Per iniziare, la vendetta.
Per
iniziare, il giuramento di
eterna amicizia.
Il vecchio magazzino era buio e sporco, gli unici spiragli di luce presenti attraversavano le vecchie assi di legno inchiodate malamente sulle finestre, come per sigillare il luogo. L’odore di carcasse in putrefazione, misto a quello del sangue si spargeva nell’aria; puntò lo sguardo su Tsunayoshi, lo fissava con uno sguardo diverso da quello di sempre, meno impacciato, meno insicuro. Sembrava quasi un’altra persona.
L’ufficio
era illuminato, i raggi del sole filtravano attraverso le tende chiare,
il
venticello primaverile trasportava con se un piacevole profumo di fiori
di
ciliegio.
Guardò
Giotto, un sorriso pacifico era dipinto sulle sue labbra, persino i
suoi occhi
gli trasmettevano una calma al di fuori del comune. Stimava quella
persona.
La persona che lo avrebbe portato alla rovina.
La
persona che avrebbe portato alla rovina.
Tsunayoshi Sawada lo fissava con odio, Mukuro sapeva bene il perché: aveva osato toccare i suoi amici, possederli e scagliarli contro di lui, come sue pedine. Desiderava la Vendetta, voleva sterminare la Mafia, distruggere i Vongola, distruggere Tsunayoshi Sawada.
Giotto
e i suoi sorrisi. Sospettò di essersi innamorato di
quell’uomo, sotto qualsiasi
punto di vista, probabilmente il suo non era un amore simile a quello
che si
provava fra uomo e donna; il
suo
rispetto che di lì a poco si sarebbe trasformato in
fanatismo, l’aveva preso
talmente tanto da amare non solo gli ideali di quell’uomo, ma
qualsiasi cosa
potesse far parte del suo essere.
Piuttosto che arrendersi ai Vongola, si tolse la vita, ovviamente con un piano di riserva, alla fine sarebbe tornato e con un obiettivo: il corpo di Tsunayoshi Sawada sarebbe stato suo.
Aveva venduto la sua libertà alla Mafia, rimanendo rinchiuso nella prigione dei Vindice per anni, alimentando il suo odio verso la Mafia, verso i Vongola, verso lui.
Accanto
a Giotto e il resto del gruppo che ben presto diventò una
vera e propria
Famiglia, si sentiva imbattibile e veder realizzarsi un futuro che
sembrava
sempre più lontano così in fretta lo rese felice,
un futuro migliore che spesso
comportò a perdite, che servirono anche ad aumentare il
prestigio la Famiglia,
almeno dal suo punto di vista. Di una cosa era certo,
l’avrebbe seguito per
sempre.
Rinchiuso all’interno di quella “cella” realizzò di non poter far nulla, così stipulò un patto con una giovane in fin di vita, in cambio del suo corpo l’avrebbe mantenuta in vita con le sue illusioni, così lui avrebbe avuto un corpo per potersi muovere e avvicinarsi maggiormente a Tsunayoshi Sawada.
Il
potere, la gloria, le vittorie. Giotto non sembrò lasciarsi
trascinare da tutto
questo, ma insomma … non che si aspettasse un cambiamento da
una persona
modesta come lui, anche per questo lo stimava. Era felice di essere un
Guardiano di Giotto, lo faceva sentire importante.
Un anello, l’anello della Nebbia. Ciò comportò a renderlo parte di qualcosa che lui disprezzava più di qualsiasi altra cosa, la Mafia.
Peggio ancora comportò alla protezione di Sawada Tsunayoshi, Gokudera Hayato subito intuì i suoi piani e cercò di ostacolarlo mettendosi contro la piccola Chrome, il suo recipiente umano, ma allo stesso tempo riuscì a vedere qualcosa di positivo, più poteva stare vicino a lui, più aveva la possibilità di annientarlo, lentamente.
Le
sue idee entrarono spesso in contrasto con G. , il Guardiano della
Tempesta.
Secondo lui non meritava il ruolo di Guardiano della Nebbia,
probabilmente
perché secondo lui, stava vicino a Giotto in una maniera
quasi compulsiva,
deviando i suoi ideali con i propri.
Che
assurdità, Giotto non era quel genere di persona, era un
po’ ingenuo, sognatore
… ma non si sarebbe mai lasciato traviare da lui.
«Mukuro
dice di non far parte
della Famiglia, eppure spesso ci aiuta, lo considero un nostro compagno.»
«Sono
felice che
Daemon sia parte della mia Famiglia, senza di lui tutto ciò
che abbiamo
realizzato fin ora, sarebbe stata un’utopia.»
Passò
la bellezza di dieci anni. Chi l’avrebbe mai detto? Era
ancora al suo fianco.
Passò
tantissimo tempo, ma lui non fu più al suo fianco.
Tsunayoshi
Sawada diventò una sua debolezza, la persona che odiava ma
che allo stesso
momento voleva proteggere.
Lo
voleva proteggere a tal punto da odiare la sua vicinanza con qualcuno
che non
si trattasse di lui, cosciente del fatto che il suo comportamento
spesso
sfiorava il ridicolo.
Giotto
diventò la sua debolezza, la persona che amava ma che allo
stesso momento desiderava eliminare. I loro ideali si opposero con il
passare
del tempo, Giotto non era una persona crudele come lui, lui piangeva
per le sue
vittime, questo lo rendeva un uomo debole.
Si
alleò con un uomo dai capelli neri e con occhi malvagi, che
presto scacciò Giotto ed assunse il trono insanguinato dei
Vongola.
Una
notte tornando in hotel, più ubriachi del solito consumarono
nella stanza di
Tsuna; strinse a se quel corpo sottile ed apparentemente indifeso, lo
sentì
gemere, sussurrare più volte il suo nome.
La
ragione lasciò posto al desiderio, il desiderio
neutralizzò l’odio.
La
stessa notte di quel giorno dettato dal fato decise di lasciare
una traccia indelebile sul corpo di Giotto, lo violò, contro
il suo volere,
facendogli più male possibile.
Non
era mai stato bravo ad esprimere i suoi sentimenti, quello fu
l’ultimo grosso errore che riuscì a compiere nei
confronti di Giotto.
L’amore
lasciò posto alla pazzia, la pazzia neutralizzò
la
ragione.
Un
sorriso, e poi quella frase
che lo spiazzò «Credo di amarti.»
Un
sorriso malinconico, poi quella frase che lo spiazzò «Credo
di amarti,
scusa se non sono abbastanza per te.»
La
consapevolezza che quello non fu un errore, che in fondo era lo stesso
che
provava anche lui, si era fatta pressante nel suo cuore.
La
consapevolezza che quello fu un errore, il senso di colpa, la
rabbia verso se stesso, aumentarono in maniera smisurata.
L’ultima
volta che riuscì a vedere Tsuna, fu prima della guerra
contro Byakuran. L’aveva
guardato con uno sguardo preoccupato, avrebbe voluto accompagnarlo, ma
Tsuna
aveva richiesto la presenza di Yamamoto e Gokudera.
«Ci
rivedremo presto.»
Il
suo sorriso, le sue spalle esili, in fine la porta che si chiudeva.
L’ultima
volta che riuscì a vederlo, fu prima della fine. Il suo
sguardo era determinato anche dopo tutte le umiliazioni subite,
coraggioso e
bellissimo come la prima volta che l’aveva incontrato.
«Ti
ostacolerò.»
Il
suo sorriso che gli provocò una fitta al petto, fra le mani
stringeva un orologio da taschino, simbolo del suo giuramento.
Quando
lo rivide, riuscì a dire, “Ti amo.”
Quando
lo rivide non poté parlargli, lui non era più fra
i vivi.
Aveva
mantenuto la promessa.
Non
aveva mantenuto la promessa.