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Autore: Noirechatte_    15/01/2011    2 recensioni
«Non poteva sopportare di perderlo, non riusciva a soffocare quell’emozione così intensa da fargli quasi perdere i sensi, e allora pianse. Le lacrime superarono il confine dei suoi occhi verdi, facendolo soffrire come una persona che si sente tradita, arrabbiata; come un fratello maggiore, come un padre, come una persona disperatamente innamorata.»
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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...And not seeing that loving you is what I was trying to do.

Piove, oggi. Non che questa condizione atmosferica sia eccezionale, in Inghilterra. Solo che, in questa giornata di gennaio, le piccole gocce che cadono dal cielo e rimbalzano sui tetti delle case, in maniera silenziosa e malinconica, rispecchiano quasi ossessivamente lo stato d’animo di Arthur Kirkland che, seduto sulla sua poltrona di pelle marrone, guarda un punto indefinito del suo salotto fiocamente illuminato, mentre una tazza di tea, poggiata su un tavolo da fumo trasparente, attende di essere sorseggiata.

La terraced house di Arthur è immersa nel silenzio totale, dove i fastidiosi rumori del traffico della metropoli londinese sono solo un suono soffocato; soffocato dai pensieri dell’uomo che decide finalmente di gustare un po’ della sua bevanda preferita. Il tea caldo, cui è stato ovviamente aggiunto del latte, riesce a scaldare la gola di Arthur, facendo arrivare quella deliziosa sensazione fino allo stomaco. L’allegro scoppiettio del camino, il cui fuoco ardente produce affascinanti ombre sui muri, è l’unica fonte di rumore che interrompe l’irreale silenzio dell’abitazione.

Da quanto dura questo silenzio, Arthur? Da troppo tempo, vero?

Ci sono delle giornate in cui i ricordi più spiacevoli, quelli che invadono la tua psiche di rimpianti e rimorsi, costringendoti a provare di nuovo sensazioni buie, ti fanno annegare nel freddo mare della nostalgia. Dopotutto anche i ricordi felici non sono migliori: Essi sembrano prendersi gioco di te, illudendoti che quella sensazione che ti diede l’illusione di una divina beatitudine sia qui, così vicina da poterla afferrare, per poi stringerla al petto e cullarla dolcemente. Non bisogna fidarsi di questi fantasmi, sadici compagni di notti insonni.

Tuttavia, Arthur è una persona orgogliosa, testardamente convinta di riuscire a cavarsela sempre da solo, escludendo così gli altri dal suo mondo interiore, considerandoli solamente inutili comparse nello spettacolo teatrale della sua esistenza. O almeno, così pare. Tutti abbiamo cicatrici nel nostro cuore, che tendiamo a nascondere per autodifesa, per paura di essere feriti ancora e ancora; temiamo che il nostro cuore possa affezionarsi agli altri, mostrando i suoi lati più deboli. Soffriamo, piangiamo calde lacrime salate e sprofondiamo negli abissi più oscuri della disperazione. C’è chi riesce a chiudere quel dolore, mentre chi non riesce a farlo, perché la persona che l’ha procurato è ancora così viva, così presente, così maledettamente importante.

E tu, Arthur, riuscirai mai a dipingere una croce sul nome di Alfred, nel tuo cuore?

Arthur non è una persona che piange e mostra facilmente le proprie emozioni. Eppure, in quella giornata di pioggia, non poi tanto diversa da quella che sta vivendo ora, aveva lasciato esplodere la sua frustrazione per quella guerra che mai e poi mai avrebbe voluto combattere, gridando contro Alfred, il bambino che lo aspettava con un candido sorriso quando ritornava dalle sue battaglie mirate a dimostrare quanto fosse grande e forte alle altre Nazioni; il bambino che aveva gli occhi azzurri sempre puntati verso l’oceano, sognando chissà che cosa. E poi, inspiegabilmente, aveva pianto, coprendosi il volto con le mani tremanti, denudato ormai della sua dignità. Era poi veramente importante, alla fine? Non poté sopportare di perderlo, non riuscì a soffocare quell’emozione così intensa da fargli quasi perdere i sensi e allora pianse. Le lacrime superarono il confine dei suoi occhi verdi, facendolo soffrire come una persona che si sente tradita, arrabbiata; come un fratello maggiore, come un padre, come una persona disperatamente innamorata.

La vita ci presenta spesso buffe situazioni. Abitua il nostro cuore al profumo di una persona, al colore dei suoi occhi, al suo modo di camminare. Siamo così assuefatti dalla sua presenza che a stento riusciamo a riconoscerla dall’ossigeno ma, una parte di noi, ci nasconde quanto sia realmente importante l’altro per il nostro animo. Poi, per diversi motivi, il nostro rapporto con questa persona s’interrompe. Si sgretola, si disintegra, si spezza. E sapete qual'è la faccenda più divertente in tutto questo? Che la reale importanza di una persona si scopre solo in quel momento. Stupido, cieco cuore. Ci troviamo a vagare per le stanze di una casa vuota, mentre sentiamo l’odore dell’altro ovunque, mentre riusciamo persino a sentire l’eco della sua risata provenire da lontano. Provenire dalla nostra fantasia.

Scommetto che Alfred ti ha reso più felice di quanto tu non sia mai stato prima, vero?

E quando Arthur incrocia gli occhi di Alfred, ora nascosti dietro le lenti trasparenti, eppure così abili nel nascondere, di un paio di occhiali a montatura quadrata, ha voglia di gridargli addosso, ancora una volta, perché l’ha abbandonato, perché l’ha lasciato solo con dei ricordi che gli stritolano il cuore con forza inaudita. E’ forse una vendetta dell’americano per tutte le volte che l’inglese lo lasciava solo in quella casa enorme, troppo grande per viverci da soli? Ad Arthur, il viso paffuto di Alfred, con gli occhi imploranti che non lo guardavano, ma lo fissavano solo come un bambino è in grado di fare, faceva provare una tenerezza straziante che gli faceva promettere che sarebbe tornato presto, mentre accarezzava delicatamente i suoi capelli.

Arthur era sempre tornato, sempre. Oh, Alfred era cresciuto così in fretta, diventando un ragazzo con voglia di libertà e indipendenza. Alfred, quel giorno, gli disse che lui desiderava solo essere libero, che non era un bambino e che, soprattutto, non era più il suo fratellino.

«Perché, Alfred? Perché?ۚ», sussurra Arthur, con la tazza di Earl Grey, ormai fredda, in bilico fra se le sue mani tremanti. La appoggia sul tavolino, nascondendosi il viso fra le mani, in una patetica replica di quella giornata, lontana nel tempo, ma vivida e bruciante nella sua memoria.

L’inglese conosce bene la solitudine. E’ sempre stata la sua ombra. Quelli che come lui sono abituati a essere soli, che hanno avuto rapporti umani che si limitavano solo allo scherno, al sarcasmo e alla competizione, portano con sé un vuoto cui non sanno attribuire un nome, cui non sanno dare un profumo, cui non sanno dare un volto. Improvvisamente, nella vita di Arthur, piombò l’uragano Alfred, dando un’identità a quello sconosciuto. Ritornare alla solitudine dopo aver assaggiato la dolcezza dell’amore è difficile, se non impossibile. Inghilterra doveva andare avanti, non doveva mostrare a nessuno le sue detestabili debolezze e così, con il passare degli anni, si era chiuso nel suo mondo, che potevano visitare solo unicorni e fate, creature tanto pure e buone, che riuscivano a farlo sentire meno solo. Almeno un po’.

Arthur non era mai stato bravo con le parole, non aveva mai saputo destreggiarsi con maestria nella complicata arte delle emozioni. Non ama che le persone siano troppo fisiche con lui, che lo invitino, inconsapevolmente, a esporsi troppo. Forse perché l’unica persona che ha abbracciato nella sua vita è stata Alfred, specialmente nelle notti dove i lampi e i fulmini si mostravano in tutta la loro spaventosa imponenza, facendo alzare il piccolo America dal suo letto per raggiungere la stanza di Arthur, ancora sveglio, poiché era a conoscenza della paura del bambino. Alfred entrava timidamente nella camera del suo fratellone, che lo attendeva con le coperte leggermente alzate e con la schiena appoggiata contro la spalliera del letto, decorando il suo volto con un sorriso dolce e stanco, che faceva correre il piccolo nel suo letto già scaldato dal corpo dell’altro, che lo sentiva tremare contro il suo petto, stringendolo come se fosse… Come se fosse…

Più importante della sua stessa vita.

Arthur si alza dalla poltrona, con passo lento e strascicato. Si toglie la cravatta nera e la getta in un punto imprecisato del salotto, illuminato solo dalla luce dei lampioni e da ciò che rimane della fiamma, diventata fioca e debole per mancanza di attenzioni.

Apre la credenza e prende una bottiglia di liquore. Si siede sul divano, apre la bottiglia con facilità e comincia a ingurgitare il liquido a grandi sorsate, incurante di qualche goccia che gli bagna il mento. Arthur è felice che la stanza sia immersa nell’oscurità: Non vorrebbe mai che i suoi piccoli amici magici lo vedessero in quelle condizioni. O forse riescono a vedere come si sente esclusivamente dalla melodia che emette la sua anima, chissà.

La sua gola comincia a bruciare, mentre tenta di pregustare l’oblio che le sue facoltà cognitive proveranno a breve. Ma niente brucerà più delle parole che non ha mai pronunciato ad Alfred. Mai.

~

Nel frattempo, dall’altra parte del globo, un ragazzo dai capelli biondi e gli occhi azzurri, nascosti dalle lenti di due occhiali, apre la porta-finestra della sua villa e, correndo, oltrepassa la veranda. Le gocce di pioggia gli bagnano i vestiti, i capelli, il volto.

Proprio come in quell’indelebile giornata.

 

The end.

 

Ok, questo è quello che mi è nato nel cervello ascoltando “What hurts the most” dei Rascal Flatts (notare il titolo della storia!), e “You could be happy” degli Snow Patrol, che sono rispettivamente americani e inglesi, lol. Comunque, questa è la prima Arthur/Alfred che scrivo, anche se penso che si possa semplicemente definire come un’esplorazione nei pensieri e nelle emozioni di Arthur. Avevo una voglia matta di scrivere qualcosa del genere, e spero che Arthur sia IC. Spero vi sia piaciuta, alla prossima.

 

  
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