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Autore: hikarufly    04/02/2011    1 recensioni
Una sorta di continuazione di "Uno scandalo in Boemia", sempre scritto da me. Questa volta però è tutta farina del mio sacco :)
ho scritto what if come avvertimento perché non sapevo come altro classificarla XD
Genere: Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il ciclo di Irene Adler'
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«John, sono da Irene... non... non so neanche come sia potuto succedere»

Il respiro di Watson si troncò per qualche secondo. Non era molto tempo che non sentiva quella voce, ma il tono che aveva... gli sembrò di vedere le lacrime che le scendevano per le guance e il pianto che le impastava la bocca.

«Mary, di che parli? Che è successo?» chiese il medico. Sherlock rimase indifferente, ma la nota del violino uscì meno stridula.

«Ti prego... vieni e basta, e portalo con te» concluse lei, chiudendo il telefono. Il cuore di John sprofondò. Solo una cosa poteva rendere Mary così, e rimase ammutolito di fronte a Sherlock, che lo osservava in attesa di un qualche segnale.

«Credo che sia successo qualcosa a Godfrey Norton, qualcosa di brutto. Era Mary al telefono, piangeva e mi ha chiesto di farti venire con me dai Norton» disse John, guardandolo con una faccia che non ammetteva un no. Sherlock ci pensò su qualche secondo e si alzò, raggiungendo il punto della stanza in cui aveva lasciato cappotto e sciarpa la sera prima.

Mary era fuori dalla porta della casa di Pitt Street dove la signora Norton aveva accolto il solicitor, decidendo di non trasferirsi più lontano da Holland Park. La ragazza di John da ormai un anno e mezzo si muoveva ansiosamente avanti e indietro di qualche passo, giocando con la collana che lui le aveva regalato, per il nervosismo. Non appena Mary vide John scendere dal taxi parve crollare e gli saltò al collo, piangendo. Lui la circondò con le braccia e capì all'istante quel che era successo. Sherlock non si fermò a consolare nessuno e salì al piano di sopra, dove di sicuro stava la camera da letto. Si bloccò sulla porta, appoggiandosi agli stipiti.

Irene Norton, nata Adler, era in ginocchio sul letto, la spallina destra della camicia da notte che le ricadeva leggera sul braccio. Era probabilmente sotto shock, i capelli rossicci scompigliati, il viso bagnato di lacrime, il naso colante e gli occhi ancora pieni, le labbra che tremavano così come le sue mani, sollevate a poca distanza da suo marito, perfettamente immobile. Sarebbe sembrato solo addormentato, in una strana messa in scena, se non si fosse potuta vedere una grossa macchia di sangue che era sgorgata da una ferita provocata da uno stiletto appena sotto il suo petto. Sherlock restò fermo qualche secondo di troppo, rispetto a quanto usava fare, a guardare l'unica donna che l'aveva mai battuto. Gli sembrò troppo vulnerabile per essere la stessa, ma la sua mente non vagò tra gli argomenti che più detestava.

Come poteva Irene non aver sentito che uccidevano suo marito, accanto a lei? La macchia di sangue su di lui era abbastanza ampia e distribuita in un modo che faceva ipotizzare la pressione di qualcosa e di qualcuno, ma sembrava che non se ne fosse accorto... Sherlock si voltò verso il mobile: un flaconcino di medicine. Quando si fu avvicinato, notò che era un sonnifero molto comune, acquistabile senza ricetta medica, a cui, dopo una osservazione veloce, mancavano due pillole. Di fianco era abbandonato lo scontrino: la data e l'ora erano della sera precedente, poco prima della chiusura canonica delle farmacie di Kensington.

L'arrivo di Watson e Mary fu annunciato dai passi sulle scale, e questo fece voltare Irene, che non si era neppure accorta dell'arrivo di Sherlock. La fidanzata di John sembrava non riuscire a staccarsi da lui, ma lo lasciò andare da solo verso Irene, che nel vederlo trasformò il suo viso in una maschera di dolore e si rannicchiò, coprendosi la faccia con le mani. Sherlock rimase di nuovo interdetto, guardando John: il dottore all'inizio credette che fosse indispettito dal tanto rumore mentre stava lavorando, ma c'era qualcosa di diverso nei suoi occhi e nella sua espressione. Senso di giustizia? Non lo seppe dire, ma si tolse la giacca e la mise sulle spalle di Irene, che prese e con gentilezza spinse lontano dal letto. Lei non sembrava riuscire a camminare da sola, e John fu costretto a prenderla con l'intero braccio per trascinarla fuori. Sherlock li guardò uscire sentendo la morsa di quella che era sicuramente gelosia. L'aveva provata prima solo una volta, e quindi non riuscì a dedurre da che cosa provenisse ma fu più che sicuro che lo colpì quando Irene si era aggrappata a John, trasfigurata dal dolore, e lui l'aveva stretta più forte. Sherlock si avvicinò al letto. Anche se la sua espressione non dava segno di dolore o spavento, la macchia di sangue sparso sul letto la diceva lunga sulle sue condizioni. Sherlock lo osservò con attenzione: portava dei pantaloni scuri, simili a quelli delle tute da ginnastica, niente calzini, ed era torso nudo, dal quale spuntava uno stiletto non troppo particolare, con l'elsa color ciliegio e un motivo a spirale intrecciato sopra, color argento. Intorno alla ferita vi era del sangue coagulato e anche rappreso, che si congiungeva a quello che aveva bagnato le lenzuola, il cui flusso si era fermato vicino a Irene, senza toccarla. La coperta era leggera, cosa normale dato che stava arrivando l'estate, e lo copriva in parte: probabilmente Irene aveva mosso qualcosa prima di rendersi conto che era troppo tardi. Stava per esaminare se fosse rimasto qualche residuo su di lui, quando sentì entrare qualcun altro. Non era il passo di John, né quello di una donna. Era la polizia, e quando alzò gli occhi se ne rese subito conto.

«Gliel'aveva detto il sergente Donovan, ispettore... l'avremmo trovato su una scena del crimine, prima o poi...» disse una voce fastidiosamente familiare.

«Anderson... ancora una volta dimostri ai presenti l'esatta misura del tuo cervello, cioè quella di una noce» commentò Holmes «sono stato chiamato da Mary Morstan, la quale ha fatto l'evidente errore di telefonare anche alla polizia» concluse, irritato, allontanandosi dal letto mentre vedeva arrivare Donovan e Lestrade, che lo osservarono contrariati, quando si fermarono davanti alla porta. John uscì dalla stanza accanto, una piccola camera da letto per gli ospiti, in cui Mary stava tentando di calmare Irene.

«Che storia è questa, dottor Watson?» esclamò Lestrade. Quando John gli fu vicino gli fece cenno di seguirlo ma di fermarsi dove si stava fermando lui, cioè vicino alla porta aperta della stanza vicina.

«La mia ragazza, Mary, è la migliore amica di Irene nonché la segretaria di Godfrey Norton, la vittima. Irene Norton ha chiamato Mary questa mattina, e lei ha telefonato a me, prima di voi della polizia» spiegò, con la voce un po' bassa. Donovan rimase nel corridoio insieme a un paio di agenti di supporto, mentre Lestrade entrava nella stanza. Irene alzò il viso, reprimendo un singhiozzo e pulendosi il viso con un fazzoletto datole da Mary, che le accarezzava le spalle. Quando vide Lestrade, si strinse nella giacca di John, rendendosi conto di essere ancora in camicia da notte.

«Vado a prenderti la vestaglia, ok?» le sussurrò Mary, e ad un cenno da parte della donna, si alzò, uscendo mentre Sherlock, cacciato dalla camera, entrava. Irene strinse ancora di più la giacca.

«Mrs Norton, mi dispiace per la sua perdita. So che probabilmente in questo momento non vorrà parlare con nessuno, ma dovremmo ricostruire i fatti il prima possibile per iniziare le indagini» disse l'ispettore Lestrade, ormai abituato da anni di carriera ad affrontare questi problemi, con un tono neutro ma non freddo. Irene deglutì, e le labbra le tremavano mentre parlava.

«Io... ricordo solo di aver preso un sonnifero per dormire, ultimamente... ultimamente mi sento sempre nervosa e sotto stress e ieri sera lo ero ancora di più. Mi sono addormentata e questa mattina, al mio risveglio...» si asciugò gli angoli degli occhi, arricciando in giù le labbra per qualche secondo e soffiandosi il naso «non mi sono mossa dalla stanza e ho chiamato Mary...»

«Signore...» lo chiamò un suo agente, un ragazzo giovane e magrolino «abbiamo trovato qualcosa, venga»

Lestrade, seguito a ruota da Sherlock, seguì l'agente fino a un ripostiglio piuttosto ampio: dal soffitto pendeva, aperta, quella che poteva essere solo una botola, della stessa grandezza del ripostiglio. Dietro a una scaffalatura mobile trovarono una scala: Holmes riuscì a farsi strada per primo, e l'ispettore non lo gradì affatto. 

La soffitta era abbastanza luminosa, dei pannelli nascosti erano aperti alla luce esterna, ed era piena di polvere, ma solo in alcuni punti. Sherlock notò subito che c'erano delle zone completamente pulite e dei segni di trascinamento, tra alcuni oggetti coperti da dei teli. 

«Che cosa c'era qui?» domandò Sherlock ad alta voce, come sempre senza curarsi che qualcuno gli rispondesse. Lestrade lo superò e andò a vedere che cosa celavano i teli rimasti e di fronte a loro si parò quello che era con tutta probabilità un quadro di più di un secolo, dipinto con maestria e grazia, accanto a un cassone decorato e intagliato da mani esperte. Si sentirono dei passi un po' lenti e stentati e Sherlock si avvicinò alla scala. Lestrade rimase sbalordito nel vedere il suo “consulente” porgere la mano a Irene Norton, per aiutarla a salire nella soffitta. La signora si aggrappò con l'eleganza di una vera attrice e salì, sbigottita quanto loro.

«Non ho mai visto questa soffitta...» commentò lei, guardandosi intorno dubbiosa, e sembrava che la sorpresa riuscisse a distoglierla almeno per un secondo dai fatti accaduti al piano di sotto. Ovviamente poteva occupare la sua mente, ma non distrarre il suo cuore.

«Ne sapeva niente? Lei o suo marito?» domandò Lestrade. Sherlock si avvicinò al quadro e lo portò alla luce.

«Difficilmente qualcuno li avrebbe lasciati qui sapendone l'esistenza. Solo questo piccolo quadro potrebbe valere migliaia di sterline, per non parlare dei mobili e di quello che è stato trafugato» commentò, rispondendo prima di Irene, che comunque parlò con l'ispettore.

«No, le posso assicurare che non sapevo neppure ci fosse una botola di accesso in questo punto della casa. Mio padre non me ne ha mai parlato, e penso che se Godfrey avesse saputo, me ne avrebbe parlato» concluse, mentre il labbro le tornava a tremare.

Sherlock esplorò l'ambiente, ma non riuscì a dedurre niente altro se non che gli oggetti mancanti erano stati portati via in tutta fretta, probabilmente senza far caso effettivamente al loro valore, dato che era rimasto un soprammobile napoleonico e qualche tela piuttosto preziosa che un conoscitore anche mediocre dell'ambiente dell'antiquariato non si sarebbe lasciato sfuggire. Irene Norton si stringeva nella sua vestaglia, in un limbo tra l'imbarazzo di trovarsi ancora non vestita, la paura dell'abbandono e il dolore dell'omicidio. Lestrade le fece cenno di scendere, posandole la mano sulla spalla con un sorriso amaro che metteva su sin dai suoi primi casi di omicidio con i familiari più stretti delle vittime, a metà tra il comprensivo e il sospettoso. La accompagnò di sotto, e Sherlock lo notò con quella fastidiosa punta di malessere, che svanì subito.

«Mrs Norton, mi dispiace doverglielo chiedere, ma dovrebbe seguirci in centrale appena ne sarà in grado. Vorremmo far sì che venga esclusa dai sospetti il prima possibile» spiegò Lestrade, mentre Holmes scendeva a sua volta. Irene parve profondamente offesa e confusa.

«Che cosa vuole dire, ispettore?» domandò, stringendosi ancora la vestaglia intorno al collo più nervosamente «ho preso un sonnifero, gliel'ho detto. Il mio è un matrimonio felice, lo è sempre stato» concluse, mentre gli occhi le tornavano lucidi ma cercava di resistere e non crollare ancora. Lestrade sembrò scusarsi senza parole con la sua espressione, e ribatté:

«Mi dispiace, ma sono le procedure. Basterà un campione di sangue, in genere il farmaco che dovreste aver preso lascia traccia per alcune ore dopo il risveglio»

Irene annuì debolmente, e un agente della scientifica si procurò una piccola siringa sterile e sigillata dal bagno della casa. Il suo sguardo rimase assente durante la procedura e l'ispettore era restio a parlare ancora.

«Dovrebbe lasciare questa casa per un po', Mrs Norton. Abbiamo delle rilevazioni da fare, e...»

Irene annuì più volte con la testa e lo interruppe.

«Sì, sì, ispettore, me ne rendo conto...» disse, quasi ipnotizzata, per poi passarsi le dita tra i capelli e asciugarsi, stropicciandoli, gli angoli degli occhi «ma dove andrò? Quel che resta della mia famiglia si trova lontano dal continente e non...»

«Non ti preoccupare, Irene, verrai a stare da me, finché serve. Non devi preoccuparti di questo adesso» disse Mary, cingendole le spalle con il braccio. Irene annuì e si lasciò guidare verso la stanza degli ospiti, per vestirsi e prendere alcune cose.

«Voglio anche te fuori di qui, Sherlock, per ora. Non voglio che tu interferisca con il lavoro della scientifica, ma se la signora non ha obiezioni al tuo intervento, se non altro arriveremo prima alla soluzione di questo caso» bofonchiò poi Lestrade, dimentico delle buone maniere. Sherlock arricciò impercettibilmente il naso, irritato e fece cenno a Watson di andare.

«Io aiuterei Mary, in effetti. Anche lei è molto scossa, è meglio che accompagni entrambe» spiegò il medico, quasi timoroso di contraddirlo. Come sempre, Sherlock sembrò freddo e indifferente e se ne andò, ma in realtà il suo cervello era già al lavoro.

   
 
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