IL FLAUTISTA AUSTRIACO
“Julian!
Julian! Aspettami!”
Una voce allegra
e affannata fece voltare di scatto il
giovane uomo dai folti capelli biondi che camminava a passo lento nel
corridoio
semibuio; un ragazzo molto più giovane di lui lo raggiunse
con un balzo,
sorridendogli felice: “Finalmente! Era ora che mi sentissi,
è mezz’ora che ti
chiamo!” esclamò lui, riprendendo fiato;
l’altro sospirò, abbattuto, “Scusa,
Miguel… è che è stata una brutta
giornata e sono molto stanco…” replicò
l’altro, sistemandosi la custodia del flauto sulla spalla
assieme alla tracolla.
Miguel lo
guardò storto: “Stai ancora pensando a quei tipi
strani che ti stavano cercando? La direttrice li ha cacciati, vedrai
che non
torneranno più! Almeno avessero spiegato cosa diavolo
volevano…”.
Il giovane
chiamato Julian non rispose, i suoi grandi occhi
azzurri, però, si velarono di lacrime, sapeva
perché erano venuti a cercarlo
sin lì, sapeva con certezza che non avrebbe potuto scappare
per sempre e che,
prima o poi, LUI l’avrebbe ritrovato.
Lui….
Quanto tempo era
passato da quando, anche nei suoi pensieri,
aveva smesso di usare il suo nome e al suo posto aveva messo quel
freddo e cupo
pronome?
Troppo
tempo…
A volte la
sensazione di mollare di nuovo tutto e tornare
indietro era così forte che il giovane flautista si chiedeva
come mai fosse ancora
lì, nel suo piccolo appartamento alle porte di Nizza assieme
a quel gentile
violinista spagnolo.
Ma
poi…
Ricordava.
E, mordendosi le
labbra, si rimetteva sul viso quella
maschera sorridente e angelica, anche se, nel profondo, moriva a ogni
passo, a
ogni battito del cuore.
Perché
non l’aveva mai dimenticato!
E, a quanto
pare, nemmeno lui.
Ma non poteva
tornare indietro, doveva resistere anche per
lui, per il suo bene…
“JULIAN!!!”
Il grido di
Miguel lo fece sobbalzare e il flautista cadde
rovinosamente a terra con una mezza imprecazione, sbattè la
testa contro il
muro e restò sdraiato sul pavimento, mezzo intontito e
dolorante: “Ma sei
scemo?!” esclamò furioso e preoccupato
l’amico, tirandolo in piedi, “Guarda
dove vai!” lo rimproverò, controllando se non si
fosse fatto nulla, “Amico, sei
proprio strano oggi!” lo rimbrottò, recuperando la
borsa e passandogliela.
Il biondo si
massaggiò la nuca: “Ero
sovrappensiero…”
confessò, riprendendo a camminare; l’altro
scrollò le spalle e gli andò dietro,
“Devi fare più attenzione… Io vado
fuori a cena con Rojas, vieni anche tu? La
mia sorellina vuole vederti da settimane ma tu non ci sei mai a casa
quando
viene a trovarmi!” lo invitò, ma l’amico
scosse la testa con un tenue sorriso,
“Penso che andrò direttamente a casa…
Ho bisogno di dormire. Ci rivediamo lì.”.
§§§
Camminando per
le viuzze della città vecchia, il biondo
musicista rifletteva.
Non
c’era un argomento preciso nella sua riflessione, si
può
dire che “VITA” era una categoria abbastanza ampia,
però, per raggruppare tutti
i suoi pensieri.
Era stanco,
troppo.
Portare quel
nome che per lui aveva un significato così
importante era pesante, ma doveva farsi forza e continuare a esibirlo
con
naturalezza, come se fosse veramente il suo nome proprio, lo stesso che
i
genitori gli avevano dato alla nascita.
Aveva gettato
alle ortiche quello vero, assieme al fardello
di un passato che voleva sì ricordare, ma voleva farlo solo
stando accanto al
suo signore, signore che aveva purtroppo dovuto abbandonare: forse era
stato un
vigliacco, avrebbe dovuto parlargliene, ma non ne aveva avuto la forza.
A quel giorno,
non tramontava Sole senza che le parole che
gli erano state rivolte lo tormentassero senza pietà, alle
volte si svegliava
nel cuore della notte, piangendo nel cuscino e cercando con la mano il
contatto
del corpo del Signore Dei Mari.
Ma era sempre
solo in quel letto di fronte alla finestra, che
dava su un lembo di cielo da cui riusciva a scorgere, sempre e
comunque, il
Gran Carro.
E spesso si
chiedeva se anche lui vedesse quello stesso
cielo, e si consolava un po’.
Era scappato
come un cane e la solitudine era tutto ciò che
si meritava; eppure, quei tipi che erano venuti a cercarlo al
Conservatorio…
Non poteva non riconoscerli, e anche loro dovevano averlo riconosciuto
all’istante,
non appena i loro occhi si erano incrociati: li aveva mandati Julian
Solo, ne
era certo.
E se da una
parte il suo cuore scoppiava di gioia nel sapere
che non era stato dimenticato, d’altra parte si sentiva
profondamente infelice.
Non poteva
tornare.
Lo desiderava
ardentemente, ma non poteva.
Perché
voleva dire mettere la persona che per lui contava
maggiormente in pericolo.
Perso nelle sue
elucubrazioni, la custodia del flauto e la
tracolla che gli sbattevano contro la coscia, il biondo non si era
accorto di
aver sbagliato strada, e anziché svoltare a sinistra,
imboccando la strada che
lo avrebbe portato fuori dall’intrico di vicoli e vicoletti,
era svoltato a
destra, inerpicandosi verso il monumento all’eroina Segurana,
verso il
castello.
Il ragazzo se ne
accorse solo quando ormai la sua immagine si
era riflessa sulle vetrine dell’ufficio collocamento della
Legion étrangère ; si
diede dello stupido parecchie volte e allungò il passo verso
il porto,
sollevando al contempo il bavero della giacca per proteggersi dal
vento, e
anche da qualcos’altro.
Avvertiva un
pericolo avvicinarsi a velocità supersonica a
lui.
Il flautista
scartò, schivando per un pelo il fendente di un
coltello lanciato contro di lui; rotolò a terra per qualche
metro, rialzandosi
di scatto subito dopo e mettendosi in guardia: attorno a lui, con
ghigni poco raccomandabili,
c’erano dei ragazzetti, a malapena sedicenni, che lo
fissavano divertiti.
“CHE
VOLETE DA ME?!” gridò il biondo, evitando e
colpendo al
petto un nuovo aggressore con un pugno.
Questi cadde
rantolando a terra.
“Espèce de fag!*”
esclamò
cattivo uno di questi, lacerando con un solo fendente la tracolla del
musicista; tutti i libri caddero a terra, assieme allo strumento, che
rotolò
per qualche metro, fino a finire sotto l’anfibio di uno di
quei ragazzoni che
lo circondavano. In quel momento, Julian ebbe veramente paura.
Come se fosse
stato dato un ordine, quattro
di loro gli si gettarono addosso, armati di coltelli, e cercarono di
colpirlo:
ma il giovane non era quello che sembrava, e lo spirito guerriero, che
credeva
assopito e che mai più si potesse svegliare, gli diede la
forza necessaria per
scrollarseli di dosso, i suoi occhi azzurri erano diventati violetti,
splendenti di una luce inquietante.
Ma non era
sufficiente, e lui senza
Scale e senza il suo flauto non poteva fare granchè.
Senza contare
che dei suoi poteri di
Marinas non era rimasto quasi più nulla, solo
quell’ardore guerriero che lo
aveva spinto a rialzarsi, il resto era sigillato sul fondo del mare,
addormentato per l’eternità.
Di nuovo,
l’impeto dei suoi aggressori
si abbattè su di lui con violenza e il flautista cadde a
terra, mugolando di
dolore e tenendosi la spalla, che splendeva alla luce dei lampioni per
la lama
che vi era infissa; senza possibilità di difendersi, il
giovane socchiuse gli
occhi, annebbiati dal dolore e dalla perdita copiosa di sangue, si
sentiva
debole e indifeso.
Boccheggiò
tra le lacrime, mentre le
belve lo circondavano, stringendosi attorno a lui, coi coltelli
sguainati,
doveva veramente finire in quel modo? Era sopravvissuto a una Guerra
Sacra
contro Athena e i suoi guerrieri e doveva concludere i suoi giorni su
una
strada secondaria del centro storico di Nizza, da solo, e sotto i colpi
di quei
demoni?
“No,”
si disse, ma non aveva la forza
di reagire.
Col viso
schiacciato contro
l’asfalto, Sorrento di Siren, ex Generale del Divino
Poseidone, aspettava la
fine.
§§§
I teppisti
avevano seguito Sorrento
sin dalla sua uscita dal Conservatorio assieme a Miguel, avevano messo
gli
occhi su di lui da parecchi giorni, e avevano valutato di potersi
divertire un
po’ con lui: dopotutto, a chi sarebbe mai importato?
Lo avrebbero
malmenato un po’, poi
avrebbero trovato qualcos’altro da fare.
Quel ragazzino
con le sembianze di
donna faceva venire loro il nervoso, misto a un senso di disgusto che,
avevano
ragionato, poteva semplicemente andarsene solo in un modo.
Ed ecco che,
ridendo sguaiatamente
con l’oggetto del loro divertimento serale sotto i piedi, si
erano sentiti
potenti e quasi invincibili.
E già
si compiacevano della loro
superiorità e virilità, quando un colpo preciso
allo stomaco mandò a sbattere
il capo della combriccola contro la muraglia che delimitava la via che
conduceva al castello, un altro ancora venne colpito nelle parti intime
e venne
lasciato a rantolare a terra; disordinatamente, i teppisti cercarono di riorganizzarsi, alcuni
di fuggire, ma
vennero colpiti senza pietà.
Alcuni uomini
vestiti elegantemente
di nero, in poco, ne avevano fatto polpette.
“Que
diable
se passe?!*” esclamò
qualcuno tra quelli che poteva ancora muoversi ;
all’improvviso, il caporione, rialzatosi, venne afferrato per il collo da una mano
apparentemente sbucata
dall’oscurità, la presa si strinse sin quasi a
soffocarlo mentre le sue gambe
si muovevano inconsultamente, preda di spasmi nervosi.
“Vous,
morceau
inutile
de
déchets
humaines…
Vous allez payer pour
ça!*” ringhiò tra i
denti, sbattendolo nuovamente contro il muro, i lunghi capelli biondi
smossi
dal vento e gli occhi azzurri che sembravano plasmati nel ghiaccio;
poi, fece
un segnale ai misteriosi figuri vestiti di nero, che presero in
consegna i
teppisti e li portarono via, lasciandolo da solo nella strada deserta.
Con aria cupa,
il giovane uomo si chinò sulla figuretta
rimasta a terra e tremante: seppur privo di sensi, il flautista era
scosso dai
tremiti nervosi causati dal colpo; con cautela, lo prese tra le
braccia,
tamponando il sangue della ferita con la sua camicia, e ne
osservò il viso: era
stanco, glielo leggeva chiaramente, e soffriva profondamente.
“Σ
'αγαπώ.*” gli
sussurrò, baciandolo piano
sulle labbra.
§§§
Sorrento ne era
sicuro.
Quella non era
la sua camera, e
certamente non era il suo letto!
Lenzuola di
seta, cuscini
morbidissimi e una trapunta pesante abbastanza da proteggere dal fresco
della
notte primaverile; seppur con la vista annebbiata, il ragazzo era
riuscito a
scorgere un lembo di esterno dalla finestra lasciata spalancata.
Vedeva il mare.
E
dall’angolazione che aveva, doveva
trovarsi nei pressi della Promenade Des Anglais, forse proprio dentro
il
Negresco, uno degli alberghi più famosi della Costa Azzurra.
La domanda era,
chi lo aveva portato
lì?
Ricordava
l’aggressione, il dolore
alla spalla…
“Σ
'αγαπώ*.”
Era stato solo
un sogno oppure qualcuno gli aveva veramente
sussurrato quelle parole? Poteva fidarsi dei suoi ricordi o aveva
semplicemente
sovrapposto le parole del suo signore lontano…?
Il flautista
scosse energicamente la testa, lasciandosi
ricadere sul materasso; con le dita, sfiorò lo stretto
bendaggio che gli
cingeva la spalla ferita, non sentiva più dolore. Ma chi mai
poteva averlo
soccorso?
Esausto,
sospirò e richiuse gli occhi, beandosi del suono di
quella voce così familiare che gli sussurrava quelle parole
che tanto gli erano
mancate; si, forse era stata solo la sua immaginazione, ma il suo cuore
desiderava perdersi in quella fantasia.
Nel torpore che
precede lo scivolare nel sonno, il giovane
sentì un peso poggiarsi sul materasso vicino a
sé, percepì il tocco familiare
di una mano morbida a sfiorargli le labbra e la fronte, e il suo cuore
ebbe un
sobbalzo nel sentire quella voce che tanto amava implorarlo di
svegliarsi.
Sentì
qualcosa dentro di lui spezzarsi irrimediabilmente,
cercò di resistere ma non ci riusciva, si era sentito troppo
solo in quei mesi;
con gli occhi gonfi per le lacrime che avevano cominciato a scendere, il musico cercò di
puntellarsi col gomito, ma le
fitte alla spalla ferita non gli permisero di farlo e anzi,
finì a faccia in
giù nei cuscini.
Qualcuno lo
prese per le spalle con delicatezza, senza
sforzare il muscolo sfregiato, e lo mise seduto: “Non
sforzarti, te la sei
vista brutta.” gli disse a bassa voce, facendogli poggiare la
schiena contro i
cuscini.
Con commozione,
gli occhi azzurri di Sorrento si specchiarono
in quelli di Julian Solo.
“Sono
arrivato appena in tempo.” disse serio l’uomo,
coprendogli le gambe con la trapunta: “Ancora qualche istante
e di te sarebbe
rimasto ben poco.” Aggiunse con rabbia, era furibondo nei
confronti di quei
teppisti e si era preso la sua giusta vendetta minacciando il console
francese
di far scoppiare una crisi diplomatica tra Francia e Grecia per
quell’aggressione
se i responsabili non fossero stati adeguatamente puniti.
Poteva
permetterselo, visto che Sorrento aveva passaporto
greco e risultava residente presso Villa Solo, vicino al Pireo.
“Ma
ora, per favore. Dammi una spiegazione.” gli chiese lui
con un filo di voce, accarezzando il viso del suo ex Generale con
affetto: “Ho
passato dei mesi a cercarti. Sei scomparso nel cuore della notte, senza
dire
nulla, senza avvertire…” disse Solo, intrecciando
la sua mano con quella del
musico.
All’ostinato
silenzio in cui però il Marinas continuava a nascondersi,
il greco cominciava a spazientirsi: finalmente l’aveva
ritrovato e lui si
comportava in quel modo?
Arrabbiato, si
alzò in piedi, trascinandolo su con sé:
“Sorrento,
parlami, dì qualcosa!” esclamò
esasperato, per poi abbracciarlo di slancio, “Cosa
ti è successo?”.
Da parte sua,
Siren non ce la faceva più, ma se da una parte,
l’intenzione di rivelare tutto al suo signore era forte,
quasi insostenibile,
dall’altra la durezza delle parole dei servitori e della
baronessa lo gettarono
ancora di più nello sconforto.
“La
prego…” sussurrò il biondo,
singhiozzando, “Mi lasci
perdere…” mormorò tra le lacrime,
cercando debolmente di divincolarsi dalla
presa, ma era troppo debole e Julian troppo testardo per starlo a
sentire: “No,
io esigo delle spiegazioni. E le esigo ora! Sorrento,
guardami!” esclamò Solo,
afferrandogli il mento e avvicinando il viso del flautista al suo,
“Se è stata
colpa mia, io…” ma il biondo scosse energicamente
la testa, poggiando la
guancia contro il suo petto.
Julian
restò un attimo interdetto, poi lo avvolse nella sua
stretta: “Cosa è successo?” gli
domandò nuovamente, però questa volta con
estrema dolcezza. Vedendolo aggrapparsi a lui con forza, e vedendone le
gambe
tremare, lo prese tra le braccia, depositandolo sul letto, con la testa
del
ragazzo più giovane poggiata in grembo alla reincarnazione
di Poseidone.
E questa volta
Sorrento non si fece pregare, gli era mancato
troppo il contatto col corpo del suo signore; come un ubriaco, il
musicista
buttò fuori tutto, raccontò delle minacce subite
da parte della baronessa,
spiegò ogni cosa, chiedendo scusa tra le lacrime
all’uomo che gli stava
accanto, stringendogli le mani.
Alla fine del
racconto, Sorrento si sentiva esausto e allo
stesso tempo leggero e libero come una farfalla.
Si era tolto un
grande peso dal cuore.
Un paio di
labbra fresche e morbide si poggiarono sulle sue:
“Già
una volta mi sono preso l’impegno di starti accanto, non
più come Dio e
Generale, ma semplicemente come due esseri umani che si amano
reciprocamente.
Sorrento, sai come la penso in questo caso, e l’unico
rimprovero che posso
muoverti è stato quello di non avermi rivelato sin
dall’inizio questa
situazione, avrei potuto proteggerti. Avrei dovuto proteggerti. Ma te
ne sei
andato e io sono rimasto da solo. Però, però ho
continuato a cercarti. Perché il
mio destino è legato al tuo.” gli disse,
accarezzandogli la fronte sudata.
Poi si
alzò in piedi, guardandolo dritto negli occhi:
“Tornerai
a casa con me?”.
§§§
Una jeep bianca
sollevava un polverone color avorio dalla
strada sterrata che collegava quell’angolo di paradiso dal
resto del mondo; un
giovane uomo alla guida, con occhiali scuri a coprirgli parte del viso
abbronzato sorrise nel vedere la figura massiccia di una villa
stagliarsi di
fronte a loro.
Ridendo, scosse
gentilmente il ragazzo addormentato sul
sedile del passeggero accanto a sé: “Svegliati,
siamo a casa.”.
*Le
frasi in francese si traducono
così:
1)
"Razza di frocio"
2)
"Che diavolo sta
succedendo?"
3)
"Tu, razza di rifiuto umano.
Pagherai per questo"
*Mentre
la frase il greco è
traducibile così:
Ti
Amo.
Ovviamente, Julian è
greco e parla
nella sua lingua (che bella cosa *-*)