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Autore: spetra    21/01/2011    3 recensioni
"Ma c'erano stati dei momenti in cui il moretto lo fissava con il suo sguardo da “Ho capito tutto” e allora John andava in panico e rischiava di commettere qualche sciocchezza[...]"
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Questa fanfiction non è a scopo di lucro. I personaggi appartengono ai rispettivi ideatori e detentori di Copyright.




***


Sherlock Holmes amava mettersi alla prova. Il suo unico scopo era quello di avventurarsi nei casi più intricati e a prima vista impossibili da risolvere, eppure era proprio ciò di cui aveva più bisogno: gli episodi senza capo né coda per i quali ogni speranza di trovare una risposta logica e sensata era stata abbandonata già in partenza. Perché gli altri non erano stati in grado di individuarla.


Gli altri, quell'ammasso di idioti.

Lui era diverso da loro.

Fin da piccolo tutti si tenevano alla larga da lui a causa del suo aspetto che poteva mettere in soggezione e, soprattutto, per colpa del suo caratteraccio per nulla facile che non permetteva a nessuno di avvicinarsi troppo.

Ma a Sherlock andava benissimo così, a differenza degli altri non soffriva la solitudine, anzi, preferiva evitare un qualsiasi contatto prolungato con le persone.

Lui era fatto per osservare, studiare, captare ogni più piccolo dettaglio.


Capiva quanto la gente fosse ignorante - figurarsi, nessuno era perfetto – ma non si trattava solo di un'ignoranza culturale, era di gran lunga peggio. Le persone si illudevano di essere più intelligenti degli altri, di essere migliori degli altri, si convincevano nell'esattezza delle proprie idee contorte, provavano dei sentimenti contrastanti, accumulavano ogni cosa per poi arrivare a un punto di non ritorno. Oltrepassavano una specie di linea immaginaria tra pazzia e realtà, firmavano un contratto con la follia e poi uscivano allo scoperto, come se niente fosse, come se nulla avesse più importanza se non il piacere personale.

Era proprio grazie ad individui del genere che aveva lavoro. Un sacco di lavoro.


Il finto perbenismo, sorrisi falsi, invidia, contatto fisico, parlare a vanvera, amore, sentimenti, coinvolgimenti inutili che avevano come l'unico scopo quello di riempire la testa di cavolate, di informazioni superflue decisamente da scartare. Tutto questo non faceva per lui. C'erano cose ben più interessanti.

A lui andava benissimo la vita che si era costruito finora, non avrebbe voluto cambiare nulla.


L'aiuto che offriva alla polizia, in quanto consulente investigativo, era senz'altro indispensabile, e in cambio riceveva tutto ciò che potesse desiderare: sentire scorrere l'adrenalina in tutto il corpo provocandogli piccoli brividi di anticipazione, l'eccitazione di trovare una pista da seguire, il senso di soddisfazione per aver scoperto il colpevole.

Eppure, alla conclusione della corsa, l'unica cosa che gli rimaneva era un senso di disagio.

Non riusciva a capacitarsene. Tutto diventava tremendamente uguale e senza colori. Il mondo era noioso. Ogni cosa, chiunque, niente sarebbe mai stato alla sua altezza.



E poi, come un fulmine a ciel sereno, John Watson fece la sua regale comparsa e senza chiedergli il permesso, si impossessò della sua mente abbattendo tutte quelle barriere che aveva faticosamente costruito per respingere così, in modo più che egregio, quei pochi stolti che avevano avuto il coraggio di cercare di instaurare un rapporto con lui.

La sua mente, lo strumento fondamentale del suo lavoro, d'un tratto si rifiutò di collaborare. Il cervello andò in standby senza pensarci due volte, decidendo di concentrare ogni neurone su un'unica persona, piuttosto che sottostare alle pazzie del suo strambo proprietario.


Beh, il corpo, poi, non ci mise molto ad arrendersi alla volontà della mente. In fondo Sherlock non si era mai fatto mancare nulla, se voleva qualcosa se lo prendeva: per lui non esistevano limiti e mai sarebbe capitato di raggiungerli.

Fino a quel momento.


***


Aveva esagerato con l'alcol.

Trascinò su per le scale un barcollante John che si aggrappò al suo braccio, inciampando nei suoi stessi piedi e ridacchiando sommessamente.

Era notte fonda e, fortunatamente, Mrs Hudson non sarebbe stata a casa per tutto il weekend, in quanto partita a trovare -non si sa chi- a -non importa dove-.


Quella sera Watson era più insopportabile del solito, e sotto la minaccia irremovibile da parte dell'ex soldato, avevano deciso di andare a cenare fuori.

In fin dei conti il moretto avrebbe potuto ignorarlo come faceva di solito, perso com'era dall'ammazzarsi dalla noia in attesa di un qualche segno da parte di Lestarde. Quest'ultimo senza dubbio era pieno di lavoro fin sopra ai capelli, allora perché non si muoveva ad affidargli qualcosa, qualunque cosa?


Le voce del dottore cercava di mantenere una tonalità dura e inflessibile, lo sguardo che non osava posarsi per più di un secondo sul detective che riposava svogliatamente sul solito divanetto che usava per riflettere.

John, esasperato, si era avvicinato all'amico e l'aveva letteralmente buttato giù, senza qualche difficoltà. Gli aveva comunicato con tono deciso di mettersi in ordine in quanto quella sera sarebbero andati a mangiare fuori, come due persone normali. Dunque, preferendo mettere fine alle lamentele del coinquilino a proposito della sua sbagliata alimentazione, acconsentì ad uscire.

E per fortuna che il dottore aveva tirato fuori solo quello, di problema. Le volte scorse era ancora peggio, con tutte le ramanzine che gli faceva. Sembrava una mogliettina in apprensione che sgridava il marito scansafatiche colpevole solo di non averle dedicato abbastanza tempo e attenzione, altroché.



Il risultato era il seguente: un John Watson, molto più rilassato e allegro di prima, sopraffatto dai fiumi di vino che gli scorrevano nelle vene, rischiava di cadere rovinosamente per terra e questa volta rompersi una gamba per davvero.

Ovviamente Sherlock non l'avrebbe permesso.


Trascinò il biondino in camera all'ultimo piano e lo mise con cura a letto.

Sbuffò infastidito, osservando come il più basso allungava le braccia cercando di ritrovare il caldo contatto di prima.

Holmes rimase un attimo a fissare il proprio inquilino, accigliandosi.

Non capiva il perché di quel piacevole peso all'altezza dello stomaco. Più guardava John e più la sua situazione andava peggiorando. Era per quello che nelle ultime settimane il giovane detective era diventato, se possibile, ancora più intrattabile e scorbutico del solito.


Era tutta colpa di Watson!


Era sempre stato un gioco da ragazzi notare le più piccole minuzie alle quali chiunque altro al posto suo non avrebbe dato molta importanza, oppure più probabilmente non se ne sarebbe neanche accorto.

Ma lui era Sherlock Holmes, nulla gli sfuggiva:


John lo guardava. E fin qui nulla di strano.

Lo guardava, lo osservava credendo di non essere visto -illuso!-. A volte il detective glielo lasciava credere, altre volte incrociava di proposito lo sguardo dell'altro e piantava i suoi occhi d'argento in quelli scuri del dottore, leggermente spalancati per la sorpresa.


John arrossiva. E fin qui nulla di strano.

John era il tipo di persona che quando si imbarazzava non era in grado di nasconderlo. Ma ciò capitava raramente, lui ci teneva a sembrare un uomo senza debolezze.

John arrossiva spesso solo quando si trattava del moretto. Accadeva soprattutto durante i suoi attenti esami a Sherlock, quando lo fissava come se avesse qualcosa da dire ma non lo faceva, come se una forza invisibile glielo impedisse. Allora l'altro intercettava i suoi occhi, e gli rivolgeva uno sguardo penetrante che aveva un effetto immediato sul viso di Watson. Le guance del dottore si coloravano di un tiepido rosso, il respiro - finora trattenuto per chissà quale motivo - diventava più veloce, la bocca si apriva e si richiudeva in un movimento buffo, e non sapendo cosa dire, John si precipitava fuori farfugliano qualche scusa incomprensibile.


E allora Sherlock rimaneva solo, chiedendosi perché il suo stomaco avesse fatto una capriola strana: eppure non aveva mangiato nulla, come sempre.

John era un soldato.

John lo seguiva sempre, ovunque, in ogni caso, anche in quello più spericolato. Aveva combattuto in Afghanistan, lui, le avventure con il detective più strampalato del mondo erano bazzecole in confronto.


Eppure Sherlock aveva paura. Una paura normale, una paura comprensibile. Il sentimento che proverebbe un qualsiasi essere umano vedendo un amico in pericolo.


Osservare impotente una pistola puntata alla tempia di John gli aveva fatto assaporare la vera sensazione di paura.

Per la prima volta aveva percepito il tempo bloccarsi e il mondo sussurargli crudele: “Beh, adesso come la mettiamo? Ti annoi ancora?”

Quella visione l'aveva turbato, per un attimo il suo sangue freddo e tutte le deduzioni geniali di cui andava tanto fiero erano andati a farsi friggere. Per la prima volta si era sentito davvero con le mani legate, spaesato e ansioso.


Moriarty l'avrebbe pagata.

Non era più una sfida, non era più un gioco.

Aveva osato toccare con le sue luride manacce la persona per lui più cara.

John era la persona più importante, era il suo primo e unico amico.

No, si sbagliava.

Lui non aveva amici, ma solo conoscenti. Forse Lestarde era l'unico che poteva avvicinarsi alla definizione di amicizia.

Ma se John non era nulla di tutto ciò, allora cos'era?


Sospirò e si avvicinò all'uomo più basso che continuava a cercarlo nella penombra come un bambino smarrito. Questi, una volta raggiunto l'obiettivo della sua ricerca, appoggiò il mento sul petto del moro mormorando il suo nome, ripetendolo con un sorriso innocente sulle labbra.


Holmes l'abbracciò stringendolo piano a sé, come per paura che da un momento all'altro John potesse svegliarsi da quello stato annebbiato in cui si trovava e rendersi conto delle sue azioni. Una paura irrazionale che fece sorridere il detective.


Era un idiota.

Era un idiota perché per la prima volta non aveva saputo - o non aveva voluto - collegare gli indizi del caso più importante che gli fosse mai capitato per le mani, del caso “John”. Non era stato in grado di cogliere i segni che il biondino inconsapevolmente gli aveva lanciato per tutto quel tempo.


Il dottore alzò la testa e fissò negli occhi il suo compagno. Sherlock abbassò lo sguardo quel tanto che bastava per specchiarsi in quegli occhi lucidi che gli rivolgevano un milione di domande inespresse.


Un altro sussurro, un'altra volta il suo nome pronunciato da quella bocca semiaperta. John cercò di muoversi ma il moretto lo tenne ben saldo. A causa della sbronza il suo viso manteneva un leggero rossore sulle guance accaldate ma, se possibile, Watson arrossì ancora di più, senza però mai interrompere il contatto visivo con l'investigatore.

Sherlock, dopo un attimo di esitazione, rallentò la presa e fece scivolare una mano sulla schiena dritta dell'ex soldato, accarezzandola, infilandosi lentamente sotto il maglione. John rabbrividì, lasciandosi sfuggire un piccolo gemito .


Sherlock si immobilizzò.

Se continuava così rischiava di perdere il controllo. Sarebbe stato così facile dimenticare per un attimo il mondo reale e lasciarsi andare alle sensazioni che non aveva mai provato prima.


Era sposato con il suo lavoro, così aveva sempre dichiarato quasi con orgoglio. Era stato troppo occupato nelle sue investigazioni, era sempre stato troppo preso a correre dietro agli psicopatici, non aveva tempo né tanto meno interesse nel ricercare una relazione con qualcuno: troppo noioso.


Provare tutti quei sentimenti che da tempo avevano cercato di avvertirlo, al ché lui aveva preferito ignorarli, scocciato, lo faceva sentire un perfetto idiota. Un idiota felice.

Ora gli toccava affrontare tutto insieme e al tempo stesso resistere all'impulso di spogliare sedutastante il suo ingenuo dottore che ora sembrava più vulnerabile che mai.

Chiuse gli occhi ascoltando il respiro regolare del dottore, si concesse un piccolo sorriso.


Desiderava solo assaggiare un pizzico di ciò che gli apparteneva. Solo un po'.

Le mani si fecero più audaci e, lente, cercavano di accarezzare più pelle possibile, gioendo dai piccoli brividi che le sue lunghe dita gelide procuravano al corpo teso di John.


Il calore della sua pelle era come un nuovo tipo di droga della quale Sherlock, già sapeva, non avrebbe più potuto fare a meno.


Erano seduti sul bordo del letto, in una posizione un po' scomoda, allora John, probabilmente senza nemmeno rendersi conto di ciò che faceva, si accomodò meglio tra le braccia del compagno mettendoglisi a cavalcioni.

Sherlock non riuscì a trattenere un gemito di apprezzamento. Sentiva che anche se, a differenza del dottore, non aveva bevuto nemmeno una goccia del vino pian piano si stava ubriacando della vicinanza così intima di John.


Watson alzò le braccia allacciandole dietro la nuca di Sherlock, attirandolo verso di sé sempre di più, come se avesse il timore che da un momento all'altro potesse dissolversi, allontanarsi, abbandonarlo.

Il moretto proseguiva il suo dettagliato percorso sulla pelle calda dell'uomo sopra di sé, soffermandosi sui suoi fianchi stretti. Percepiva il respiro profondo di John sulla sua guancia, le mani esitanti nei suoi capelli, sul suo viso, sopra la sua bocca.

Aprì gli occhi specchiandosi in quelli dell'altro, pieni di desiderio ma anche incerti sul da farsi. Leggeva chiaramente la voglia di quel contatto e mille pensieri contrastanti che passavano nella testa del suo “collega” che lo costringevano ad indugiare.


Allora decise di rendere le cose più facili e si sporse quel tanto che bastava per sfiorare le labbra invitanti di John con le proprie. Questi non si fece attendere a lungo e, incoraggiato, approfondì quella vicinanza.

Da prima si limitarono a toccarsi leggermente, piccoli baci a fior di labbra, poi Watson decise che non gli bastavano più, quindi leccò piano quella bocca impertinente chiedendo il permesso di osare di più.


Sherlock glielo lasciò fare, assaggiando finalmente il sapore dolce di John. Il bacio, all'inizio lento e incerto divenne profondo, passionale e umido. Il dottore intrufolò le mani sotto il capotto di Sherlock cercando goffamente di liberarlo da quell'indumento ingombrante senza però interrompere il bacio infuocato che stava togliendo il respiro ad entrambi. Le lunghe dita affusolate del detective si insinuarono oltre il bordo dei pantaloni del compagno.

Il bacio si interruppe, i due si fermarono senza cambiare posizione, riprendono faticosamente il respiro.


John sembrava smarrito.

Il moretto gli slacciò la cintura e abbassò la cerniera dei pantaloni per avere un maggior accesso alla sua pelle bollente, facendogli capire chiaramente le sue intenzioni.

Watson iniziò a tremare impercettibilmente.

Socchiuse gli occhi in attesa che Sherlock continuasse ma non successe nulla.


John non riusciva a spiegarsi perché all'improvviso aveva sentito scorrergli nel corpo l'esitazione, nonostante prima fosse partito in quarta a toccare e imprimere nella memoria ogni centimetro della pelle diafana dell'uomo.

Holmes, da eccellente osservatore qual era, aveva intuito il disagio dell'amante. Forse per quella sera si stavano spingendo un po' troppo oltre.

In fin dei conti John non era nemmeno del tutto cosciente di ciò che stava accadendo e di ciò che si lasciava fare tanto imprudentemente.


Pose fine alle preoccupazioni di John sigillando la sua bocca con la propria ancora una volta in un bacio lento ma deciso, dopo di ché lo spinse piano a sdraiarsi sotto di sé. Continuò a leccare le sue labbra, ad esplorare quella cavità calda con desiderio e curiosità. John si fece distrarre da quell'inattesa dolcezza e non si accorse che Sherlock aveva cominciato a spogliarlo.


La stanchezza e la sbronza si fecero sentire prepotentemente e lentamente il biondino si lasciò guidare dal detective, senza protestare.

Un rumoroso campanello cominciò a suonare da qualche parte troppo lontana della sua mente per poterlo sentire, avvertendolo che ora l'unico indumento che lo proteggeva dallo sguardo famelico di Sherlock erano i boxer, ma il dottore non vi badò, sentendo che le palpebre stavano diventando sempre più pesanti e la vista più appannata.

Non si curò nemmeno del fatto che il detective non indossava più il suo cappotto scuro, ma avvertì soltanto un veloce bacio sulla fronte e poi si arrese completamente alle maglie del sonno.


***


Il risveglio fu traumatizzante, in tutti i sensi. La testa gli martellava furiosamente e non aveva il coraggio di fare alcun tipo di movimento per non peggiorare la situazione.

Mugugnò qualcosa di incomprensibile, maledicendosi per aver perso il controllo così facilmente.


Era tutta colpa di Sherlock!


In quelle settimane l'aveva fatto letteralmente impazzire.

Sorvolando sulle sue solite abitudini e cioè: l'estraniarsi dal mondo, lasciarsi sopraffare dalle situazioni ignorando così tutto il resto, cacciarsi nei guai, mettere a rischio non solo la sua salute ma anche la sanità mentale di John.

Sorvolando su quelli e un altro centinaio di punti che farebbero diventare la lista alquanto lunga, in quell'ultimo periodo il moretto sembrava aver trovato un modo tutto nuovo per non annoiarsi. Watson era direttamente coinvolto.


John aveva pregato tutti gli dèi che il coinquilino non scoprisse i suoi veri sentimenti che andavano al di là di una semplice amicizia. E anche se era difficile da credere – Sherlock non finiva mai di stupirlo con le sue spettacolari deduzioni – eppure nel campo sentimentale, soprattutto se lo riguardava da vicino, era un principiante.


E così, dato che John non avrebbe mai avuto abbastanza coraggio di affrontare quell'argomento con il diretto interessato, non gli restava che fuggire con la coda tra le gambe.

Ma c'erano stati dei momenti in cui il moretto lo fissava con il suo sguardo da “Ho capito tutto” e allora John andava in panico e rischiava di commettere qualche sciocchezza, come ad esempio parlare apertamente con la fonte del suo “problema”.

Poi però non succedeva nulla e tutti e due continuavano a comportarsi come sempre.


Si era creata una strana tensione tra i due che spesso sfociava nel continuo litigare, facendolo esasperare, in quanto non riusciva più a reggere quella situazione.


E fu così che si permise di alzare il gomito e lasciarsi andare, almeno quella sera, solo per quella volta. Ora, giustamente, doveva affrontare le conseguenze.

In cambio però aveva fatto un sogno magnifico del quale purtroppo non riusciva a ricordare il finale. Si era interrotto sul più bello, proprio mentre Sherlock stava per... ah, dov'era Sherlock?


Si alzò lentamente, senza fare movimenti bruschi il ché comunque non gli evitò una fitta dolorosa alla testa. Strinse gli occhi con forza tenendosi la fronte con una mano mentre con l'altra cercava l'interruttore della luce.


Riaprì un occhio avvertendo dei leggeri passi provenienti dal corridoio, che nella sua testa rimbombarono come dei martelli.

Poi la porta si aprì e dopo un paio di secondi di assoluto silenzio in cui una figura alta e scura rimase ad osservarlo dalla soglia, Sherlock entrò andando subito ad aprire le tende che nascondevano la luce del nuovo giorno.

John, abituato alla penombra di prima, chiuse di nuovo gli occhi, emettendo un leggero sospiro.


Ti sei svegliato finalmente. L'attesa era snervante.” parlò per primo, incrociando le braccia.

John si sentì in difficoltà. Era strano vedere Sherlock nella sua stanza, non ci entrava quasi mai.

Buongiorno anche a te.” commentò sarcastico, e tirandosi a sedere si accorse di non avere addosso praticamente nulla - non ricordava di essersi spogliato, ma poi a malapena si reggeva in piedi, come aveva fatto?


Ancora non riesci a ricordarti nulla della sera precedente a causa della sbronza, ma stai per arrivarci.”

Arrivarci a cosa?” bofonchiò l'altro cercando di capire qualcosa dalla sua espressione del viso, ma il detective rimaneva bloccato davanti alla finestra e la luce alle sue spalle impediva al dottore di vedere alcunché.


Arrivarci che sono stato io a toglierti i vestiti.” rispose con un tono di voce tranquillo e professionale come quello che usava nel suo lavoro.


John arrossì furiosamente trovando estremamente interessante il tavolino con sopra una lampada alla sua destra.

Ah... ti ringrazio. Mi dispiace se ieri sono stato un peso.” asserì chiedendosi perché Sherlock non era impegnato in un qualche suo esperimento strampalato oppure a correre per tutta Londra dietro ai criminali vari.


Beh veramente no, non sei pesante, ma la prossima volta preferirei stare sopra.” affermò in tono malizioso.


John lo guardò con gli occhi fuori dalle orbite, scioccato al punto che gli ci vollero un paio di minuti per smettere di boccheggiare a vuoto e di dire qualcosa di sensato.


Oddio, che cosa ho fatto?!” chiese più a se stesso che all’altro rendendosi pericolosamente conto che il sogno che aveva fatto era tutt'altro che frutto della sua immaginazione.

Poi una strana, improvvisa consapevolezza si fece largo nella sua testa.


Si accorse che l'oggetto dei suoi pensieri gli si era fatto più vicino, accomodandosi su un bordo del letto, nel posto esatto in cui solo poche ore fa avevano condiviso intime carezze e baci passionali.


Adesso hai capito?” domandò il detective incollando il proprio sguardo pieno di significati in quello dell'altro.

La sua espressione non tradiva alcun sentimento, per John sarebbe stato difficile leggergli dentro, ma l'intonazione della sua voce, così calda e lenta, gli fece capire che non servivano altre parole.



***



Fine.






Note: Questa è la mia prima fanfiction su Sherlock, spero di essere riuscita a strappare almeno un sorriso a coloro che si sono avventurati a leggerla.

Chiedo gentilmente di lasciare un commento, anche piccolo, con i vostri pareri/consigli/critiche :)


Un mega grazie a Namida!




Buon fine settimana a tutti!

   
 
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