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Autore: ladygiucchan    23/01/2011    6 recensioni
Le rose sono bellissime, ma le spine sono terribili.
Si conficcano nella carne e difficilmente ne escono.
Le ferite potranno anche rimarginarsi, ma le cicatrici resteranno sempre.
Tu le vedrai sempre.

Francis Bonnefoy / Arthur Kirkland
Il mio primo tentativo di longfic FrUk. Ambientata in un AU. Rating giallo, per ora. Se deciderò di scendere nei dettagli delle scene hot lo cambierò. Non so cosa ne verrà fuori...Io ci ho provato! In particolare, è dedicata al mio amato gruppetto di FrUkkettone ♥
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Prologo- The longest winter without you




<< Vattene, non voglio vederti mai più! >>

<< Arthùr, ti prego, dammi una possibilità.>>

<< Fuori di qui, ho detto! Vattene via!>>

<< Arthùr...>>

<< Fuori!>>

Hai scatenato l’ennesima lite stupida, la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Non ne potevi più.

Hai fatto a pezzi il suo stupido mazzo di rose, ti sanguinano le mani.

Hai infranto un bicchiere di vetro scagliandolo contro il muro.

Hai urlato fino a sentire la testa scoppiare dal dolore, ora non hai più voce.

Gli hai anche dato del bugiardo, quando qui l'unico che mente a sé stesso sei tu.

L’hai visto sull'orlo del pianto e avresti preferito morire.

Nonostante tutto questo, lo stai letteralmente sbattendo fuori di casa.

<< Io ti amo, non riesco a stare senz->>

<< Sparisci dalla mia vita!>>

Sbatti la porta. Sbatti la porta e non riesci a frenare un fiume in piena di risentimento, guardandoti le mani sfregiate dai tagli.

Le rose sono bellissime, ma le spine sono terribili.
Si conficcano nella carne e difficilmente ne escono.
Le ferite potranno anche rimarginarsi, ma le cicatrici resteranno sempre.

Tu le vedrai sempre.

 



Era una serata londinese come tante, ai limiti del banale: grigia e tristissima.
Una fitta cortina di nuvole nascondeva il cielo, mentre i primi fiocchi di neve toccavano terra e si scioglievano a contatto con l’asfalto bagnato.
Arthur Kirkland era solo con sé stesso, proprio come riteneva di essere sempre stato. Quella sera, tutta la poesia e la malinconica bellezza della sua amatissima Londra gli sembravano spente, dannatamente già viste e oppressive.
Era certo che se la sarebbe cavata alla grande, con la sua solitudine. Anzi: spesso e volentieri, tendeva a tenersela stretta con le unghie e con i denti... Ma adesso, adesso che non aveva più nessuno a combattere per fargli mollare la presa, gli pesava.

Specialmente quando, a quell'insistenza nell'invadere i suoi spazi e la sua vita, si era affezionato fin troppo.


Gli mancava, quell’idiota.
Gli mancava eccome, maledizione.
Da quanto era che non si vedevano?
Da quando hai buttato fuori da casa tua a calci nel culo, gli suggerì una vocina bastarda nella mente.
Tre mesi. O forse quattro.

Un intero inverno senza di lui.

L’inverno più interminabile e vuoto della sua vita.

Che avesse preso alla lettera il suo “suggerimento” di non farsi più vedere né sentire? Impossibile, conoscendolo.. Eppure...

Nonostante la strada fosse deserta, lui continuava imperterrito a camminare, calpestando le foglie secche del parco che da un po' di tempo si limitava semplicemente ad osservare dalla finestra di casa sua. Ogni volta che lo faceva, magari davanti ad una consolante tazza di \tea\ o un libro aperto alla stessa pagina da settimane, pensava a quando un qualunque spettatore, da quella stessa finestra, avrebbe potuto vederlo in compagnia di un'altra persona, ed assistere alla lotta tra il suo orgoglio e il desiderio reciproco di prendersi per mano.
Rabbrividì violentemente, sfregando i palmi tra di loro per tentare invano di riscaldarsi. Un'improvvisa sensazione di vuoto all’altezza del petto lo fece deglutire più volte, senza risultato.
Le dita erano congelate, così come le gote e la punta del naso, intirizzite dal freddo.
Un freddo da togliere il fiato.

Alzò il viso arrossato per guardare il cielo, chiuso in quella malinconia tutta sua della quale non poteva fare a meno.
Sentì dei passi alle sue spalle, ma non se ne curò. O almeno, finché una mano sorprendentemente calda non si poggiò all’improvviso sul suo collo, facendolo sussultare. Fece per voltarsi, ma una voce fin troppo conosciuta lo precedette.

<< Cosa ci fai tutto solo in una serata così fredda, mon Arthùr? >>

Nel sentire quell’accento francese, che solitamente aveva il potere di irritarlo a morte, fu sopraffatto da un’improvvisa voglia di urlare.
Inizialmente dalla gioia.

“No, non può essere veramente lui, deve trattarsi di un’ allucinazione. Di uno scherzo della mia mente... forse sto sognando. E’ sicuramente la mia immaginazione.”

...Poi dalla rabbia.

“Dove cazzo è stato per tutto questo tempo, mentre avevo bisogno di lui?
Non mi ha mai dato ascolto, mai, possibile che abbia deciso di farlo solo quando gli ho detto di scomparire dalla mia vista?


Il pensiero che fosse stata colpa sua, quel pensiero che lo aveva tormentato per tutto il tempo in cui erano stati lontani, non lo sfiorò neanche per un attimo, in quel momento.
Si girò di scatto, con i denti digrignati.

<< Cosa diavolo ci fai tu qui? Ti avevo detto di non farti più vedere! >>

L’altro non rispose subito: gli sorrise, posandogli una mano sul braccio come ad un amico di vecchia data.

<< Oh, ero di passaggio. >>

“Bugiardo. Idiota. Stronzo.
... Mi sei mancato.”


Arthur scrollò le spalle per allontanare la mano e abbassò lo sguardo, facendo a pugni con una sensazione crescente di disagio.

<< Lasciami in pace, Francis. >>

Mugugnò divincolandosi. Le dita del francese tentarono di sfiorargli la guancia, ma Arthur le schiaffò via.

<< Ho detto. Lasciami. In. Pace. >>

Seguì qualche secondo di silenzio imbarazzato.
Silenzio di chi ha troppo da dire.
...Ma non può.

<< Vuoi davvero che me ne vada, cher? >>

<< Non chiamarmi in questo modo.>>

Lapidario. Rancoroso.
Gli sembrava impossibile che fosse veramente lì, e allo stesso tempo gli sembrava impossibile che fosse stato assente per tutto quel tempo.
Francis rise sottovoce, e si sedette a gambe accavallate su una panchina.
Sembrava tranquillo. A differenza di lui. Possibile che non avesse sentito neanche un po’ la sua mancanza, mentre lui ne moriva giorno dopo giorno?
Arthur incrociò le braccia al petto, sbuffando esasperato.

“Freddo, freddo, freddo.”

Un groppo in gola. Lo stomaco annodato. La testa che gira.

Qualcosa gli suggerì di sedersi accanto a lui, e allora lo fece.
Ovviamente a debita distanza.
Aveva troppo freddo per restare in piedi fino a diventare un ghiacciolo con le gambe atrofizzate.

<< ... alors, chenille? >> insistette Francis, guardandolo di sottecchi con un mezzo sorriso.

<< Ti ho appena detto di non affibbiarmi soprannomi stupidi.>>

“Come se fosse quello il problema.”

Restarono in silenzio per un po’.

Nel silenzio, ogni tanto Arthur si voltava a guardarlo.
Se si accorgeva di essere osservato a sua volta, faceva finta di nulla e abbassava di nuovo lo sguardo, nervoso.

<< Non mi dici nulla? Ed io che sono venuto fin qui solo per rivederti...>>

Se solo avesse saputo quante cose avrebbe voluto dirgli.

<< Chiudi quella boccaccia!>> berciò l’inglese, voltandosi dall’altra parte con aria ostinata.

Improvvisamente, entrambi sembravano aver dimenticato che in teoria non dovevano vedersi mai più. 

Ridicolo. Impossibile.

Il francese allungò un braccio, cauto, a circondargli le spalle.

<< Giù le mani, dannato schifoso.>>

<< Mais, Arthùr, sei congelato! – protestò lui, con apparente, sconcertante nonchalance – Lascia che ti riscaldi... >>

Arthur lo guardò con gli occhi sgranati: non era affatto cambiato.

<< Puoi scordartelo!>>

Francis non gli diede retta.

Improvvisamente lo strinse a sé, abbastanza forte da non farlo divincolare e abbastanza dolcemente da farlo innervosire ulteriormente. E indurlo a pregare che quell'improvviso calore salitogli alle guance non si notasse più di tanto.
Prese a fissarsi la punta delle scarpe, nel tentativo di non fargli scorgere la sua espressione.
Sentiva uno strano, insopportabile formicolio alla bocca dello stomaco.
Ultimamente, nonostante l'avesse negato a sé stesso fino allo stremo, aveva avuto troppo spesso bisogno di un abbraccio.
Di un suo abbraccio.

“Ho freddo. Ecco perché sto tremando. Tremo per il freddo, tutto qui.

Il freddo si trasformò in un brivido che lo scosse da capo a piedi, quando sentì le labbra calde del francese sulla guancia.
Chiuse gli occhi e voltò la testa per incontrarle.
Le sentì schiudersi contro le proprie, gelide, e il suo cuore perse un battito.

<< Mi sei mancato.>>

Ok, forse un paio.

<< ‘missed you too, Frog. >>

So fucking much.

Francis appoggiò la punta del naso contro la sua, poi inclinò il viso.
La sua presa ferma sulla nuca lo fece rabbrividire.
Dischiuse la bocca con un sospiro per accogliere la lingua del francese, che andò subito ad accarezzare la sua, mentre tutto ad un tratto non era più il vento gelido tra i capelli a farlo tremare.
Si baciarono come non facevano da troppo tempo.

<< Potrai perdonarmi?>> sussurrò Francis al suo orecchio.

Lui non rispose, qualcosa gli si ruppe dentro.
Si alzò e lo guardò scuotendo la testa. Francis gli afferrò il polso, prevedendo la sua reazione, ma Arthur lo dimenò con forza e corse via, col vento gelido che gli frustava il viso, come aveva visto fare solo in qualche squallido film sentimentale di quart’ordine.

Gli stava chiedendo troppo.
Sapeva che non l’avrebbe perdonato facilmente. Che avrebbero litigato a morte ancora e ancora. Ma sapeva anche che, ora che aveva fatto ritorno, non l’avrebbe più lasciato andare tanto facilmente. 
  
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