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Autore: yesterday    30/01/2011    4 recensioni
Sole Lancaster ha le sue tattiche per chiudere gli occhi di fronte alla realtà.
Anche Damian Foster ha le sue tattiche, ma questo Sole non lo sa.
Quando i problemi arrivano tutti in un colpo solo: il tuo ragazzo ti tradisce, sei obbligata a lavorare con lui e l'ascensore si blocca.
Con voi due all'interno.
Storia classificatasi Prima al contest "Adorabilmente bastardi" indetto da superkiki92 e ro-chan sul forum di EFP.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: yesterday
Titolo: Tattiche.
Espressione scelta: 14. “Non è il nostro posto speciale, questo?”
Rating: Giallo.
Genere: Sentimentale, Romantico, Commedia.
Avvertimenti: OS.
Personaggi/Pairing(s): Sole/Damian (originali)








Tattiche.


 




Tried to break my heart
Well it’s broke
Tried to hang me high
Well I’m choked
(The Script - The end where I begin)





« Sole. Sinceramente, lasciatelo dire, te la prendi troppo. Capisco il rancore, la delusione, la sofferenza. Capisco tutto — ma sono passati quasi due anni, per la miseria. » Dani Adams è sempre stata una buona amica, perlomeno è ciò che ho sempre pensato.
Ma capitava, a volte — capitava spesso, diciamolo senza troppi giri di parole — che non riuscissimo a comunicare. O almeno. Io parlavo, lei non capiva, e senza dubbio la cosa era reciproca, anche se non ricordo alcun episodio in cui… Oh, lasciamo perdere.
« Come puoi dirmi questo, Dani? » sbraitai in tono tragico, lanciando all’aria i fogli dell’ultima bozza per l’articolo socio-economico della settimana successiva « Sono cose morte, non si torna indietro. »
La bozza era poco convincente — se la ditta di pulizie ne avesse fatto un falò non sarebbe stata una gran perdita — ma m’inginocchiai comunque a raccogliere la decina di fotocopie sparse sul pavimento di linoleum grigio.
Era pura tattica: da sotto la scrivania i rumori giungevano più ovattati. Canticchiando mentalmente Yellow Submarine, in aggiunta, sarei riuscita a distrarmi quanto bastava a non sentire una sola parola del discorso che sarebbe uscito dalla bocca della mia saggia amica-collega.
Discorso che meritava l’articolo determinativo e la Capital Letter, ad un certo punto, data la frequenza con cui veniva pronunciato — giorno dopo giorno dopo giorno dopo dannatissimo giorno.
We all live in yell-
« Guardalo. Si sta consumando come una candela pur di farti capire di aver compreso il suo errore. Dagli una seconda possibilità, Sole, Damian ti ama. »
Come ogni altro stupidissimo giorno, non ero riuscita ad iniziare a canticchiare in tempo. E la scrivania non aveva mantenuto la sua soffice promessa di ovattare la voce.
Poggiai il malloppo accanto alla tastiera, pronta a recitare la mia risposta quotidiana.
« Damian non mi ama. Damian mi ha tradita — e chi ama non tradisce, poiché ha già tutto ciò di cui ha bisogno. »
« Oh » gli smeraldi chiari si alzarono in direzione delle oblunghe lampade al neon « mi par d’averla letta da qualche parte. Che so… Facebook? »
Mi morsi il labbro inferiore ed abbassai lo sguardo. Insomma, non l’avevo letta su Facebook, quella dannata frase, ma la stoccata era abbastanza chiara da farmi capire di star rasentando il ridicolo.
« Quello che voglio dirti è che sì, chi ama dovrebbe già avere tutto ciò di cui ha bisogno e quindi non tradire, ma… Le persone possono sbagliare. Damian ha sbagliato, e te l’ha confessato subito con le lacrime agli occhi. Non passa giorno in cui non ti lanci quello sguardo pentito e amareggiato e triste e… »
« E no, Dani. La faccenda è sempre stata chiara tra noi: se c’era qualcosa che non gli avrei mai perdonato era il tradimento. Lui mi ha tradita — il resto non conta. Non voglio parlarne più. »
Mi pesavano, quelle discussioni. Mi pesavano perché, oltre ad essere monotone, ripetitive e sfiancanti, mi riproponevano una vivida immagine di ciò che Daniela si ostinava a chiamare quello-sguardo.
Quello-sguardo in sala fotocopie. Lo sfiorarsi in corridoio, il raccogliere la mia matita sul pavimento, i post-it proprio sulla mia scrivania — tutti gesti casuali. Almeno in apparenza.
E facevano scalpitare quella consapevolezza che mi ostinavo continuamente a rinchiudere nel petto: io non l’avevo dimenticato.
Non è mai facile lasciarsi scivolare addosso una storia di quattro anni, proprio no. Non sono mai stata tanto sciocca da pretenderlo, ma se non altro mi era chiaro di non esserne ancora uscita.
Passavo il mio tempo a sputargli addosso veleno, rimproverarlo, fingere di ignorarlo e talvolta maledirlo (i miei tristi venerdì sera a tre: io, vaschetta di gelato all’amarena, film piagnucoloso), ed era proprio quello il problema: la mia vita continuava a ruotargli attorno, quasi fosse un centro gravitazionale.
Quasi fosse lui il mio Sole personale, e non potessi far altro che guardarlo in ogni suo aspetto — girando, girando, girando — per sempre. Come la Terra.
Per quanto mi ostinassi a negarlo, inoltre, era abbastanza chiaro che quei due anni non avevano fatto scemare nemmeno di un soffio il sentimento che provavo nei suoi confronti — avrei potuto perdonarlo. Io ne ero consapevole.
Consapevole ma incapace. Il non riuscire a fidarsi delle persone che si ama è una brutta bestia, paragonabile alla gelosia se non peggio. La gelosia è in grado di far fare cose, per quanto esagerate, spropositate, azzardate.
La mancanza di fiducia lo impedisce completamente.
« Come vuoi, ma sappi che ne riparleremo. » una breve occhiata verso il Campo Minato, un sospiro « Stuart ti vuole nel suo ufficio, comunque. Mi ha appena fatto cenno di farti passare. »
L’ironia di Daniela era sempre stata sottile. Come il definire “Campo Minato” l’ufficio del nostro Direttore. Appiccicava un’etichetta degna di tempi di guerra a tutta la faccenda.
Il che, a volte, calzava realmente a pennello, in special modo con lei. Josh Patrick Stuart, il Capo, era famoso per la sua voce grossa - che usava praticamente solo con Dani, senza un motivo preciso.
Lei bollava il tutto molto facilmente: “carica sessuale repressa, mia cara, ecco cos’è. Chi disprezza compra. Ma può continuare ad aspettare, io non sono in vendita.”
E l’occhiata con cui accompagnò l’indice che puntava verso l’ufficio sembrò pronunciare le stesse parole ad alta voce anche quel giorno.


***

« No, mi dispiace signore, mi trovo costretta a rifiutare » cercai di moderare il tremolio nella mia voce giusto il necessario per risultare categorica, o quasi.
Andiamo… No.
« Signorina Lancaster, sono nella scomoda posizione di chi è qui a ricordarle che non ha scelta. »
Tamburellò un paio di volte con la penna sopra ad una pila di fogli disordinati.
« No, la prego. » rantolai allora.
Non poteva farmi questo.
« Signorina Lancaster… » tirò un profondo respiro e corrugò la fronte ampia.
« Signorina Lancaster » continuò « questa collaborazione è necessaria. Io desidero il meglio per il mio giornale e la giusta soluzione è che ad occuparvi del progetto siate voi due. »
Strinsi i pugni. « Non con Damian Foster. Non… »
« Signorina. Io posso comprendere davvero, pur non sapendo nel dettaglio cosa sia effettivamente accaduto tra voi, ma le sto chiedendo una collaborazione lavorativa. Sto puntando su di voi perché credo che lei ed il signor Foster siate gli unici in grado di farcela. La mia richiesta non implica un avvicinamento di nessun altro tipo. Un rapporto professionale, Sole, ecco cosa le sto chiedendo. Nient’altro. »
Abbassai lo sguardo.
« Senza contare il fatto che ne trarrebbe vantaggio anche a livello economico. Questo significa aumento, signorina. »


***

Chiusi la porta dell’ufficio del capo con vigore. Dannazione.
« Sole? Sole? » Daniela si sbracciava dall’altro lato della sala, ma non ci persi tempo: sillabai un chiaro “non mi va di parlarne” e mi diressi frettolosamente verso l’ascensore.
Fissai furente il linoleum chiaro sotto ai miei piedi. Ci mancava solo questa.
Una collaborazione di tre interminabili mesi con Damian. Spalla a spalla. Dio, sarei morta prima di arrivare all’alba del quinto giorno.
Pigiai nuovamente il bottone di richiesta sul quadro dell’ascensore e maledii Stuart o chi per lui per aver piazzato uffici e redazione al ventisettesimo piano di un grattacielo. Maledii anche gli ascensori lenti e le attese interminabili. Ultimo ma non meno importante maledii anche Damian — non me ne stancavo mai.
Il Led rosso sopra alla porta scorrevole recava il numero ventinove.
Sbuffai.
Ventotto.
Quando si aprirono le porte capii che forse avevo sempre avuto dei preconcetti errati. E che la mia vita si era basata sulla pigrizia.
Ventisette rampe di scale non mi sembrarono poi molte, in confronto alla prospettiva di chiudermi in un ascensore con Damian, che mi guardava speranzoso dall’altro lato.
Rimasi coi piedi ben piantati a terra e sostenni lo sguardo, in faccia un’espressione indifferente, ed attesi che la sua figura sparisse dal mio campo visivo.
« Sole. » mi salutò con la mano.
Di risposta gli concessi un sopracciglio inarcato, e le porte iniziarono a chiudersi.
Bene, mi dissi. O le scale od un’altra meravigliosa attesa. Provai ad immaginare quanto tempo ci avrebbe impiegato l’ascensore per percorrere ventisette piani e poi risalirli, ed il risultato mi spaventò leggermente.
Due mani bloccarono la chiusura delle porte, che si riaprirono con un cigolio inquietante, e mi ritrovai faccia a faccia con Damian.
« Non fare la stupida, entra. »
Lo assecondai, più per tornaconto personale che per altro.
Mi schiacciai contro la parete più lontana da lui e lo maledii ancora.
Ed ancora.
Ed ancora.

Il Led interno segnava ventiquattro, ore tre e ventisei del pomeriggio, e non era volata una mosca; purtroppo sapevo che la situazione idilliaca non sarebbe durata.
Infatti Damian si schiarì la voce.
« Così… Credo che Stuart ne abbia parlato anche a te. »
Assentii con un cenno.
Si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e pestò il piede destro un paio di volte al ritmo della musica allegra diffusa dall’altoparlante.
Cercai di non osservarlo.
Oh, cercai di non guardarlo nemmeno con la coda dell’occhio.
« Non mi aspettavo che ti avrei chiamata di nuovo collega. Da quando… Sì, da quando è successo mi sei stata lontana quasi avessi una strana malattia tropicale altamente contagiosa. Hai persino smesso di lavorare alla rubrica dei lettori pur di non dover stare a stretto contatto con me. »
Annuì tra sé.
« Ed avrei continuato a farlo, credimi, se Stuart non mi avesse obbligata. » cercai di imprimere al tono di voce un che di freddo e distaccato, ma mi uscì un farfuglio quasi incomprensibile.
Calò nuovamente il silenzio.

Ventidue, ore tre e ventisette.
« Mi odi così tanto? »
« Non ne hai idea, Foster. »
Sospirò.

Diciannove, ore tre e trenta.
« Sole, dim- »
« No. » lo interruppi bruscamente.

Eravamo in dirittura d’arrivo al quindicesimo piano, ore tre e trentadue, e mi concessi un sospiro di sollievo. Era solito prendere l’ascensore il signor McVille, a quell’ora, e la tensione grazie al cielo si sarebbe smorzata. Avrei parlato del più e del meno con lui, ignorando completamente Damian.
Ce l’avrei fatta.
Poi accaddero molte cose contemporaneamente: gli altoparlanti smisero di diffondere l’allegra musichetta, la cabina dell’ascensore traballò, oscillò leggermente. Si bloccò.
Saltarono le luci e s’accese il riquadro d’emergenza.
Non sarebbe salito il signor McVille, urlava una vocina nella mia testa.
« Che… Che sta succedendo? » mi voltai mio malgrado verso Damian, che sembrava tanto allarmato quanto me.
« Credo si sia bloccato. Aspetta, provo a chiamare qualcuno. »
Armeggiò con il cellulare per vari secondi. « Non c’è campo », risolse infine.
Spalancai gli occhi. Oh, di bene in meglio.
« Cerca di non farti prendere dall’ansia, Sole, McVille si sarà già accorto che l’ascensore ci sta impiegando troppo a scendere. Avrà già capito che si è bloccato ed avrà chiamato i soccorsi. Ci tireranno fuori da qui prima di quanto immagini. » ed appoggiò la testa contro la parete di specchio.
Osservai il mio riflesso alle sue spalle ed effettivamente sembravo nel pieno di una crisi di panico. Ma il mio problema, il mio vero problema, non era quello.
Sapevo che prima o poi ci avrebbero tirati fuori di lì. Ma nel frattempo sarei dovuta restare con lui.
Mi tolsi i tacchi e mi sedetti per terra, la testa tra le mani.

Ore tre e quaranta, minuti otto di agonia.
Damian si era tolto la giacca e mi aveva raggiunta sul pavimento dell’ascensore immobile. Aveva poi tentato di instaurare una conversazione civile almeno una decina di volte, ma avevo stroncato ogni minimo tentativo in partenza con un bel “zitto, dobbiamo risparmiare ossigeno”.

Ore tre e cinquantadue, minuti venti di reclusione.
Damian aveva scovato la tattica per non venire brutalmente zittito in partenza. Parlava in fretta ed a voce alta, il più delle volte erano semplici domande buttate lì. Come andava al lavoro, come stavano i miei.
Le mie risposte erano sgarbate e lapidarie.
Ad un certo punto scoppiò persino a ridere da solo. « Un tempo avremmo approfittato di un’occasione simile. »
« Quel tempo è andato, ormai. » mi liberai del maglione, la temperatura si stava alzando.
« Però ti stai spogliando, se non sbaglio. » ammiccò.
Damian era un tipo caparbio, davvero.
« Vattene al diavolo, Damian Foster. »
Almeno quanto lo ero io.

Ore tre e cinquantasette. Minuti venticinque.
Rise di nuovo.
« Damian » era la prima volta che lo chiamavo per nome da quando era successo e ce ne rendemmo conto entrambi « Davvero, questi tuoi attacchi di ilarità improvvisa mi preoccupano. »
Si strinse nelle spalle. « Non è il nostro posto speciale, questo? »
Ed inevitabilmente mi tornarono in mente i baci interminabili e le mani strette gli sguardi rubati il cuore pronto a scoppiare…
Poi boom, tutto esploso, le lacrime agli occhi ed il suo “Sole, io non so perché l’ho fatto” che mi aveva demolita.
Chiusi gli occhi.
« Di speciale ci sarà solo il calcio rotante con cui ti lancerò fuori dalla botola qui sopra. »
Mi lanciò uno sguardo divertito. « Sarebbe utile, potremmo provare ad uscire da lì. »
« Vedi troppi film. »
« Anche tu. »
Mi morsi la lingua per non rivelargli i miei disastrosi venerdì sera in solitudine davanti ad un film.
« Sole, guardami. » m’intimò poi, tornando completamente serio.
Sbuffai ma obbedii.
E lo ritrovai lì, i capelli neri e morbidi, gli occhi nocciola grandi, le labbra piene e distese nel suo sorriso.
Dio, faceva ancora male.
« Voglio… Voglio dirti una cosa che non ti ho mai detto. Perché non qui, nel nostro luogo speciale? »
Di nuovo nascosi la testa tra le mani. « Non voglio sentirle le tue storie, Damian. Quelle… Quelle di due anni fa bastano ed avanzano, ed hanno fatto anche troppo male. »
Sorrise. « Almeno sei stata sincera fino in fondo. Ma non ti ascolterò, non stavolta che sei costretta a starmi a sentire. »
Pestai i piedi. Ero in gabbia.
« Io… Non so perché l’ho fatto. E non voglio giustificarmi, non voglio tornare sulle cose che ti fanno male. Che fanno male ad entrambi. Ma… Mi sono svegliato ogni mattina per due anni certo di due cose: primo, ti avevo persa per sempre. Secondo, ben mi stava. Non mi amavi più e me lo meritavo, avresti trovato un ragazzo migliore di me, più intelligente, carino, adorabile, ricco. Uno che ti facesse ridere e con cui poi, un giorno, avresti iniziato a pensare ad una famiglia. Ma più ti guardo in faccia, Sole, più valuto i tuoi comportamenti, più capisco che uno migliore di me non vuoi trovarlo. Che tu vuoi ancora me, sotto il tuo odioso strato di orgoglio. Ed è stupido ed infantile, non trovi? Stare qui a prenderci a rispostacce… A cercare di far morire qualcosa che non ha la minima intenzione di passare a miglior vita ».
Tastai coi palmi il piano sotto di me, cercando di riprendere il contatto con la realtà. Sembrava tutto lontano, come se le parole di Damian avessero soffiato via tutto ciò che mi circondava.
Mi schiarii la voce. « Mi hai già abbindolata una volta, Foster, non accadrà di nuovo. Tutto ciò che voglio è uscire da qui e terminare questa conversazione inutile al più presto ».
Non gli avrei permesso di minare il mio autocontrollo in quel modo. Dovevo… Dovevo stabilire dei paletti. Dei-paletti, mi convinsi.

Ore quattro e cinque — trentatré deprecabili minuti di prigionia.
Eravamo sudaticci e l’ossigeno stava terminando. Io, in più, ero piuttosto indignata.
Avevamo smesso di parlare — e di parlarne —, troppo presi dal terrore dilagante di morire soffocati.
« Sole, se ne usciamo sulle nostre gambe… Poi esci con me »
E non sembrava una domanda.
Sbuffai. « Scordatelo »
Mi degnò di un’occhiata esasperata — tempo addietro sarei scoppiata a ridere in automatico.
Tempo addietro. Lì rinchiusa insieme a lui suonava peggio del solito. E già  normalmente suonava male.
« Diamine, smettila di fare la stronza! » sbottò poi, lanciando la giacca in un angolo.
Non risposi.
« Esci con me, Lancaster »
Nascosi un sorriso dietro la mano destra. Eravamo ritornati alla fase cognome.
« Signor Foster, no. »
« Oh, fantastico » grugnì poi, arrivando probabilmente alla mia stessa conclusione. « E potrei essere reso partecipe della motivazione, di grazia? »
Mi strinsi nelle spalle. « Non do seconde possibilità. Mai »
« Ogni regola ha la sua eccezione »
Non riuscii a replicare.
Si allentò il nodo della cravatta e tossì forte.
« Esci con me, allora? »
Scoccai un’occhiata eloquente. « Vuoi portarti a casa un sì causa sfinimento? »
Sorrise. « Ognuno ha le sue tattiche ».



***

« Dimmi dove e dimmi quando, Foster. Veloce ed indolore, dopo una giornataccia simile voglio solo rivedere il mio letto quanto prima »
Tamburellai con le dita sul cruscotto della mia auto, mentre Damian era chinato a scrivere su un foglietto chissà quale indirizzo con la sua grafia disordinata.
« Ho ancora nelle orecchie quel tuo sì praticamente urlato quando ci hanno liberati » lo disse senza guardarmi, ma dal tono dedussi che se la stava ridendo di gusto.
Lo ricordavo anche io, anche se avevo una ben più viva immagine del battibecco grazie a cui avevamo dato spettacolo alla squadra di pompieri intervenuta a sbloccare l’ascensore. Dopo la bellezza di quaranta minuti, beninteso.
Era stato molto poco maturo e decisamente umiliante — o forse dovrei definirlo molto ironicamente un discorso edificante e basta.
“Mi hai detto di sì”
“Ho detto di sì a
loro!”
…Ripetuto un numero indefinito di volte.
« Sei senza ritegno, Foster, e questo si chiama barare »
« Dettagli » liquidò il tutto con un cenno della mano.
Incrociai le braccia al petto.
« A lei » mi porse poi il cartoncino dopo un paio di secondi.
Cercai con tutte le mie forze di fingermi scocciata mentre lo prendevo tra il pollice e l’indice, ma fallii miseramente.
« Però la tua tattica non ha funzionato » aprii lo sportello della mia Volkswagen e mi ci appoggiai, l'intenzione era di apparire come la stronza che rigira il coltello nella piaga.
« Tu dici? » commentò soltanto.
Gongolava.
« Quanto ti detesto, Damian Foster. Mi perseguiterai in eterno, non è vero? »
« Ci sono alte probabilità. »
Sospirai rassegnata — dopodiché sorrisi. Di nuovo.
Se non altro sembrava che il venerdì successivo la tv sarebbe rimasta spenta ed il gelato dentro al freezer. L’orgoglio, volente o nolente, a casa con loro.













______________

 

Note dell'autore: Salve! Torno dopo un periodo di assenza (maledetti impegni) con una one-shot scritta per il contest di KikyWhiteFly e Roro, che mi ha permesso di sviluppare quest'idea che mi frullava in testa già da un po'.

La storia è stata così valutata da Kiki:

● Grammatica e stile: 9,2/10
● Elaborazione della trama e Caratterizzazione: 8,8/10
● Attinenza: 9,4/10
● Parere personale: 0,5/1

Totale: 27,9/31


Sono ovviamente molto felice sia del piazzamento che del giudizio stesso, che potete trovare tutti qui.
Non me l'aspettavo, davvero **
Pubblico in tempi record perchè , mi sento in colpa. Delle mie 4896171 scadenze circa il mondo delle fanfiction di questi tempi non riesco a rispettarne nemmeno mezza. E perchè EFP mi manca. (..E queste frasi, oltre che deprimermi, mi fanno sentire vecchia. Argh.)

Ye'.

   
 
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