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Autore: Shadowolf    25/01/2011    4 recensioni
New York City, fine anni '20. L'era del proibizionismo è al suo punto di massimo splendore, come anche il commercio illegale di armi e alcool. Le forze di polizia, dilaniate al loro stesso interno da spie e fughe di notizie, tentano di reagire come meglio possono, senza in realtà fare molto. Toccherà ad un nuovo procuratore con poteri di polizia istituire una task force di cadetti, in grado di contrastare il potere assoluto delle gang.
Genere: Azione, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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DARKNESS ON THE EDGE OF TOWN

 

Sono sempre stato convinto dell’esistenza di un punto di svolta, nella vita di ogni singolo individuo. Spesso minimo, graduale, forse addirittura scontato. Ma c’è, ed è un dato di fatto, almeno a mio modesto parere. Parlo di quel preciso momento in cui, impercettibilmente, tutto comincia a cambiare, intorno a noi. In meglio o in peggio, non ci è dato saperlo. Fatto sta che avviene, e le conseguenze di quel singolo attimo si ripercuoteranno poi in ogni piccolo gesto e sfumatura della nostra vita futura. È una labile zona di confine tra ciò che avviene prima e ciò che c’è dopo. Ed è impossibile da cambiare, o da prevedere. Perché è un attimo, e il momento dopo è già passato, diventando immutabile, diventando parte di ciò che siamo.
Pensandoci ora, credo che il mio sia stato una conseguenza del giorno in cui un ragazzo poco più grande di me prese a tormentarmi all’entrata di scuola, rubandomi giorno dopo giorno il panino tutto schiacciato che mia madre mi preparava come pranzo. Ero mingherlino all’epoca, e la sola idea di dovermi battere con un altro individuo, per giunta dal fisico molto più atletico e sviluppato del mio, mi metteva semplicemente i brividi addosso. Così ogni giorno percorrevo sconsolato i cinque isolati che separavano il buco che chiamavamo casa dall’edificio in mattoni bianchi e sporchi dove si tenevano le lezioni, già abituato all’idea di dover salutare il mio misero panino. E lui era lì, ogni volta, ad aspettarmi. Non lo dimenticherò mai. Il taglio militare, l’aria da teppista di strada della peggior specie. Le mani in tasca, un piede appoggiato al muro, il ghigno cattivo di chi sapeva il fatto suo perennemente stampato sul volto. Come mi adocchiava, appena giravo l’angolo, mutava posizione, si metteva in attesa. Sapeva che sarei arrivato, sempre in perfetto orario, e non si curava nemmeno di nascondere i suoi movimenti, talmente tanto era sicuro di sé. Avrei dato qualsiasi cosa per essere almeno un po’ come lui. Per avere la sua sicurezza, la sua spavalderia, il suo portamento fiero. Avevo quattordici anni, e sapevo abbastanza della vita di strada per capire che mi sarebbe convenuto non tentare il minimo cenno di ribellione nei suoi confronti, se non volevo ritrovarmi con qualche dente in meno e ferite da taglio qua e là. Mai una volta tentai di oppormi al suo dominio incontrastato su di me, ed ogni giorno, sempre più rassegnato, gli consegnavo il mio pranzo.
Questo andò avanti per un paio di anni, fin quando una mattina trovammo le porte dell’edificio chiuse a causa del forte temporale che aveva colpito la città per tutta la notte prima. Girai sui tacchi, diretto di nuovo a casa, e fu allora che vidi l’ombra di Mark – si chiamava così – sgusciare via, prendere una stradina secondaria e sparire velocemente alla mia vista. Ovviamente non mi misi a seguirlo (l’idea non mi toccò neppure minimamente), ma il destino volle che me lo ritrovassi più o meno di fronte un isolato più in là; lui non mi vide, ma dalla mia posizione io riuscivo a scorgerlo piuttosto bene. Bussò alla porta di una casa alquanto scapestrata (intravedevo una finestra scheggiata, e dubitavo che in quelle condizioni potessero permettersi qualsivoglia stufa), e dopo qualche secondo ne uscì fuori una vecchietta, bassa e curva, appoggiata ad un bastone anch’esso piuttosto malconcio; protese subito le mani in avanti, gesto che mi dette la sicurezza che fosse effettivamente cieca. Con un gesto ai miei occhi sorprendente e pieno di una tenerezza che non sapevo potesse appartenere a quello stesso ragazzo che si divertiva a terrorizzarmi ogni giorno, Mark abbracciò la vecchietta, e le mise in mano il mio panino, assicurandosi che lo tenesse ben stretto. Dopodiché le lasciò un bacio leggero sulla guancia e si rincamminò per la stessa strada dalla quale era venuto.
Ecco, credo sia stato questo il punto di svolta della mia vita. Perché in quel momento lì capii una lezione che mi sarebbe servita molte volte in futuro, e soprattutto in un’occasione. Capii che ogni persona nasconde dentro un altro lato di sé, un lato che spesso, per esigenza, o più semplicemente per abitudine, rimane sommerso, addormentato in un angolo remoto della sua anima. Non vederlo non significa che questo non esiste. E né che è invisibile. È soltanto messo da parte.
 
Finita la mia breve carriera scolastica, in parte per la mia assai scarsa attitudine ad impegnarmi in qualsivoglia materia, in parte per le difficoltà economiche in cui mio padre si ritrovò in quegli anni per via del suo licenziamento alla fabbrica che aveva servito per tanto tempo, passai senza soluzione alcuna di continuità da un lavoro all’altro, senza trovare qualcosa che mi piacesse davvero. Quando il nostro paese entrò in guerra, fui chiamato al fronte, e anche se non ero particolarmente astuto, o coraggioso, riuscii a cavarmela anche quella volta, riportando tutto sommato poche ferite sparse al braccio, niente di troppo grave, solo qualche cicatrice che mi sarebbe rimasta addosso per tutta la vita. Ma vidi alcuni dei miei commilitoni morire in atti di eroismo che mai mi sarebbero potuti appartenere, e dentro di me sentivo che fino a quel momento avevo sprecato la mia vita, inutilmente, alla ricerca di un posto nel mondo che mi appariva quanto mai precario e troppo difficile da raggiungere, per un tipo come me. Sul campo di battaglia appresi un’altra importante lezione di vita, l’importanza di non sprecare neanche un minuto interrogandosi su questioni che per loro stesso essere non potranno mai avere la risposta che tu immagini. Così una notte feci una promessa a me stesso. Mentre stavo rannicchiato in trincea, fuori ad un piccolissimo e sperduto paesino nella campagna francese, decisi che se fossi riuscito a ritornare a casa avrei cominciato a rendermi utile al prossimo, in un modo o nell’altro. Non sapevo di preciso come, ma avevo tutte le intenzioni di farlo.
Quattro anni dopo, entrai nella forza di polizia come cadetto. La mia esperienza sul campo di battaglia europeo e la grande richiesta di allievi in quel campo mi permisero di completare il mio addestramento nel giro di un paio di settimane, così che dopo solo un mese di pratica fui subito promosso al lavoro di pattugliamento a piedi per le strade. Nel farmi avere quell’impiego giocò molto il fatto che fossi nato e cresciuto in città, e che quindi quei posti li conoscessi bene come le mie tasche. “Serve gente come te”, mi dissero “Perché quei bastardi si nascondono dovunque, e serve un topo di fogna per stanarli.” Non era un gran complimento, ripensandoci adesso. Avrei dovuto rendermene conto subito, considerato che nessuno in vita mia me ne aveva mai fatto uno. Ma a quel tempo era tutto nuovo per me, e l’aver fatto “carriera” così in fretta in qualche modo mi dava la carica e l’entusiasmo giusti per ignorare quel dettaglio e prendere ogni cosa che mi veniva detta nel miglior modo possibile. Per la prima volta in tutta la mia vita, ero fiero di me stesso. Non stavo scappando dalle responsabilità come al mio solito, stavo fermo ed aspettavo che mi colpissero, senza curarmi di quanto male avrebbero potuto farmi. I miei genitori erano orgogliosi  di me, mi dissero che finalmente avevo capito l’importanza di darci un taglio con lo sperperio di tempo, e che adesso che avevo ottenuto un lavoro avrei potuto anche cominciare a pensare a tirar su famiglia, a farmi una vita tutta mia.
Anche quella prospettiva mi eccitava parecchio. Fino a quel momento non l’avevo mai seriamente considerata perché non avendo un salario non avrei mai sopportato la prospettiva di lasciar morire di fame mia moglie e mio figlio. Sì, volevo anche un figlio, adesso. Un giorno l’avrei portato in ufficio con me e lui avrebbe visto i miei colleghi salutarmi, e sorridermi, e rispettarmi. Sarebbe cresciuto in una bella e modesta casa in un quartiere perbene di quella che muoveva i suoi primi passi per diventare la più importante città del mondo. Sarebbe andato a scuola e avrebbe lottato se qualcuno più grande di lui gli avesse tolto il pranzo ogni singolo giorno. Si sarebbe fatto valere, perché avrebbe visto a suo padre come ad un modello di riferimento, qualcuno con un lavoro onesto, che era contento di quel che la vita gli aveva donato. Ed io sarei stato fiero anche di quel piccolo me, perché lui non avrebbe ripetuto i miei stessi errori, sarebbe stato più intelligente di suo padre. Gli si sarebbero aperte tutte le porte che il mondo pazzo e spensierato di quel periodo stava promettendo a tutti.
Fu un periodo di eccitazione e di fermento, tutti credevano in un futuro migliore, pieno di ricchezza e di opportunità. Avevamo vinto la guerra, forse unico paese ad uscire vittorioso da tutto quell’enorme casino che gli europei avevano combinato in casa loro. La radio ci diceva che l’avevamo fatta da padroni, e che tutti ci rispettavano, e forse anche un po’ temevano. Stavamo rapidamente crescendo, salendo alla ribalta dell’attenzione di tutte le altre nazioni; ci dicevano che la nostra industria era la più forte, la più avanzata, e che presto ogni cittadino americano onesto avrebbe beneficiato dei frutti del sacrificio collettivo. Le strade cominciarono a riempirsi sempre più di automobili, e la radio entrò in ogni casa di quella parte di popolazione che aveva un posto di lavoro stabile. Le case dei ricchi brulicavano ogni sera di luci, di gioielli e di cibo, e qualche volta, di ritorno dal turno di pattuglia, mi fermavo per una manciata di minuti ad osservare quella parte di mondo che sapevo non mi si sarebbe mai potuta aprire davanti. Ma non ero invidioso, quello non ero io, né lo sarei mai potuto diventare. Ero contento di me stesso, soddisfatto delle mie scelte e dei miei obiettivi. Auguravo loro tutto il meglio possibile, poi giravo sui tacchi e me ne ritornavo al mio appartamento, addormentandomi ogni sera con la certezza che il domani mi avrebbe riservato sorprese migliori.
Nei quattro anni successivi continuai a svolgere il mio compito diligentemente, credendo alle promesse dei miei superiori che una promozione sarebbe presto arrivata, ad encomio della mia immacolata condizione di servizio. L’aspettavo con una certa impazienza perché mi avrebbe garantito quel po’ di denaro in più che mi era necessario per impegnarmi ufficialmente con la ragazza che da quasi un anno frequentavo, comprandole un anello di fidanzamento e permettendomi di cominciare a pensare seriamente ad una prospettiva futura insieme a lei. L’avevo conosciuta una sera durante un controllo di routine ad un bar del West Side, ci eravamo piaciuti ed avevamo cominciato a rivederci ogni sabato sera che avevo libero. Non avevo mai avuto frequentazioni fisse in vita mia, le poche erano state anche sporadiche, e solo con lei avevo provato ad immaginare qualcosa di veramente diverso.
Poi quel momento finalmente arrivò. Uno dei miei capi mi fermò in corridoio e mi prese da parte, e con un gran sorriso mi comunicò che quello era il mio giorno fortunato. Uno nuovo in città, esperto del mestiere e dal curriculum impeccabile, era stato “messo a capo di una task force creata appositamente per stanare il cancro di questa nostra gloriosa città” (queste furono le sue esatte parole, che non potrò mai scordare), e aveva chiesto esplicitamente di me quale suo collaboratore. Fossi stato leggermente più furbo avrei almeno intuito che quel tipo lì mi stava raccontando una montagna di stronzate. Che non ero nemmeno così vagamente famoso da meritare tutte quelle attenzioni da parte di alcuno, lasciamo stare di uno “nuovo in città”.
Ma in quel momento lì ero troppo su di giri per realizzare anche solo una parte di tutto questo. Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Qualcuno aveva chiesto di me. Qualcuno mi voleva al suo fianco. Essere in una task force poi significava dover ricoprire un incarico di prestigio, essere in un gruppo speciale. Senza contare che avrei finalmente potuto chiedere Susan in sposa.
Così gli stinsi forte la mano e gli dissi che non riuscivo a credere che la mia promozione fosse finalmente arrivata, e che avrei fatto tutto il possibile perché nessuno restasse deluso da me. Mi diede una gran pacca sulla spalla e si congedò confidandomi che tutti credevano in me, e si aspettavano grandi cose. Corsi a casa a dirlo ai miei genitori, ed insieme festeggiammo come fosse Natale.
Era il 3 Settembre 1928, e nessuno aveva idea di quanto quel nostro mondo ruggente si stesse pian piano avviando verso la sua ingloriosa ed inesorabile fine.



AUTHOR'S CORNER: Mkay, questa come tutti sapete è la mia prima AU, quindi è una specie di esperimento, solo perchè mi è venuta l'idea guardando The Untouchables di Brian De Palma. Giusto per spiegare un po' di cose, la scelta del setting non è propriamente casuale. Un po' perchè il mio regista preferito è Martin Scorsese, un po' perchè comunque questo genere di cose mi interessava anche prima, l'idea mi è venuta su molto facilmente e soprattutto ha resistito ai mille personali pitch a cui io stessa l'ho sottoposta xD
Anyway, così per dovere di ispirazione, pago un grosso debito al mio secondo film preferito in assoluto, Once Upon A Time In America di Sergio Leone, a Goodfellas di Martin Scorsese, e ovviamente alla trilogia de Il Padrino di Francis Ford Coppola, giusto per citare i più evidenti.
Dovrei fare un banner, tendenzialmente, ma adesso non ho testa da sbatterci, quindi al massimo poi lo posto. Però ecco, dato che la parte visiva vuole la sua parte, vi lascio la foto di Rob così come sarà nel corso della storia. Al 3 Settembre 1928 ha 28 anni, ma dato che è stato in guerra e in quel periodo la costituzione delle persone non era quella attuale (per non parlare dell'aspettativa di vita) diciamo che sembra un po' più grande.
Scusate la verbosità del capitolo, ma me ne serviva uno di introduzione (più avanti capirete il perchè), e dato che - ovviamente e abbastanza scontatamente - il POV sarà quello di Rob, mi sembrava giusto fare il punto della sua situazione personale prima di avviare il discorso.

La mia socia l'ha letta in anteprima e mi ha detto che la intriga, ma a parte questo, quando qualche settimana fa mi venne l'idea gliene parlai e mi disse di farlo, ed io son stata lì a rimurginarci un po' su fino a quando non me ne sono convinta, quindi gliela dedico tutta, sperando che le piacerà fino alla fine. :3
   
 
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