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Autore: Roxe    01/02/2011    4 recensioni
Il dottore cercò di sostenere quello sguardo più a lungo possibile, rinunciando a chiedersi il perché di quella sfida non verbale, finchè non perse la battaglia ed abbassò gli occhi sulla sua tazza di tè, portandola alla bocca e sorseggiandone qualche goccia, nell’inutile tentativo di sembrare distratto.
- Vuoi sposarmi, John?

[ Pairing: Sherlock/John ] [ Pre-slash, Azione ]
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d'inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

 

 

Deduction V

 

 

L'aria era tersa.

Come sempre, dopo un acquazzone.

Un sole tiepido ed abbagliante si rifletteva nelle pozze d’acqua che puntellavano le strade, infiltrandosi nelle crepe dei marciapiedi per poi scorrere via tra le pietre e l’asfalto.
Mucchi di foglie bagnate d’ogni colore tappezzavano il terreno. Vittime del violento scroscio che aveva sferzato l’aria per ore, strappandole con forza dai loro rami.

Nemmeno una nube all’orizzonte.
Quasi che si fossero completamente sciolte assieme alla pioggia, precipitando dall’alto goccia dopo goccia e depositandosi su ogni cosa, come la rugiada al mattino.

Un cielo sfacciatamente azzurro riempiva lo spazio tra gli edifici.

Baker Street sonnecchiava immersa in un’insolita calma, completamente fusa con l’atmosfera quieta della città dopo la tempesta.
Poche le macchine parcheggiate, quasi nessuna in movimento lungo la strada.
I rari passanti si affrettavano lungo il marciapiede, con la testa china, attenti a evitare ogni incontro ravvicinato tra le suole delle loro scarpe ed ogni superficie d’acqua più profonda di qualche millimetro.

Sherlock Holmes e John Watson sentirono il pesante portone del 221B richiudersi lentamente alle loro spalle, con un debole cigolio.
Rimasero immobili nell’ingresso, l’uno di fianco all’altro.
Le gambe leggermente divaricate, le mani affondate nelle tasche, tanto da tendere la stoffa della giacca fino ad allontanarla dal corpo, la testa appena sollevata, lo sguardo fisso sui primi otto gradini dell’erta scala foderata di moquette rossa che conduceva al primo piano dell’abitazione.
Appena la metà di quelli necessari per raggiungere il loro appartamento.

Watson fece penetrare con forza l’aria nei polmoni, senza staccare gli occhi da quegli scalini.

 

- Non penso di farcela.

 

Holmes si girò con calma verso di lui, senza muovere un singolo muscolo che non appartenesse al suo collo.

- Vuoi che ti porti in braccio?

- No no! Ce la faccio, ce la faccio!

Questa volta John non si prese nemmeno il disturbo di chiedersi se stesse dicendo sul serio.
E non fece l’errore di voltarsi a guardarlo.
Si mosse deciso verso la scala, affrontando il primo scalino con determinazione, fino a quando i muscoli delle gambe non gli ricordarono che avevano già dato a sufficienza per quella giornata, costringendolo a bloccare bruscamente ogni movimento.
Serrò le dita attorno al mancorrente, trattenendo una smorfia di dolore. Prese fiato ancora una volta, e poi iniziò nuovamente a salire, con estrema cautela.

Mentre stringeva quel legno scuro nel palmo della mano gli tornò in mente la prima volta che era salito per quella scala, con l’aiuto di un bastone. Altrettanto lentamente.
Frenato da un dolore immaginario che era solo nella sua testa, osservando dal basso la schiena del suo futuro coinquilino che saliva agilmente quegli stessi gradini, lasciandolo indietro.
Solo una volta arrivato in cima, di fronte alla porta d’ingresso, Sherlock si era voltato verso di lui, fermandosi ad aspettarlo.

Adesso come allora, non era cambiato molto.

Non sarebbe mai stato capace di stare al suo passo, se Holmes avesse deciso di avanzare alla sua consueta velocità.

Ma non lo fece.

Rimase dietro di lui, salendo le scale gradino dopo gradino, con lentezza.

Watson avvertiva la sua presenza alle spalle.
E si stupì nel sentirsene rassicurato.
Per la prima volta non fu colto dall’impellente desiderio di aumentare l’andatura, sforzandosi al di là delle sue possibilità nel disperato tentativo di raggiungere un ritmo se non uguale per lo meno compatibile a quello di Sherlock.

Per la prima volta lasciò che fosse lui ad adattarsi al suo passo.

Salirono quella scala un gradino alla volta.
Senza fretta.

Quando finalmente John arrivò davanti alla porta si limitò a spingerla debolmente con la mano, certo di non trovare resistenza.
Riuscì appena a fare qualche passo nella stanza, lanciando il giubbotto sulla poltrona e trascinandosi verso il divano, per poi rovinarci sopra con tutto il peso facendo appello alle ultime forze residue.
La sensazione del suo corpo finalmente libero dalle sevizie della forza di gravità adagiato su una superficie morbida lo fece mugolare di sollievo.
Allungò le vertebre sullo schienale, divaricando le gambe e distendendole il più possibile fino a quando non incapparono nel tavolino. Poi lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, i palmi sollevati, ed abbandonò la testa sulla spalliera con gli occhi chiusi, beandosi di quella sensazione di benessere, senza pensare a niente.

- Mmmh…

Holmes rimase ad osservarlo sull’ingresso, fino a quando Watson non smise di muoversi, poi entrò anche lui nell’appartamento, chiudendo la porta alle sue spalle e lasciandosi cadere all’indietro su di essa, la maniglia ancora tra le mani.
Il suo sguardo vagò nel caos del soggiorno, abbagliato dalla luce intensa del primo pomeriggio che penetrava attraverso le finestre.

- Casa dolce casa!

Si staccò lentamente dalla porta, infilando una mano nella tasca del cappotto e tirandone fuori una voluminosa busta marrone un po’ spiegazzata.

- Trovo che sia ancora più dolce quando hai in tasca centomila sterline in contanti guadagnate senza nessuna fatica.

- Parla per te…

La voce di John suonò tremula e sconnessa, impastata da un misto d’indolenzimento e rilassamento maldestramente mescolati assieme.
Sherlock si sfilò il cappotto mentre si voltava a guardare quel corpo inerte abbandonato sul divano, scuotendo la testa.

- Passare mesi a fare lo zoppo certo non ha potenziato la tua muscolatura.

- Mh…

Un suono gutturale uscì dalla gola di Watson, mentre con fatica sollevava un braccio e lo appoggiava sulla fronte, lasciandolo letteralmente cadere sopra gli occhi ancora chiusi.

- Vuoi che vada in farmacia a prenderti qualcosa?

John sollevò con un gesto curiosamente rapido il braccio che aveva appena appoggiato sopra la testa, ruotandola in direzione di Holmes e fissandolo con espressione incredula. Gli occhi socchiusi, la bocca serrata e le sopracciglia inarcate nella massima espressione di sospetto e scetticismo che la posizone gli consentiva.
Sherlock sostenne quello sguardo per alcuni secondi, poi si voltò verso la scrivania, scrollando le spalle.

- Ok sì, questa volta stavo scherzando.

Watson tornò a coprirsi gli occhi col braccio, emettendo un sonoro quanto rassegnato sospiro.
Holmes appoggiò la busta sullo scrittoio, iniziando poi a rovistare in quel macello di scartoffie, alla ricerca di qualcosa.
Per quasi un minuto riuscì a condurre le indagini con una modalità relativamente civile, alzando con garbo gli ammassi di libri, fogli e riviste ammucchiati uno sopra l’altro in disordine sparso, e spostando con un quasi criterio gli oggetti improbabili che si ritrovava in mano ogni qualvolta l’allungava in una zona del tavolo nascosta alla vista.
Dal divano John ascoltava quei fruscii perfettamente immobile, gli occhi ancora chiusi, seguendo in silenzio quella rumorosa ricognizione.
Solo quando i fruscii si trasformarono in tonfi, ed ogni sorta d’oggetto iniziò a cadere per terra, impietosamente abbattuto dall’impazienza di Holmes, si decise ad intervenire.

- Cosa stai cercando?

- Una busta.

- Secondo cassetto a sinistra. Sotto le cartelle verdi. Dovrebbero essercene di diverse misure.

- Hmpf.

Il mugugno inarticolato di Sherlock suonò alle orecchie di Watson come una specie di grazie, mentre avvertiva il cassetto aprirsi e richiudersi rapidamente, accompagnato da un inconfondibile fruscìo di carta da lettere.

Ma dopo qualche istante di silenzio una nuova ricerca ebbe evidentemente inizio, perché uno sguaiato baccano di cassetti aperti e poi richiusi con rapidità ed impazienza invase nuovamente la stanza.

- E ora cosa stai cercando?

- Una penna.

- Sul tavolo di cucina.

Sentì i passi di Sherlock che si dirigevano verso la sala da pranzo, poi il rumore di una sedia spostata con discreto entusiasmo.
E infine di nuovo silenzio.

Tese l’orecchio, cercando d’indovinare i movimenti di Holmes, ma nessun suono giunse dalla sala. Quindi tornò a concentrarsi sui suoi muscoli indolenziti, inarcando la schiena quel tanto che bastava per avvertire una piacevole pressione tra le scapole premute sulla morbida pelle del divano. D’improvviso un dolore sordo e fastidioso gli attraversò il braccio mentre sgranchiva le dita, e come di riflesso lo sollevò dalla fronte, alzandolo sopra la testa. Con fatica aprì gli occhi, fissandoli all’altezza del dolore, e s’imbattè in cinque piccole chiazze nere, appena sotto il palmo della mano.
D’istinto ruotò  il polso verso la luce, osservando il marchio con attenzione, nel tentativo d’immaginare come sarebbe diventato quando l’intero ematoma sarebbe affiorato del tutto. Le dita erano il punto di pressione più forte e il livido stava già comparendo, ma probabilmente avrebbe avuto un’impronta rossa tutta attorno al polso già tra qualche ora.

- Sei fiero di te? Mi resterà il segno per una settimana.

Dalla cucina nessuna risposta.
John Watson sospirò, alzando il braccio verso l’alto ed osservando la sua sagoma stagliarsi controluce. Poi chiuse ancora gli occhi e lo lasciò ricadere sul divano, con un tonfo sordo.

La testa libera.
Finalmente.

Inspiegabilmente.

Sgombra da tutti i dubbi, l’insicurezza, l’imbarazzo, la vergogna, lo stupore, l’incredulità, la rabbia, il dolore, la timidezza, l’ansia.
La paura.

Il groviglio si era sciolto.
Non esisteva più.

Probabilmente non era mai esistito, dopotutto.

Ancora una volta.
Era solo nella sua immaginazione.

La tensione accumulata fino a quel momento scivolò via di colpo.
In un istante.
Defluì dalla pelle e dai muscoli. Liberò il suo stomaco, e rilasciò le sue membra, scorrendo via dalle palpebre fino a renderle pesanti. Troppo pesanti per sollevarsi ancora.

Il rumore della sedia in cucina che si spostava ancora una volta, trascinata sul pavimento con un fastidioso stridore, colpì il suo orecchio.
Poi i passi di Sherlock risuonarono nel soggiorno, diretti verso l’ingresso.
Ad occhi chiusi John tentò d’indovinare i suoi movimenti di fronte alla porta, mentre Holmes armeggiava con qualcosa che doveva essere carta, e muoveva avanti e indietro l’anta con un gracchiante scricchiolio.
Fatica sprecata, a pensarci bene.

- Che fai?

- Sistemo questa noiosa faccenda del canone di locazione.

La tentazione di aprire gli occhi e vedere in che modo il loro ingresso, una busta ed una penna potessero risolvere la suddetta faccenda fu quasi irresistibile. Ma il peso delle palpebre vinse sulla curiosità.
Watson riuscì appena a dischiudere le labbra, pronunciando una domanda di cui non gl’interessava avere la risposta.

- Come mai ti sei deciso?

- Perché se non le darò questi dannati soldi alle quattro e mezza in punto, Mrs Hudson si autodistruggerà.

Un ghigno divertito affiorò sul volto di John.
Riusciva quasi ad immaginarsela, in procinto di sfondare la porta a forza di batterci sopra con le sue nocche ossute, col viso rosso per l’indignazione e la voce roca per il troppo urlare.
Povera Mrs Hudson.
Probabilmente le era toccato il peggior inquilino del sistema solare.

Watson buttò fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni, con un profondo sospiro.

 

- Dimmi una cosa Sherlock… Tu sei ricco, per quale ragione ti fai tanti problemi per il costo dell’affitto?...

 

Non era chiaro nemmeno a John stesso il senso di quella domanda.
Era uscita così. Scivolando tra le maglie del buon senso e finendogli sulla lingua, per saltare poi fuori dalle labbra del tutto inconsapevole del suo peso.
Non si aspettava nessuna conseguenza.
Né alcuna risposta.

Sherlock Holmes rimase fermo accanto all’ingresso, osservando John Watson disteso sul divano con gli occhi chiusi, la testa rovesciata all’indietro, le braccia abbandonate lungo il corpo, le gambe divaricate. E un’espresione divertita sul viso.

Lo osservò a lungo. In silenzio.
Sincronizzando il respiro con il suo.
In attesa.

Era tutto il giorno che aspettava.
Anche solo un cenno.
Una sillaba.
Un gesto.

O magari un ceffone.

Qualcosa di vagamente comprensibile.
Che non fosse una risata, un silenzio imbarazzante, uno sterile elenco di banalità, uno sguardo terrorizzato.
O un’interminabile sequenza di ‘no’.

Si mosse verso il divano, evitando di fare il minimo rumore, e si fermò di fronte a John.
Senza mai smettere di guardarlo.

Doveva essere una semplice questione d’affitto.
Lo era. Era soltanto questo.

All’inizio.

Con estrema cautela si voltò, staccando gli occhi da lui e fissandoli al centro della stanza, in mezzo a quella luce abbagliante.
Piegò le gambe lentamente, lasciandosi cadere all’indietro, fino a che non impattò con la superficie del divano. Sedendosi al fianco di Watson.

La tensione accumulata fino a quel momento gli cadde addosso improvvisamente.
In un istante.
S’infiltrò nel petto. Paralizzò il suo collo e chiuse il suo stomaco, contraendo ogni muscolo del suo corpo.
La schiena rimase rigida, molto lontana dalla spalliera. Le gambe appena divaricate flesse con un angolo di novanta gradi esatti, la testa perfettamente in linea con il busto, e lo sguardo fisso nel vuoto, come incantato.

C’era qualcosa in quella posa. Così scomoda e artificiosa.
Che in qualche modo aveva la forma esatta dell’imbarazzo.

Holmes intrecciò le dita nervosamente ed alzò gli occhi al cielo, inspirando con forza.

Dio, era così difficile.
Spiegarsi.

Farsi capire da lui.

Eppure era talmente chiaro. Evidente.
Da tanto tempo ormai.
Tanto da far male al cuore.

Già.
Il cuore.

Quello che non avrebbe dovuto avere.

 

Sherlock si lasciò andare all’indietro, con lentezza, affondando la schiena nel divano. Lo sguardo fisso nel nulla.
Rimase immobile per qualche istante, con la testa appoggiata sulla parete, ben al di sopra della spalliera, incapace di staccare gli occhi dalla luce.

Forse avrebbe dovuto urlare.
Arrabbiarsi.
Afferrarlo e scuoterlo con tutta la forza che aveva.
Ignorarlo.
Prenderlo a schiaffi.

Buttare fuori le parole, senza pensare.

Eh.
Non pensare.
Una cosa che gli riusciva davvero male.

Chiuse gli occhi. Ascoltando il respiro di John seduto al suo fianco, come addormentato, inconsapevole della sua presenza.

Era davvero buffo che si trovasse in quella situazione.

Proprio lui.
Che sapeva sempre cosa fare. Prima di tutti gli altri.
Meglio di tutti gli altri.
Calmo. Freddo. Determinato.

In qualunque situazione.

Qualunque tranne quella.

 

Holmes riaprì gli occhi di scatto, puntandoli sul soffitto.
Prese fiato e trattenne l’aria nei polmoni il più a lungo possibile, fino a che non li sentì scoppiare per la pressione. Allora aprì la bocca ed espirò con forza, svuotandoli fino a sentire i bronchi contrarsi per la mancanza d’ossigeno.
Quindi iniziò a lasciarsi scivolare verso il basso, gradualmente.
Il bacino scorreva sulla pelle ruvida del divano, vincendo l’attrito della stoffa dei pantaloni, mentre la nuca grattava delicatamente la carta da parati, lasciando sul muro una scia di ciocche scure che seguivano con distacco quel movimento discendente.

Calò un centimetro ancora. Altri due. E ancora altri quattro.
Sempre più giù.
Fino a che la sua testa non si adagiò sulla spalliera, alla stessa altezza di quella di Watson.
Esattamente la stessa.

Solo allora tornò a voltarsi, fissando gli occhi in quelli chiusi di John, perfettamente di fronte ai suoi.
Guardò quel profilo tranquillo per un tempo che gli sembrò infinito. E forse lo era.
Incapace di muovere un solo muscolo del corpo, come anestetizzato da quell’espressione serena e inconsapevole.

 

Che cos’altro doveva fare?

 

Lentamente distolse lo sguardo.
Tornò a fissare il soffitto con aria assorta, perdendosi tra le mille venature del legno che osservavano sfacciatamente la sua vita scorrere sotto di loro.
Prese fiato per l’ennesima volta.

E d’un tratto lo fece.

Si lasciò cadere di lato.

Annullò lo spazio che li separava, abbandonandosi sulla sua spalla.
Appoggiò la testa nell’incavo del suo collo, senza respirare.
Senza pensare.
Finalmente.

Soltanto il suo calore sotto di lui, e il suo respiro tra i capelli.
Mai così vicino.

 

John Watson spalancò gli occhi.
Il cuore fermo nel petto.

Il peso di Sherlock addosso.
D’improvviso.
La sua testa appoggiata sul collo.
I capelli arruffati premuti sulla guancia.
Un tepore delicato attraverso la stoffa.
Il suo odore nella bocca. Nella gola.

Mai così vicino.

 

Per un’infinità di secondi si dimenticò di respirare, impedendo al corpo di compiere il benché minimo movimento, paralizzato nell’attimo in cui aveva sentito il fianco di Holmes aderire al suo.
Durò appena un istante.
Il panico.

Poi l’aria tornò a riempire i suoi polmoni, ed il cuore riprese a battere, mentre un placido sorriso spuntava sul suo volto, ed i suoi occhi si chiudevano dolcemente.

No, non ci cascava più ormai.

Non ci pensò neanche un secondo.
Ruotò la testa di lato e premette le labbra tra quei capelli.
Un brevissimo contatto.
Quel sapore gl’invase i sensi, lasciandolo stordito.

Ma fu solo un istante.

Un bacio leggero.

Poi Watson raddrizzò la testa, appoggiandola su quella di Holmes. Abbandonandosi addosso a lui.
Affondò la guancia tra i suoi capelli, prendendo nuovamente fiato e lasciando il cuore correre alla velocità che desiderava.
Con gli occhi chiusi, continuò a sorridere, assaporando il suo odore e il suo calore.

Rinunciando a capire.
Finalmente.

Limitandosi a godere di quella pace, senza chiedersi niente.

Chissà. Forse lo aveva raggiunto.
L’occhio del ciclone.

Intorno a lui tutto e tutti continuavano a roteare vorticosamente, travolti dalla furia del tornado. Spezzati e sconvolti dalla potenza dell’uragano. Del tutto incapaci di prevedere in quale direzione li avrebbe trascinati quel vento.

Ma non lui.
Non più.

Perfettamente al centro.
Lontano da ogni turbamento.
Immerso nella calma assoluta, e circondato dalla tempesta.

Esattamente nel luogo in cui voleva essere.

Quello che non riusciva ancora a distinguere, nonostante tutto, era la differenza tra stare al centro…

           … ed essere il centro.

 

 

 

 

 

 

Note:
1. Come avrete notato in questo capitolo lascio intendere, attraverso le parole di Watson, che Holmes sia discretamente ricco, e non abbia in realtà nessun problema a pagare l’affitto di Baker Street. Questo discorso si ricollega al PS che avevo aggiunto nel primo capitolo, ed è strettamente legato al fatto che… in realtà questa faccenda nunn’è cchiara. XD A prescindere dalla fonte cui si vuol fare riferimento.
Lo stesso Arthur Conan Doyle fa una discreta confusione in merito, presentandoci Holmes come un soggetto che cerca un coinquilino per abbattere i costi dell’affitto, per comunicarci poco tempo dopo che sta pagando alla signora Hudson una cifra tanto alta da comprare l’intero edificio se sommata negli anni, e non pago di ciò arriva persino a dirci –attraverso le parole di Holmes stesso- che l’investigatore ha da parte un gruzzolo tale che potrebbe benissimo permettersi di vivere in agiatezza e senza lavorare fino alla fine dei suoi giorni.
Quindi! La domanda che ora tutti si stanno facendo è questa:
Che accidenti se ne doveva fare Sherlock Holmes di un coinquilino? O.O
Solo Doyle lo sapeva. Si è portato il segreto nella tomba.
O meglio… probabilmente non lo sapeva nemmeno lui, visto che non è la prima né l’ultima incongruenza presente nei suoi racconti.
Non resta che mettersi il cuore in pace e rassegnarsi…
Io in questo caso mi sono voluta rifare alla fonte che descrive Holmes come un uomo agiato, nonostante le contraddizioni della cosa.

2. In questo capitolo ho tentato di fare un giochetto semantico che non sono certa sia riuscito al 100%, quindi facciamo un po’ di analisi logica, vi va?**
Nella parte finale ho cercato di operare un’inversione del punto di vista, trasferendola temporaneamente da Watson a Holmes.
Fin dall’inizio della fic ho mostrato quasi esclusivamente le reazioni di John alla proposta di Sherlock, lasciando che quest’ultimo costituisse solo un elemento di dubbio -per il lettore come per Watson- con il suo comportamento (pensa solo all’affitto, oppure?...). Nella scena finale invece, ribalto la prospettiva, ed in un certo senso ripercorro la giornata dal punto di vista di Holmes:
All’inizio per Sherlock è davvero solo una questione d’affitto. Uno come lui non ha certo bisogno di un pezzo di carta per confermare che Watson è il suo compagno (Mikaeru docet **). Per lui è semplicemente scontato, sottinteso. Ma la reazione di John lo spiazza, gli fa capire che lui non ha capito. E gli fa temere che per Watson non sia lo stesso.
A quel punto inizia ad aver bisogno di sentire un .
La prima proposta era davvero solo un “Vuoi mettere una firma su un pezzo di carta per pagare meno d’affitto?”.
Ma la seconda volta che arriva la domanda… significa tutta un’altra cosa.
La fic si focalizza sui dubbi e sull’incertezza di John, ma nel pezzo finale del capitolo si dovrebbe capire che per tutto il tempo, praticamente fin dall’inizio, la posizione di Holmes è stata assai più scomoda della sua.
È lui che si è proposto, ricevendo come risposta una risata, seguita poi da strani balbettamenti molto più vicini ad un no che ad un .
È lui che di fatto viene rifiutato, più di una volta. Ritrovandosi persino un John che flirta con una bionda diciottenne miliardaria.
In buona sostanza, rivisitando l’intera storia dal punto di vista di Sherlock, Watson si comporta come uno stronzo di prima categoria… XD
Ovviamente Holmes si rende conto che parte del problema consiste nel fatto che non riesce a spiegarsi come dovrebbe, e viene frainteso. Ma allo stesso modo non riesce a fare di meglio.
È la storia della sua vita: cercare di spiegare quello che nella sua mente è chiarissimo ma che gli atri non riescono ad afferrare in alcun modo.

What's it like, not being me? It must be so relaxing.… XD

Tutto ciò si sarebbe dovuto capire dalla parte finale del capitolo. **
Ho tentato di concentrarlo rendendolo allo stesso tempo il più possibile chiaro ed evidente, ma via via che scrivevo mi sono resa conto che per farlo capire perfettamente senza spiegarlo in modo esplicito avrei dovuto ricominciare da capo la giornata dal punto di vista di Holmes, e la mia idea non era quella.
In un certo senso anzi preferivo che il suo punto di vista fosse meno chiaro, più sfuggente, una finestra aperta sul suo modo di pensare e poi subito richiusa, per lasciare spazio all’immaginazione di chi legge.
Poi però ho pensato anche che mi dispiaceva se non si capiva questa cosa, allora ho aggiunto la nota! XD

  
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