giuramento – givro eterna amicizia – aveva ufficialmente
domandato il ritiro di Giotto dalla sua carica di boss dei Vongola in favore di
Ricardo, che a quel punto era il candidato a Secondo.
Ricardo il guerrafondaio, Ricardo il violento,
Ricardo il sanguinario.
Ricardo, che voleva vedere l’orgoglio della famiglia
Vongola divenire l’inno di terrore che avrebbe dominato il mondo della Mafia, e
il suo seggio di velluto costruito su un pavimento d’ossa.
Ormai, la guerra era imminente. Se ne sentiva
l’odore rancido nell’aria.
« Cosa vuoi che facciamo? ».
Una sola frase, un solo significato. Alaude non era uno che amava definirsi parte della
Famiglia, e Giotto gli aveva sempre lasciato il proprio spazio; ma se persino
lui capiva la gravità della situazione, se persino lui si schierava
dichiarandosi pronto a seguire gli ordini del biondo... allora la situazione
doveva essere veramente seria.
« Primo... » pigolò Lampo, in completa balia della
sua innata codardia; ma quel richiamo si diffuse a macchia d’olio fra i
guardiani presenti: « Primo » ripeté Knuckle, il tono
più fermo e lo sguardo serio; « Primo » pronunciò a sua volta Ugetsu, la voce a sua volta ferma e posata.
Tre voci che esprimevano supplica, affiatamento e
fedeltà a cui se ne aggiunse una quarta...
« Mi basta una tua parola, Primo » sentenziò G
alzandosi in piedi.
Avrebbe imbracciato l’arco, per proteggerlo. E se
non fosse bastato quello, avrebbe spaccato la faccia e preso a calci nel culo
qualunque individuo pazzo abbastanza da avvicinarsi troppo a Giotto. Qualunque
individuo abbastanza idiota da mettere in pericolo quel fiore – la Famiglia –
che Giotto aveva coltivato e proteggeva con immensa cura.
Giotto, però, si tenne rinchiuso nel suo silenzio.
Lo sguardo chiaro era puntato altrove, fuori da
quella stanza: scrutava oltre la vetrata quel paesaggio di cui sapeva ogni
particolare, forse cercando
di estraniarsi, di ritrovare una calma che sentiva
di stare perdendo pian piano.
Faceva così, notò G. Ogni volta che voleva
cancellare qualcosa, sperare che si sistemasse da sola, faceva così.
Tuttavia, la maggior parte delle volte il miracolo
non accadeva. E lui, come successe anche in quel momento, chiudeva gli occhi
con un sospiro e appoggiava il capo all’alto schienale della propria sedia.
Tornando alla realtà, prendendo decisioni.
« Non faremo niente » pronunciò dunque, riaprendo
gli occhi. « O meglio, voi non farete niente » rettificò.
« Boss! » scattarono subito G e Lampo, allibiti. Knuckle e Asari trattennero il
respiro, Alaude schioccò le labbra.
« No » pronunciò semplicemente Giotto, e le
lamentele furono subito zittite. G riconobbe in quel tono, in quello sguardo,
la voce perentoria del primo boss della Famiglia Vongola. La responsabilità che
la carica accettata, quella di capofamiglia, portava innegabilmente con sé
appesantendo le sue esili ma forti spalle.
Forti abbastanza da sopportare.
« Andrò a parlare con Ricardo. Troverò un modo per
risolvere pacificamente questa rivolta insensata ».
Tutto quello che avevano fatto, era stato creare dal
nulla un gruppo che garantisse ai cittadini dalla loro povera città una vita
degna di essere chiamata tale, libera da soprusi e maltrattamenti. Con il tempo,
il loro nobile intento era cresciuto, acquistano un nome ed uno stemma;
guadagnando stima e orgoglio, incutendo timore.
Vongola, si chiamava: Famiglia. Perché loro lo
erano, grazie a Giotto.
Sembrava un attimo prima. Tre bambini di strada che
sognano di cambiare il mondo, sembrava in attimo prima.
Era passato troppo poco tempo.
Già si sentivano;
i petali del fiore
così sbocciato appassire pian piano.
Bussò
alla porta dell’ufficio del Decimo, attendendo in silenzio il permesso di entrare.
Permesso
che arrivò dopo qualche istante, pronunciato in un morbido “avanti” abbastanza
alto da farsi sentire, ma sufficientemente basso da non rimbombare per i
silenziosi corridoi.
Gokudera, le sopracciglia aggrottate,
sospirò piano socchiudendo gli occhi. Raccolse a sé ogni briciolo di calma
interiore potesse possedere e, appoggiando la mano sulla maniglia, entrò.
Si era
immaginato, non vedendolo tornare in camera, che Tsuna
fosse ancora nel suo ufficio. O meglio, che in camera non avesse la minima
intenzione di tornarci.
Purtroppo,
come al solito, non sbagliava.
«
Dovresti riposare, Juudaime » disse piano,
chiudendosi delicatamente la porta alle spalle fino a far scattare la
serratura. Non si mosse dalla soglia, però, limitandosi ad osservare.
L’ufficio
di Tsuna aveva un’ampia vetrata sulla parete di
fronte alla porta. Nelle nottate di luna piena come quella era molto semplice
vedere l’intero ufficio grazie alla luce che penetrava dall’esterno, bagnando i
contorni di ogni oggetto di un lucore lattiginoso.
Tsunayoshi, in piedi di fronte alla
finestra, non si era voltato al suo ingresso nella stanza. Se ne stava
semplicemente lì, in piedi, ancora vestito di tutto punto nel suo completo nero
che ormai era diventato una sorta di seconda pelle.
Per i
primi minuti non rispose, poi si limitò ad un semplice mugugno di assenso, a
cui seguì un lieve: « non credo di avere sonno, Gokudera-kun...
» lasciato sfumare in sussurro.
Se lo
era ripromesso, Hayato. Molti anni prima, quando Tsuna era divenuto a tutti gli effetti il Decimo boss dei
Vongola, aveva giurato a se stesso che sarebbe diventato un braccio destro
esemplare. Che lo avrebbe aiutato sempre, sostenuto quando necessario,
valorizzato in ogni loro istante e che non avrebbe mai, mai discusso un suo ordine o una sua decisione. Poi, più avanti,
che lo avrebbe amato in ogni istante della sua vita.
Tuttavia,
nonostante fosse ben intenzionato a non tradire i propri principi, quell’ultimo
giuramento – o meglio, ciò che ne derivava – gli impediva categoricamente di
lasciarlo andare masochisticamente al martirio.
Gli
impediva di perderlo per sempre. Perché avrebbe fatto male, fin troppo, vederlo
scomparire senza poter far nulla.
Passarono
in silenzio quasi due minuti, prima che Tsuna lo
infrangesse di nuovo: « è tutto, Gokudera-kun? »
domandò pacato, senza tuttavia girarsi.
Non era
per cacciarlo, Gokudera riusciva a capirlo. Non
voleva mandarlo via. Ma percepiva un tremolio in quella voce, una sorta di...
paura? No, forse no, ma era abbastanza potente da far sì che Tsuna non volesse apparire debole, o spaventato.
A
sentire quel tremore, Gokudera abbandonò ogni buon
proposito. « No » sputò, quasi risentito dallo stesso comportamento di Tsunayoshi, ma più che altro dando sfogo all’agitazione che
stava reprimendo; « Juudaime, non è necessario farlo.
Troveremo un’altra soluzione, e se non c’è combatteremo! » cercò di
dissuaderlo: « è una trappola! È una fottutissima trappola, Juudaime!
Non ci credo che tu non te ne sia accorto! » sbottò, stringendo i pugni con
talmente tanta forza che le nocche sbiancarono e le unghie premettero
dolorosamente sulla carne dei palmi.
Tsunayoshi non si scompose, limitandosi
ancora una volta al silenzio. Gokudera lo vide alzare
la mano destra, che venne appoggiata al vetro della finestra.
Istintivamente,
Hayato sfiorò con lo sguardo il medio della propria
mano sinistra. Così come in quel dito, una volta, era risieduto l’anello dei
Vongola della Tempesta, allo stesso dito della mano opposta aveva brillato, per
Tsuna, la gemma blu di quello del Cielo.
Erano
andati distrutti per volere del Decimo e da allora, l’equilibrio del Trinisette era stato infranto.
« Gokudera-kun... » sussurrò Tsunayoshi
con un sorriso mesto ad incurvargli le labbra: « forse salveremo tutto ciò che
per noi è importante, ma al contempo potrei stare per fare l’errore più grande
della mia vita... » disse, forse senza uno scopo, o forse per alleggerire la
tensione che gli irrigidiva le spalle.
Trattenendo
il respiro, il Guardiano della Tempesta si avvicinò al boss; i mocassini
rimbombarono cupi sulla moquette dello studio.
Gli fu
alle spalle in pochi passi e, gentilmente, sollevò la mano destra fino a
portarla su quella di Tsuna, ancora appoggiata al
vetro. L’altro braccio, invece, andò a cingergli la vita formando una stretta
possessiva a cui il Decimo non sfuggì e che non rifiutò in alcun modo.
Anzi. Tsuna appoggiò la propria mano sinistra alla sua,
intrecciandone le dita. Tutto fatto in silenzio, ogni movimento lento e
delicato come un sussurro.
Hayato, mordendosi il labbro inferiore,
premette la fronte alla spalla di Tsuna, stringendolo
a sé ancora di più. « Non devi andare per forza » mormorò poi.
« Devo
andare » rispose però Tsuna, semplicemente.
« Non
voglio che tu vada » ribatté Gokudera, respirando
piano, trattenendo la tristezza – facendo il possibile per farlo.
« Ci
devo andare » sussurrò Tsuna, voltando appena in capo
fino a sfiorare con il naso la gota dell’altro.
« Non
andare... » supplicò Gokudera, la voce spezzata.
« Gokudera-kun... » fu l’unica cosa che riuscì a pronunciare Tsuna prima che una lacrima, sfuggita al suo già minato
controllo, scivolasse lenta lungo la guancia.
Scese lentamente i gradini uno ad uno, mani in
tasca, diretto al salone centrale del piano terra.
Non era difficile leggere nella mente di persone
come Giotto. Bastava semplicemente impegnarsi, conoscerle e sapere cosa
pensavano, il che risultava quasi più facile che decodificare i propri, di
pensieri.
Per questo aveva subito pensato al camino del salone,
quando non lo aveva trovato né in camera né nel suo ufficio. Nonostante fosse
ancora autunno, e non fosse di certo il periodo adatto per utilizzarlo, Giotto
aveva una sorta di amore particolare per il fuoco. Diceva che lo rilassava, che
lo ipnotizzava, e G non aveva faticato a convincersi che fosse la verità.
Terminata la scala, e alzato lo sguardo, infatti lo
vide proprio dove si immaginava che fosse.
In piedi davanti al camino acceso – una luce
ondulante calda e tranquilla inondava soffusamente il resto del salotto,
lasciato nell’ombra dell’assenza di elettricità – osservava le lingue di fuoco
ondeggiare sinuose, corrodendo pian piano il legno da cui prendevano energia,
riducendolo a cenere.
Estraniato dal mondo, non aveva ancora ammesso
nessuno nel suo sguardo fisso sul fuoco.
« Non dovresti riposare? » chiese dunque il
Guardiano della Tempesta, rimanendo in piedi poco distante dalle scale appena
scese, alla destra del camino e alla fine del grande salone.
Giotto, sobbalzando appena, scostò lentamente gli
occhi su di lui. E, come era suo tipico fare per tutto, gli sorrise.
« Non ho sonno... » mormorò piano. Non c’era bisogno
di alzare la voce, dopotutto: il salone vuoto, privo della vitalità e della
frenesia del giorno, faceva riecheggiare qualsiasi voce tramutandola in
qualcosa di simile ad un urlo.
Senza dargli il tempo di ribattere, poi, aggiunse: «
e tu? Come mai sei in piedi? » con un tono lieve e pacato.
Come se non fosse successo niente, come se non
dovesse succedere niente.
G non rispose.
Faceva sempre, sempre
così. Sorrideva. Nascondeva ogni cosa dietro a quei suoi sorrisi dolci, gentili,
coprendo con essi sia verità che menzogne, stati d’animo e problemi, a tratti
persino il dolore.
A volte, quella sua masochistica caratteristica di
non condividere niente gli faceva saltare i nervi.
A volte, ma solo a volte... non lo sopportava.
Il rosso si morse il labbro inferiore, arricciando
il naso in una smorfia. « Hai anche il coraggio di chiedermi di dormire? »
domandò risentito, stringendo i pugni nelle tasche.
Perché doveva sorridere in quel modo? Perché doveva
parlargli come se il giorno successivo fosse stato semplicemente un altro
numero sul calendario, un’alba come ogni altra?
Non lo era. Non poteva chiedergli in silenzio di far
finta che lo fosse.
Giotto, a sentire quella domanda retorica, aggrottò
le sopracciglia. Il sorriso non scomparve dal suo volto, ma assunse una nota di
amara tristezza.
« Scusami... » disse: « sono un’ipocrita. Scusami
tanto... » .
G, osservandolo scostare di nuovo lo sguardo sulle
fiamme, sospirò rassegnato. Lo conosceva da anni, poteva dire di sapere tutto
di lui: ciò che gli piaceva e ciò che non gli piaceva, i sapori che preferiva,
quale vino apprezzava di più, i libri che ogni tanto rileggeva... cosa gli
piaceva sentirsi dire, dove provava piacere nell’essere toccato... persino i
suoi punti deboli, lui li conosceva tutti.
E amava ogni singolo aspetto della persona che ora,
seguendo proprio una delle caratteristiche di lui più tipiche – la gentilezza –
aveva deciso di firmare in bella grafia quella che aveva tutta l’aria di una
condanna a morte.
E lui... beh, G era ciò che rimaneva. Ciò che
sarebbe rimasto dopo.
Cercò di cancellare quel pensiero.
Si tolse le mani dalle tasche, avvicinandosi al
biondo con una decina di passi. Notò che cravatta e giacca erano abbandonate
sul bracciolo della poltrona più vicina, e che
i primi bottoni del della camicia erano stati sbottonati.
Anche quello, era un aspetto di Giotto che solo a
lui era concesso vedere. Il boss non era solito abbandonare la cravatta e la
giacca, che nonostante le origini umili portava addosso come se fossero parte
di lui; tuttavia erano qualcosa di essenziale per completare quell’eleganza
che, G ne era sicuro, era intrinseca a lui come lo era l’anima stessa.
Un’anima troppo gentile, per un mondo come quello.
Fermandosi a meno di un passo da lui, il Guardiano
non fece altro che rimanere fermo a guardarlo. Non ci volle molto perché Giotto
scostasse nuovamente gli occhi chiari dalla fiamme, incrociando i suoi.
Era difficile dire cosa ci leggeva, in quei pozzi
azzurri divenuti quasi color smeraldo a causa della luce ambrata. Sentimenti
contrastanti, confusione... quello sì.
Aggrottando a sua volta le sopracciglia in un’espressione
combattuta, G alzò la mano destra fino a sfiorare la guancia di Giotto, che si
girò piano verso di lui, chiudendo gli occhi ed inclinando appena il capo verso
quella mano.
« Cosa devo fare, Primo? » chiese allora il
Guardiano della Tempesta: « cosa devo fare per proteggerti, questa volta? »
domandò, i pensieri ormai congelati dall’impotenza di cui si era reso
protagonista.
Giotto, malinconicamente, sorrise di nuovo. Ma non
era uno di quei sorrisi maschera, era un incurvarsi di labbra sincero, quasi...
supplichevole. « Quello che fai sempre, G... » sussurrò « lasciami fare ».
In quel momento, G poté sentire chiaramente il
rumore che segnava l’infrangersi delle sue speranze. Lo scricchiolare sinistro
dei frammenti di ogni ricordo infranto caduti al suolo, e che lui avrebbe
presto pestato, impossibilitato a muoversi se non polverizzandoli con i piedi.
Il ricordo di ogni sorriso sincero, di ogni parola
sussurrata, di ogni bacio scambiato a fior di labbra. Il ricordo di ogni notte,
di ogni nuovo giorno salutato stringendolo a sé, di ogni battaglia affrontata
ricoprendo il ruolo per cui era nato: essere sempre alla sua destra.
« Mi stai chiedendo di lasciarti morire, Primo? »
domandò allora, mormorando. Non serviva un tono maggiore, data la vicinanza.
Giotto portò la mano sinistra su quella di G,
stringendola. Non rispose, ma la risposta era ovvia.
« Mi stai chiedendo di vederti morire, Primo? »
domandò di nuovo il rosso, cambiando solamente di una parola il significante,
ma di un intera accezione il significato.
Il sorriso di Giotto scomparve sotto lo sforzo del
biondo di mantenerlo in vita. Mutò in una smorfia triste, forse trattenuta
dentro di sé troppo a lungo, probabilmente in attesa di qualcuno che venisse a
smascherarla. Strinse di più la presa sulla sua mano, ma non smise di guardarlo
nonostante gli occhi si fossero fatti lucidi.
« Mi stai chiedendo di non fare niente... Giotto? »
sussurrò infine G, lasciando perdere ogni formalità.
Non udì la sua voce, né una sua effettiva risposta.
Solo il suo volto nell’incavo fra il collo e la
spalla, e il calore del suo corpo stretto al proprio.
Non puoi sapere
quant’è difficile, a volte, boss...
...essere il
sostegno di qualcuno.
Stringere a sé la
persona che più al mondo si desidera proteggere
sapendo che, magari
il giorno dopo,
non si stringeranno
nient’altro che i petali secchi di un fiore.
« Gokudera-kun? ».
Gli posò
il mantello sulle spalle, che Tsuna chiuse appuntando
la spilla in oro con lo stemma dei Vongola. Si controllò la cravatta,
stringendola un po’ di più.
« Mh? ».
Hayato lo osservò alle sue spalle,
riflesso sullo specchio della camera, soffermandosi sul lieve ma spento sorriso
che ne inclinava appena le labbra.
« Non è
colpa tua, Gokudera-kun ».
Perché...
« G? ».
Posò la mano sottile sulla maniglia del portone,
l’ingresso a malapena illuminato dalle prime luci dell’alba.
Chissà se aveva fatto apposta, a voler uscire così
presto.
Il rosso non fiatò, alzò semplicemente lo sguardo.
Lo vide sorridere. Gentilmente. Da fare male al
cuore.
« Non è colpa tua, G ».
Perché...
...sembrava tutto
maledettamente un addio?
Fu un
colpo solo.
Gokudera lo sentì distintamente, anche se
attutito dalla porta in legno pesante chiusa a chiave. Quando se ne accorse,
quando realizzò, Yamamoto
aveva già sfoderato la sua katana ed era partito all’attacco.
Fu un
colpo solo.
Fu un colpo solo.
Arrivò codardamente, dopo il sollievo che li aveva
abbracciati vedendolo uscire sano e salvo dalla seconda tenuta.
Uno scintillio cupo, il tuono, e il suo sorriso fu
annegato in un’acqua color porpora.
Fu un colpo solo.
Come il ticchettio
che annuncia la mezzanotte sembra sempre più rumoroso degli altri.
Bastò
un colpo:
morì
con lui.
Una bara
nera intarsiata d’oro nascosta nella luce soffusa di una foresta. Questo
rimaneva di lui.
Quella
bara, e dieci anni di ricordi indelebili marchiati a fuoco nella memoria.
Un
ricordo, però, non si può toccare. Un ricordo non ha profumo, non sorride, non
respira.
Non si
può baciare.
Alla
fine, solo questo rimaneva di loro.
Una bara
nera intarsiata d’oro nascosta nella luce soffusa di una foresta.
E alla
destra di quella bara, ogni giorno, un uomo dai capelli color tempesta si
inginocchiava, e sussurrava.
Mormorava
scuse. Chiedeva un perdono che non
sarebbe mai giunto.
Se solo chiudeva gli occhi, e li riapriva qualche
istante dopo, concentrandosi avrebbe potuto vederlo.
Addormentato lì, sulla sua scrivania. Stremato per l’ennesima
giornata passata a leggere documenti e rapporti, pensando di riposarsi solo un
secondo avrebbe appoggiato il viso sulle braccia incrociate, dormendo lì.
Finché, come al solito, G non sarebbe venuto a
svegliarlo. Accostandosi alla sua sedia con un sorriso a metà fra l’intenerito
e il rassegnato, gli avrebbe carezzato i capelli facendo in modo di svegliarlo
il più dolcemente possibile.
Se solo allungava la mano, G era sicuro di poter
ancora toccare quei sottili filamenti color del sole.
Ma ogni volta che lo faceva, avvicinandosi a quel
fantasma frutto solo dei suoi ricordi, quell’immagine svaniva.
E la sua mano, tesa nel nulla, tornava inerme lungo
la coscia.
Di tutti i fiori, l’Ibisco
è di sicuro quello che odio di più.
Lo sai, boss?
Dopo aver ammaliato
tutti quanti con la sua bellezza...
Sfiorisce, e muore
in poche ore.
~ Owari.